‘Nella repentinità e imprevedibilità dei suoi attacchi,
nella terribile tortura inflitta alle vittime,
nella brutalità del suo esito letale,
e nel terrore che ispira,
il vaiolo è unico tra le malattie umane’.
Donald RJ Hopkins. In“Princes and Peasants: Smallpox in History”. Chicago, Illinois, U.S.A.: University of Chicago Press, 1983.
Panoramica epidemiologica
Secondo il report più aggiornato dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) datato 11 luglio 2022, dal mese di maggio dell’anno in corso sono stati segnalati 6127 casi confermati di monkeypox (MPX), o vaiolo delle scimmie, nei Paesi dell’Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo: la Spagna guida la classifica con 2034 casi, l’Italia è al sesto posto con 255 [1]. Al computo bisogna aggiungere i casi notificati nel Regno Unito: 1552 al 7 luglio [2].
Proprio nel Regno Unito il 7 maggio 2022 vi è stata la prima segnalazione di un caso di MPX, che appariva chiaramente da importazione, riferito a un uomo con anamnesi di un recente viaggio in Nigeria. Nei giorni seguenti, nuovi casi si sono aggiunti oltremanica, senza apparente anamnesi di viaggio all’estero, e le segnalazioni hanno poi iniziato a fioccare anche nell’Europa continentale. Analoghe notifiche si sono avute anche negli Stati Uniti, dove all’11 luglio i casi confermati ammontavano a 866 [4].
A livello globale la situazione vede oltre 10000 casi in tutti i continenti, sparsi in 65 Paesi: in 59 di questi, come l’Italia, storicamente non vi erano mai stati casi autoctoni di vaiolo delle scimmie, ma soltanto casi legati a viaggi in area endemica o al contatto con animali provenienti da tali aree [5].
L’ultimo bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), datato 6 luglio, registrava dati solo su 6027 casi, con numerosi missing circa informazioni cruciali, quali le caratteristiche demografiche e i fattori di rischio [6]. Dati rilevanti sono la nettissima preponderanza del sesso maschile (99,5%, 4385/4406 – questo denominatore e quelli seguenti sono inferiori a 6027 per il summenzionato fenomeno dei missing data) e un’età mediana di 37 anni (range interquartile 31-43 anni), essendo la fascia 18-44 anni quella più colpita (79%, 4411/5584); inoltre, laddove l’informazione sull’orientamento sessuale era reperibile, il 60% (1214/2025) dei soggetti si è identificato come gay, bisessuale o più generalmente come MSM (men who have sex with men), con un 41% (335/827) di sieropositivi tra coloro che conoscevano il proprio status nei confronti di HIV; infine, alcuni casi tra operatori sanitari sono già riportati (almeno 25) [6].
Una prospettiva storica sul vaiolo
Il vaiolo è stato una malattia millenaria che ha segnato la storia dell’umanità e della medicina.
Storicamente ha rappresentato un flagello non solo per l’elevata mortalità associata (circa il 30%, e ancora più alta in popolazioni “vergini” come quelle delle Americhe o degli Aborigeni australiani al primo contatto con i coloni europei), ma anche per le terribili conseguenze nei sopravvissuti: le cicatrici deturpanti sul volto e altre parti del corpo erano invalidanti oltre che causa di stigma, tanto che la malattia veniva chiamata speckled monster, mostro maculato [7]. Ovviamente solo in epoca moderna si è scoperta l’origine microbica e virale, tuttavia già nei tempi antichi si era capito che fosse una patologia trasmissibile. Dall’Oriente arrivò in Occidente la pratica della variolizzazione: l’esposizione (per inoculazione cutanea o per via inalatoria) a materiale proveniente da pustole di soggetti affetti provocava nel ricevente sano una malattia di solito più lieve, conferendo immunità, visto che era già evidenza empirica il fatto che il vaiolo in genere non si contraesse due volte nel corso della vita [7].
Quello che forse sembrò all’epoca per i contemporanei un piccolo passo, ma che invece si è rivelato un balzo gigante per l’umanità, fu il passaggio dalla variolizzazione alla vaccinazione, ovvero l’utilizzo di materiale biologico associato al vaiolo bovino (la parola “vaccino” deriva tramite il latino da “vacca”), a cui erano esposti per motivi professionali fattori e allevatori [7]. Il britannico Edward Jenner, pur non essendo il primo a suggerire che il vaiolo bovino proteggesse da quello umano né il primo a tentare la vaccinazione, fu colui che tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo promosse la pratica ammantandola di scientificità con una serie di esperimenti, nonostante non avesse le conoscenze microbiologiche necessarie a comprendere l’eziologia virale delle due patologie, legate a due virus simili capaci di generare immunità crociata [7]. Jenner è divenuto così il padre della moderna immunologia e della vaccinologia in particolare.
La vaccinazione antivaiolosa, perfezionata nel tempo, è stata dunque la prima forma di immunizzazione attiva, già protagonista di apposite campagne in molti Paesi nel corso del XIX secolo. Il vaiolo umano risulta a oggi l’unica malattia infettiva eradicata al mondo (l’ultimo caso è stato registrato in Somalia nel 1977): è un risultato straordinario, reso possibile dalla capillare diffusione del vaccino, unitamente alla capacità di quest’ultimo di elicitare una risposta duratura e all’assenza di un serbatoio animale [8]. In Italia la vaccinazione anti-vaiolosa, obbligatoria dal 1934, è stata sospesa nel 1977 per poi essere definitivamente abrogata nel 1981, in linea con le disposizioni prese da altri Paesi occidentali in quegli anni [8]. Su questo sfondo, si innesta l’attuale epidemia.
Monkeypox: quello che sappiamo…
Storicamente il termine “vaiolo” ha dunque identificato i casi di “vaiolo umano”, ma patologie varioliformi possono essere causate da una pletora di virus del genere Orthopoxovirus della famiglia Poxviridae, grossi virus a DNA. Essenzialmente le infezioni da questi virus sono zoonotiche, con la notevole eccezione del vaiolo umano. Circa il vaiolo delle scimmie, esso è innanzitutto un misnomer: il virus fu identificato per la prima volta dalle scimmie in Danimarca nel 1958, tuttavia altri tipi di animali sono ritenuti essere il principale serbatoio, in primis roditori [9].
Il primo caso umano fu descritto nel 1970 nella Repubblica Democratica del Congo e da lì vari focolai sono stati descritti in Africa, specialmente negli infanti non protetti dalla vaccinazione antivaiolosa [10]. Dal punto di visto microbiologico si riconoscono due cladi principali: la più virulenta è quella del Bacino del Congo, la più benigna è quella dell’Africa Occidentale, responsabile dell’attuale epidemia [10].
La trasmissione interumana avviene nelle seguenti modalità [9]:
Dal punto di vista clinico, il monkeypox si configura come una forma classica o attenuata di vaiolo umano. Dopo un periodo d’incubazione di 5-21 giorni, si sviluppano le prime manifestazioni (e solo a questo punto il soggetto è contagioso): febbre, astenia, cefalea, mialgie, linfoadenopatia; quest’ultima è una caratteristica distintiva importante rispetto alle altre forme di vaiolo [9]. Dopo questa fase di cosiddetta “invasione”, 1-3 giorni dopo la comparsa della febbre, inizia l’eruzione cutanea, con la classica evoluzione sequenziale macule-papule-vescicole-pustole-croste; le lesioni possono essere sparute oppure varie migliaia, a ricoprire faccia, estremità, tronco, genitali, mucose orali e congiuntivali [9]. La fine della fase crostosa indica il termine dell’infettività. La malattia è in genere benigna, auto-limitantesi, con un decorso di 2-4 settimane, ma complicanze di vario tipo possono insorgere: encefalite, polmonite, infezione oculare, per esempio; in tal senso soggetti a rischio sono gli infanti, gli immunodepressi e le donne gravide [10]. In queste ultime vi è inoltre un rischio non trascurabile di perdita del prodotto del concepimento o comunque di infezione fetale grave [11].
Un cluster familiare descritto negli Stati Uniti nel 2003, legato a trasmissione zoonotica, diede l’idea dello spettro della malattia: il padre, vaccinato contro il vaiolo, ebbe un’infezione lieve, caratterizzata dalla presenza di sole due lesioni cutanee e da una sindrome simil-influenzale; la moglie ebbe un’infezione sintomatica, con rash diffuso; il figlio di 6 anni ebbe il quadro più grave, con encefalite [12].
Un caso paradigmatico degli attuali focolai è stato recentemente descritto sul New England Journal of Medicine, da cui si evince come tutt’altro che infrequenti siano le presentazioni “atipiche” rispetto a quanto noto sinora: fase prodromica meno prominente, con comparsa di lesione ulcerativa perianale quale prima manifestazione e, soltanto dopo, febbre; esordio del rash in sede ano-genitale e non dal capo, a suggerire che la trasmissione sia avvenuta per contatto stretto cutaneo in quella sede; quadro clinico simile a quello di altre malattie a trasmissione sessuale; evoluzione asincrona delle lesioni [13]. Per questo è fondamentale, nella diagnosi differenziale, prendere in considerazione patologie quali herpes simplex, sifilide, linfogranuloma venereo, mollusco contagioso, cancroide, gonorrea, oltre che varicella [13].
Il 10 giugno è stata pubblicata la prima interim guidance sulla gestione dei casi di monkeypox [14]. Il sospetto clinico va sostanziato da un’attenta anamnesi per contatti a rischio; la diagnosi di certezza è microbiologica, con il rilievo di DNA del virus da tamponi di lesioni cutanee o faringei. In ambito nosocomiale, ogni caso sospetto o confermato va gestito con opportuni dispositivi di protezione individuale: camice, guanti, mascherina FFP2 e protezione oculare [14].
… e quello che non conosciamo (bene)
Dal punto di vista terapeutico, al momento manca un qualsivoglia gold standard frutto di rigorosi trial randomizzati e controllati, tuttavia sono a disposizione alcune armi antivirali da riservare a casi gravi (i.e., encefalite virale) o a soggetti con rischio di progressione verso forme gravi, come gli immunodepressi, le gravide, i bambini al di sotto degli 8 anni [15]. Secondo i Centers for Diseases Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti anche individui con cosiddetta “infezione aberrante” (ovvero impianto accidentale del virus in aree anatomiche a rischio, come gli occhi) sono meritevoli di trattamento [15].
In sintesi, gli antivirali potenzialmente disponibili sono il tecovirimat (si legga anche l’articolo “Tecovirimat: approvato negli Stati Uniti il primo farmaco anti-vaiolo, una malattia eradicata”),
il brincidofovir, il cidofovir, e le immunoglobuline antivaiolo [10]. Il tecovirimat è stato approvato nel 2018 come farmaco anti-vaiolo sulla base di studi animali, ma teoricamente è attivo contro il monkeypox inibendo p37, una proteina altamente conservata negli orthopoxvirus [10]. Il cidofovir è un farmaco di seconda linea anti-citomegalovirus, gravato da grande tossicità; il brincidofovir è il suo profarmaco, potenzialmente più tollerato, ma non privo di epatotossicità nella limitata casistica disponibile [15]; il ruolo di questi farmaci anche in profilassi post-esposizione in soggetti a rischio è sconosciuto, così come non è chiaro se le immunoglobuline derivanti da soggetti vaccinati contro il vaiolo possano avere un ruolo preventivo o terapeutico [14]. In sintesi, la decisione di utilizzare un antivirale al momento è valutata caso per caso, in base anche alla disponibilità dei farmaci.
Dal punto di vista preventivo, le misure farmacologiche a disposizione sono mirate alla profilassi pre-esposizione e a quella post-esposizione [17]. Considerato che, al momento, non è in programma una campagna vaccinale di massa, il problema è la scarsità di strumenti a disposizione, che si basano su vaccini concepiti per il vaiolo umano (con efficacia dell’85% e lunga durata di protezione): fortunatamente c’è una marcata immunità crociata tra vaiolo umano e monkeypox [9]. L’European Medicine Agency (EMA) soltanto a fine giugno ha avviato una revisione del vaccino MVA-BN, basato su virus vaccinico vivo Ankara modificato e incapace di replicarsi (cosiddetto vaccino di terza generazione), già approvato per l’immunizzazione anti-vaiolo, al fine di estenderne l’indicazione anche per monkeypox [18]. Negli Stati Uniti, dove MVA-BN è già approvato per la commercializzazione, è disponibile anche un vaccino antivaioloso di seconda generazione, ACAM2000, consistente in virus vaccinico vivo capace di replicazione nell’ospite, a differenza del precedente [17]. Va da sé che il secondo tipo di vaccino non può essere somministrato a immunodepressi e gravide, che tuttavia sono categorie fragili, a rischio di forme severe di vaiolo delle scimmie. Un altro vaccino di terza generazione è LC16, simile a MVA-BN, al momento approvato solo in Giappone [17].
Una strategia vaccinale è ancora lungi dall’essere ben definita. Le indicazioni attuali sono quelle di offrire la profilassi pre-esposizione a soggetti a rischio, nello specifico operatori sanitari con alta probabilità di entrare in contatto con materiale contaminato (cioè laboratoristi che maneggiano campioni di virus) [17]. La profilassi post-esposizione va offerta a tutti i contatti stretti di un caso indice, preferibilmente nelle prime 96 ore per una piena efficacia, e non oltre i 14 giorni (posto che vi sia totale assenza di sintomi), sfruttando il non breve periodo d’incubazione del virus [17]. Una potenziale strategia di immunizzazione può essere quella di ring vaccination, già implementata per altre patologie come Ebola in zone colpite da focolai in Africa: consiste nel vaccinare i contatti stretti di un caso acclarato, a cui va assegnata dunque una vera e propria profilassi post-esposizione, e poi vaccinare i contatti stretti dei contatti, “ad anello” [19]. Questa strategia ovviamente richiede un impiego di risorse notevoli nel contact-tracing, compito non facile in epoca COVID-19. Negli Stati Uniti i CDC consigliano inoltre una profilassi post-esposizione expanded o plus-plus, rivolta a soggetti che non hanno una documentata esposizione a un caso accertato ma hanno comportamenti a rischio in aree con un focolaio in atto [20].
L’ottimizzazione delle strategie di prevenzione passa anche per la definizione esatta delle modalità di trasmissione. Il timore è che tra queste, come avviene per SARS-CoV-2, possano figurare anche la trasmissione per via aerea (airborne) e quella da soggetti asintomatici: per fortuna queste due eventualità sembrano al momento scongiurate, ma prima di poterlo affermare oltre ogni ragionevole dubbio occorre ancora accumulare dati [21]. Inoltre deve essere chiarita la contagiosità di vari fluidi corporei, essendo stato ritrovato il virus (anche ad alta carica) nello sperma, nelle feci, nelle urine, nella saliva, nei tamponi rettali [22]: potrebbe essere quella sessuale “classica” una via di trasmissione dell’epidemia corrente, spiegando la diversa espressività clinica dei casi rispetto a quanto noto fino al passato recente?
Un’altra domanda inerente agli attuali focolai è: il virus del monkeypox è mutato rispetto al ceppo “storico”, diventando più facilmente trasmissibile? Attualmente l’unica certezza è che il clade in circolazione è quello dell’Africa Occidentale, dunque quello “benigno”. Gli orthopoxvirus sono virus a DNA, come tali aventi un genoma più stabile, che in genere accumula al massimo un paio di mutazioni all’anno (SARS-CoV-2 ne accumula un paio al mese almeno): un recente studio portoghese, tuttavia, ha dimostrato una divergenza più ampia del previsto tra il virus attuale e quello responsabile nel biennio 2017-2018 di un outbreak in Nigeria, di circa 50 polimorfismi a singolo nucleotide, sebbene la rilevanza clinica di tali mutazioni non sia chiara [23].
Dunque, qual è la reale trasmissibilità del virus del monkeypox? Come imparato con la pandemia COVID-19, il parametro cruciale per stimare la contagiosità è il basic reproduction number, o tasso netto di riproduzione, per convenzione R0, che definisce numero di nuovi casi generati in media da un singolo soggetto durante il proprio periodo di contagiosità in una popolazione suscettibile; solo per valori superiori all’unità una malattia contagiosa può propagarsi in una popolazione. La potenziale brutta notizia è che il valore R0 per monkeypox potrebbe essere 2,14 (intervallo d’incertezza 1,46-2,67) [24], un valore lontano da quello del vaiolo umano (3,5-6) ma molto vicino alle prime stime relative a SARS-CoV-2 all’esordio della pandemia, quando si era alle prese con il ceppo ancestrale (il Wuhan virus).
La stima è stata elaborata in uno studio del 2020 di ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi, che hanno rianalizzato i dati relativi ai casi di monkeypox nella Repubblica Democratica del Congo tra il 1966 e il 1984 [24]. Nella realtà la contagiosità è stata molto minore, meglio catturata dal cosiddetto tasso di riproduzione effettivo Re, che tiene conto dell’eterogeneità della popolazione, che può essere in una sua frazione più o meno grande immune al patogeno. Difatti, nel Paese centrafricano la vaccinazione antivaiolosa è stata implementata fino al 1980, con un’elevatissima copertura: in questo contesto Re risultava 0,32 (0,22-0,40) [24]. Pertanto risulta evidente il ruolo protettivo dell’immunità indotta dal vaccino vaioloso. Gli autori dello studio stimavano inoltre un Re tra 1,10 e 2,40 in uno scenario in cui l’esposizione naturale a virus vaiolosi è trascurabile e l’immunità nella popolazione è scesa al 10-25% [24]: non si può non pensare al fatto che tale scenario, nel quale monkeypox può innescare un’epidemia di vasta portata nella popolazione, possa ricalcare quello attuale di moltissimi Paesi, Italia inclusa, in cui pressoché la totalità degli under 45 non è stata vaccinata contro il vaiolo; poi, nelle fasce d’età più avanzate il combinato disposto di immunosenescenza, fragilità e verosimile declino della risposta anti-vaiolosa elicitata vari decenni prima rende improbabile un’immunità sostenuta.
D’altronde, già un’ampia revisione sistematica a inizio 2022 indicava la cessazione della vaccinazione anti-vaiolo, col venir meno della relativa immunità crociata, come fattore cruciale nel predisporre un quadro di resurgence of monkeypox [25].
Conclusioni
Il vaiolo delle scimmie ha in definitiva il potenziale per diventare un’emergenza globale di salute pubblica, per quanto l’OMS a fine giugno non l’abbia dichiarato [26]; il 21 luglio è attesa comunque una nuova deliberazione in merito [27].
Vi sono quattro traiettorie plausibili circa l’evoluzione dell’epidemia nel futuro a breve-medio termine [28].
Nell’ipotesi migliore, l’attuale outbreak si auto-limita nei vari Paesi, in virtù di un basso Re e soprattutto di un’efficacia applicazione di misure di contenimento (ring vaccination, modifiche comportamentali di soggetti a rischio). Vi è la possibilità che il virus si propaghi nella popolazione, specialmente negli under 50 che non sono coperti dalla vaccinazione antivaiolosa, ma che l’epidemia si affievolisca comunque abbastanza rapidamente in ragione della limitata trasmissibilità. Il fatto però che i quadri clinici possano non essere univoci potrebbe favorire uno stato di bassa endemia, in cui una certa quota di casi non viene riconosciuta facendo sì che la catena del contagio non si interrompa facilmente. Lo scenario peggiore è quello di picchi epidemici ricorrenti, favoriti magari sia da spillover zoonotici sia da mutazioni virali.
In conclusione, proprio nel mezzo della prima vera pandemia dell’età della globalizzazione, una nuova sfida infettivologica si profila. È verosimile che gli attuali focolai di monkeypox siano legati a eventi super-spreader in alcune città europee e che la promiscuità sessuale, specialmente nel caso di MSM, abbia favorito la propagazione del virus. Nonostante la popolazione giovane, quella allo stato attuale più colpita, non abbia alcuna immunità anti-vaiolo, l’espressività clinica dei casi notificati è in gran maggioranza lieve, con evoluzione favorevole in poco tempo, e in ogni caso è abbastanza differente rispetto a quanto osservato nei focolai africani in passato. Una modalità di contagio più affine a quella delle classiche malattie sessualmente trasmesse potrebbe spiegare questo dato, ma c’è ancora tanto da studiare e, soprattutto, c’è da lavorare per spegnere sul nascere questi focolai ed evitare il coinvolgimento di persone fragili, come bambini, gravide, immunodepressi. In tal senso, un grande sforzo sarà richiesto dalla medicina di comunità e da quella ambulatoriale, specialmente negli ambiti delle malattie infettive, della dermatologia, della venereologia, per intercettare il maggior numero di casi e attivare le strategie di contenimento più confacenti.
Bibliografia
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© 2022. This work is published under https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode (the “License”). Notwithstanding the ProQuest Terms and Conditions, you may use this content in accordance with the terms of the License.
Abstract
According to the most up-to-date report from the European Center for Disease Prevention and Control (ECDC) dated 11 July 2022, 6127 confirmed cases of monkeypox (MPX), or monkeypox, have been reported in countries since May. Of the European Union or the European Economic Area: Spain leads the ranking with 2034 cases, Italy is in sixth place with 255 [1]. To the calculation we must add the cases notified in the United Kingdom: 1552 to 7 July [2]. Just in the United Kingdom on 7 May 2022 there was the first report of a case of MPX, which appeared clearly from import, referring to a man with history of a recent trip to Nigeria. In the following days, new cases were added across the Channel, with no apparent travel history abroad, and the reports then began to flock to continental Europe as well. Similar notifications were also received in the United States, where as of 11 July the confirmed cases amounted to 866 [4].
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