(ProQuest: ... denotes formulae omitted.)
Nella vasta eredità letteraria di Massimo il Greco il tema della venerazione delle icone e l'analisi di singoli soggetti iconografici occupano uno spazio piuttosto limitato. Tuttavia queste brevi composizioni ci consentono di valutare in maniera nuova alcune questioni che turbavano la società russa del XVI sec. Si deve osservare che le riflessioni di Massimo il Greco su questo tema non sono mai diventate oggetto di ricerca. Di solito si trovano solamente brevi citazioni all'interno di studi che solo indirettamente riguardano le concezioni del monaco atonita.
Innanzitutto è necessario definire l'insieme delle opere di Massimo il Greco, legate al tema del culto delle icone e all'iconografia.
Tradizionalmente i ricercatori attribuiscono a Massimo il Greco il Racconto sulle sante icone (Skazanie o svjatych ikonach), nel quale vengono stilate le regole di condotta dei pittori di icone1. Tuttavia non esiste alcun serio fondamento per ritenere che esso sia attribuibile a Massimo. Per stile e contenuto il Racconto si avvicina agli articoli dedicati al medesimo tema nelle disposizioni del Concilio dei cento capitoli, il cosiddetto Stoglav (Emcenko 2000). Questa tradizione ha origine negli scritti di Iosif di Volokolamsk. Questo testo non è presente in alcuna raccolta composta quando Massimo era in vita ed è conosciuto solamente attraverso tardi manoscritti dei vecchi credenti e, verosimilmente, si tratta di una compilazione non anteriore al XVIII sec. Per questo noi non lo analizzeremo.
Per contenuto, gli articoli che senza dubbio appartengono a Massimo il Greco e riguardano il tema della venerazione delle icone e dell'iconografia possono essere divisi in due gruppi. In primo luogo dobbiamo considerare il Discorso sulla venerazione delle sante icone (Slovo o poklonenii svjatych ikon): secondo la variante isolata della raccolta RNB, Sol. 495/514, gl. 128, "contro gli eretici", secondo la raccolta di Rumjancev, "contro l'iconoclasta che si è manifestato in Germania, Lutero"2, e nella raccolta del monastero Soloveckij "contro l'iconoclasta Lutero" o semplicemente "contro i luterani"3. Innanzitutto il Discorso compare nella raccolta di Rumjancev, composta quando Massimo il Greco era in vita e alla cui composizione partecipò egli stesso, e questo rende l'attribuzione del tutto attendibile. L'opera appartiene alla sua tarda produzione, trascritta nel periodo in cui egli si trovava nella Laura della santa Trinità, ovvero all'inizio degli anni Cinquanta del XVI sec. Questa opera è stata più di una volta diffusa sia all'interno delle grandi raccolte, sia separatamente. I vecchi credenti le hanno attribuito grande valore. Per quanto riguarda l'orientamento "contro Lutero", già da tempo si è affermato il giudizio secondo cui questa definizione sarebbe più tarda e imprecisa. La stranezza sta nel fatto che proprio tale definizione si trovi nei manoscritti contenenti la correzione d'autore di Massimo il Greco. Tuttavia, effettivamente, dietro al titolo Discorso sulla venerazione delle sante icone si nascondono tre testi diversi, giustamente indicati, per la prima volta, da Nicoletta Marcialis, la quale ha attribuito a Massimo il Greco solo una delle tre varianti4. Questo primo lavoro specialistico sul Discorso, però, non è esauriente, e pone piuttosto nuove domande, che meritano un'approfondita analisi. Dedicheremo, dunque, uno studio particolare alla complessa e rilevante questione che riguarda una delle fasi di formazione del concetto di venerazione delle icone in Russia, e contestualmente di assimilazione dell'eredità bizantina in questo ambito, tenendo conto del ruolo che in questo processo ha rivestito Massimo il Greco.
Il secondo tipo di opere è rappresentato da una serie di brevi articoli su singole questioni di iconografia. Naturalmente il termine stesso "iconografia" è stato introdotto dai ricercatori nel XIX sec., e non era noto al monaco del monte Athos. Tuttavia ce ne serviremo perché ci sembra la più precisa e generalmente accettata definizione dell'insieme di questioni di cui stiamo parlando.
Massimo spiegava ai suoi "interlocutori" e destinatari che cosa significassero l'uno o l'altro simbolo, il nome o il testo sull'icona. Si tratta, in primo luogo, di tre piccoli articoli, quasi sempre citati insieme: sulla corona del Salvatore, sul rotolo nella mano del Salvatore e sul nome della Madre di Dio; essi sono presenti nelle raccolte di Chludov e Rumjancev, compilate quando Massimo era ancora in vita5. In secondo luogo, il Racconto sulla sacra immagine del Cristo Salvatore chiamata Accidia (Skazanii o svjascennom obraze Spasa Christa, ego ze nazyvajut Unyne): esso è presente nelle stesse raccolte, ma separatamente dai tre testi citati6. Proprio di questo insieme di brevi interpretazioni di concreti soggetti iconografici tratterà la presente pubblicazione.
In terzo luogo, è possibile mettere in relazione con lo stesso tipo di "interpretazione" il giudizio espresso oralmente da Massimo il Greco sull'icona Tu sei sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek (Ty esi archierej po cinu Mel'chisedekovu) e il Racconto (Skazanie) su quest'icona: questo racconto è trascritto da Dmitrij Gerasimov nell'Epistola al diacono Misjur'-Munechin7; a questo tema è in parte collegato un altro articolo di Massimo il Greco contro un apocrifo su come "ordinarono al sacerdozio Cristo" (Christa vo svjascenstvo stavili)8. Tuttavia questo soggetto è strettamente legato alla complessa polemica intorno alla citata icona, all'"affare I. M. Viskovatij" e ad altri importanti episodi, per cui esso richiede un'analisi separata in un altro studio.
Detto ciò, questo articolo tratterà del secondo gruppo di opere di Massimo il Greco, legate al tema della scrittura di icone e della loro venerazione.
I racconti sulla corona del Salvatore, sul rotolo nella mano del Salvatore e sul nome della Madre di Dio
Dello stesso monaco Massimo il Racconto sulla corona del Salvatore
(appare disegnato un semicerchio con delle lettere: in alto "o"; in basso a sinistra "omega"; a destra "n"; le lettere raffigurano un triangolo) Capitolo 53
(RNB, Sol.495/514, f.365 v.) Di queste [lettere] "O ω H", che gli scrittori di icone scrivono sulla corona del Salvatore, ti sia noto che questa è un'espressione ellenica, cioè greca, e che si interpreta in lingua russa: "syj". E questa parola syj si interpreta "che sono" o "che è". (a margine: Esodo 3). Con questo nome il Pantocratore chiamò se stesso davanti a Mosè, quando lo mandava in Egitto. Gli disse: "Dì ai figli di Israele che "O ω H", ovvero syj, ti ha mandato loro". Così chiamò se stesso l'Altissimo, perché egli solo per natura è sostanza, non avendo né principio, né fine, ma abbraccia tutto ciò che è, e il passato, e il presente, e il futuro, per questo si chiama colui che è per sempre. Tutte le altre Sue opere, dunque, visibili e invisibili, da Lui e per la Sua grazia hanno esistenza e vita e movimento e rimangono e sono. (a margine: Giovanni 1). Egli non fu da nessun'altro, né ha ricevuto l'essere, ma sempre egli per sé fu, è e sarà nei secoli senza fine, senza inizio, immortale e senza fine per natura, vita per tutti gli esseri viventi e sostanza per tutti gli esseri esistenti. Gli angeli e le anime umane sono per la Sua grazia, e non si crearono da sé, e da Lui ricevono l'immortalità. Ma su questo si è detto abbastanza.
...
(RNB, Sol.495/514, f. 366) Sul rotolo, che si trova nella mano del Salvatore.
E sul rotolo, che dipingono nella mano del Salvatore, questa è l'interpretazione. Prendila dal quinto verso del settimo canto dell'acatisto nel quale si dice: Ti lodano i beati confini, cioè tutto l'ecumene e con amore ti cantano: rallegrati [ave], o rotolo, in cui col dito del Padre è stata scritta la parola pura (a margine: Triodo, sabato cinque di quaresima). Dal momento che ogni parola umana di solito viene scritta sulla carta, mentre il Figlio viene detto Verbo di Dio secondo quanto è stato detto: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio. Per questo la sacra scrittura nelle parole di Isaia in figura per mezzo del rotolo rivela l'incarnazione senza seme dell'Emmanuele. Quanto è scritto dice: fatto dal dito del Padre, cioè per la copertura dell'ombra dello Spirito Santo, secondo quanto è scritto: lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo stenderà su di te la sua ombra (Lc 1, 34). Nel rotolo, cioè nella santa Sua carne. Il rotolo dunque rivela la santa carne dell'Emanuele e il ventre purissimo della purissima Madre di Dio e sempre vergine Maria. Ma su questo si è detto abbastanza.
Sul nome della Madre di Dio
E ciò che scrivono su entrambi i lati della santa icona della Madre di Dio: ... (caratteri presenti sotto i "titoli"). Vedi che questi caratteri ed espressioni sono di origine greca. Significa così: "Mitir'' Theu", che in russo è: Madre di Dio, e non Marta, né Mirthu, come alcuni pensano invano per ignoranza della lingua greca. Il nome della Madre di Dio è Maria, e non Marta o Mirthu.
...
Due dei tre testi sono interpretazioni elementari di caratteri greci, che non erano comprensibili all'uomo russo. Essi si sono conservati sia sulle icone greche, sia su quelle minuziosamente ricopiate da modelli greci. Col tempo i caratteri non comprensibili sono stati travisati, interpretati a modo proprio, e per questo sono sorte delle supposizioni per cui si pensava che nell'icona fosse rappresentata Marta, e non la Vergine Maria. La spiegazione del significato del testo sul rotolo mostra altresì che le icone antiche, che risalivano a modelli greci, spesso erano divenute non del tutto comprensibili. Questo testimonia la perdita di una precisa conoscenza della tradizione iconografica bizantina, e la comparsa della possibilità di sviluppare interpretazioni proprie, locali, di singoli soggetti. Nella pittura moscovita sia della metà del XVI sec., sia del secolo successivo, fino al Grande Sinodo di Mosca degli anni 1666-1667, simili tendenze si sono manifestate piuttosto chiaramente. Il tentativo di Massimo il Greco di tradurre le note sulle icone per i corrispondenti russi può rappresentare un esempio semplice ma significativo del processo di allontanamento della pittura di icone russa dalla tradizione bizantina allora in corso.
Racconto sulla sacra immagine del Cristo Salvatore, chiamata Accidia
(RNB, Sol.494/515, f. 591) La sacra rappresentazione della santa e venerata icona del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, chiamata in latino Pietas (Pieta), e in russo misericordia e devozione, e non accidia. Non è un'invenzione della sapienza umana, ma lo stesso Salvatore si mostrò così al suo santo vescovo, al santissimo papa di Roma Gregorio, autore di dialoghi edificanti, come pure al suo diacono Pietro. Mostrò se stesso durante la santa liturgia, mentre il santissimo Gregorio celebrava (f. 591v) il sacrificio terribile e incruento, quando metteva nel calice la quarta parte dell'agnello santo e venerato. Allorché Gregorio vide questa rappresentazione divina non fatta da mani d'uomo, che stava di fronte al sacro calice, si commosse, poiché era bella, e preso da lacrime spirituali, profondamente meravigliato dall'indicibile condiscendenza del Salvatore. E quanto vide nello Spirito Santo, così disse di dipingere ai pittori di icone quella seguente sacra rappresentazione del Salvatore. E da quel momento ha avuto inizio questa sacra rappresentazione del Salvatore nei sacri templi di Dio. Io ho appreso questo racconto da persone italiane degne di fede, (f. 592) avendo vissuto a lungo presso di loro, quando ero ancora giovane e vivevo ancora nel mondo. Come io l'ho appreso dunque, così lo racconto a te, che sei stato consacrato alla dignità episcopale, per le cui sante preghiere il Signore mi conceda di pentirmi sinceramente dei miei molti peccati. Amen.
...
Non sappiamo chi sia il vescovo destinatario di questa lettera, tuttavia è perfettamente noto di quale composizione si tratti, e alcuni dettagli del racconto meritano un commento più approfondito.
L'oggetto della conversazione è la composizione iconografica "Cristo nel sepolcro", in greco ... ("la massima umiliazione" - Is 53, 3), in Occidente nota come Imago pietatis o semplicemente Pietà. Questa immagine, nella versione originaria, mostrava una rappresentazione del busto o della parte superiore del corpo (raramente fino alle anche) del Cristo morto, in posizione verticale sullo sfondo della croce, con le mani abbassate e strette ai fianchi oppure incrociate sul petto o sul ventre. Questi sono i tratti obbligatori: la posizione verticale di fronte alla croce, gli occhi chiusi e la testa reclinata da un lato. Le prime raffigurazioni compaiono a Bisanzio, probabilmente intorno al 12009. Indubbiamente, in origine esisteva un collegamento dell'immagine con l'Eucaristia attraverso l'accostamento della tomba al calice e l'idea del sacrificio volontario. La primissima menzione di questo tema si trova nell'omelia del patriarca Germano, nel canone del Sabato Santo del secondo quarto del XIII secolo10. Verso il XIV sec. a Bisanzio e nel Balcani si sviluppò il culto liturgico del Sabato Santo, con l'introduzione dell'adorazione dell'icona, posta sull'apposito leggio, che raffigura Cristo nella tomba o il servizio liturgico all'immagine presso gli altari laterali del presbiterio. Vennero composti nuovi canoni (di cui fu autore Marco di Otranto), che si diffusero largamente nei Balcani11. Nel XIV sec. queste forme dell'iconografia e del culto furono accolte nel territorio di Novgorod12. Il più antico esempio datato di affresco novgorodiano di questo tipo iconografico si trova nella chiesa del Salvatore a Kovalëvo e della Dormizione sul campo di Volotovo, e risale agli anni ottanta del XIV secolo13. Solitamente in area slava l'icona veniva chiamata Il re della Gloria (Car' Slavy) oppure Condiscendenza (Schozdenie). Bisogna prestare attenzione al fatto che Massimo il Greco parla di "indicibile condiscendenza del Salvatore", e si può notare nelle parole del Racconto un determinato parallelismo di significato fra il Cristo nella tomba e il Salvatore Acheropito: "Gregorio vide questa rappresentazione divina non fatta da mani d'uomo, che stava di fronte al sacro calice". Qualche volta nella Rus' l'icona veniva chiamata non solo Il re della Gloria (Gosudarstvennaja Tret'jakovskaja Galereja), ma anche Accidia (Unynie): ad esempio, nell'Eucologio dell'inizio del XVI sec. (GIM, Sinod. 310/377, ff.92v.-94) è descritta la cerimonia della Passione nella cattedrale di Sofia a Costantinopoli con le parole: "posta sul leggio in mezzo alla chiesa l'[immagine dell']Accidia del Signore nostro Gesù Cristo"14. Così, con la parola Accidia fu tradotto il greco .... Il confronto fra le immagini di Cristo nella tomba e del Cristo Acheropito si riflette sul tipo iconografico misto rappresentato per la prima volta nell'icona di Rostov della prima metà del XIV sec. (Archangel'skij Muzej)15, nonostante tale tipo sia divenuto veramente popolare soltanto alla fine del XVII secolo16.
Curioso, innanzitutto, osservare che l'interlocutore moscovita di Massimo il Greco non sia evidentemente molto sicuro del contenuto dell'immagine ed abbia bisogno della sua interpretazione. Come abbiamo già visto, al dotto monaco atonita Massimo si rivolgevano per lo più per tradurre i testi greci sulle icone (ad esempio, ÌÞôçñ Èåï[double dagger]) oppure per interpretare relative innovazioni, non del tutto comprensibili a Mosca. Fino al XVI sec. non abbiamo dati su una larga diffusione della composizione di Cristo nella tomba all'interno dei confini moscoviti. È possibile ammettere che questa fosse effettivamente una relativa innovazione, e questo non è l'unico caso in cui un'iconografia, ben nota a Novgorod e nei Balcani, non fosse nota a Mosca fino all'unificazione dei territori in un unico stato.
In secondo luogo, la stranezza del racconto sta nel fatto che Massimo il Greco spieghi il significato dell'immagine non attraverso esempi greci o atoniti del suo culto, bensì esponendo una leggenda di provenienza occidentale, e per di più riferendosi a "persone italiane degne di fede"! E questo in un momento in cui neanche un artista del mondo "latino" aveva il diritto di creare immagini per le chiese ortodosse, e tutti gli abitanti dell'Occidente venivano considerati "eretici-latini", motivo per il quale lo stesso Massimo li condannava energicamente.
Il papa di Roma Gregorio occupò la cattedra di Pietro negli anni 590-604, tuttavia i ricercatori hanno da tempo stabilito che la leggenda sulla sua visione, durante la liturgia, del Cristo morto nella tomba con gli strumenti della passione, apparve solo nel XIV secolo17. Essa comparve non per caso, ma come conseguenza dell'ampia diffusione dell'Imago Pietatis in Italia (soprattutto presso i francescani) e poi in altri paesi europei occidentali. La composizione arrivò inizialmente in Italia da Bisanzio; verso il XIV sec. si sviluppò il culto dell'antica icona bizantina a mosaico, il "Cristo nella tomba", la quale si trova ancora oggi nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Esiste fra l'altro una tradizione orale secondo cui i crociati la portarono da Gerusalemme18. La leggenda sulla visione di papa Gregorio conferì all'immagine un alone particolare e portò ad un amplissimo culto della Pietà nella chiesa cattolica.
Il legame dell'immagine proprio con papa Gregorio non è affatto casuale. Proprio Gregorio scriveva che il sacrificio di Cristo si ripete per mezzo della chiesa nella liturgia e che ogni volta si rinnovano le sofferenze del Salvatore per la remissione dei peccati. Il tema della reale presenza di Cristo nell'Eucaristia è stato più volte oggetto di polemica fra la chiesa ufficiale e gli eretici, così in Occidente come in Oriente. Il culto delle immagini acheropite e i miracoli provenienti dalle icone diventarono la risposta tradizionale ai dubbiosi. In particolare l'iconografia di Cristo nel sepolcro quale rappresentazione virtuale del sacrificio espiatorio, a cui si aggiunge un'altra variante del tema iconografico: la rappresentazione della "Liturgia dei santi padri" e del Cristo-Bambino (Melismos/Amnos).
Il fatto che il nome Accidia turbasse l'interlocutore di Massimo e provocasse la disapprovazione dell'anziano monaco atonita è assolutamente giusto. Il discorso, ovviamente, non verteva sull'accidia. Al contrario! I termini di traduzione proposti da Massimo di Pietà ("devozione", "misericordia") rispondevano obiettivamente alla terminologia adottata in Occidente, ma è improbabile che fosse proprio questa la causa del fatto che essi non fossero utilizzati nella Rus', poiché nella traduzione essi suonano in maniera del tutto diversa, senza provocare allusioni ai "latini". Dalla metà del XVI sec., comunque, il nome " Accidia" scompare dall'uso, mentre la composizione in tutti i suoi aspetti (solo il Cristo morto oppure il Cristo sostenuto dalla Madre di Dio, che diventa la variante più frequente per il XVI sec., e anche l'unione in una sola composizione del Salvatore Acheropito e del Cristo nella tomba) cominciò a essere chiamata con le parole dell'irmos del nono canto del canone della mattina del Sabato Santo: "Non piangere su di me, o Madre (Ne rydaj mene, Mati)".
In generale si può riconoscere che la critica di Massimo fu ascoltata, e l'infelice termine Accidia scomparve dall'uso comune. Questa storia rappresenta ancora un altro esempio di come si svolgesse il processo di fusione delle tradizioni ecclesiastiche locali, costituitesi nel periodo del frazionamento delle terre russe, a Novgorod, Pskov, Rostov o Mosca, di come si appianassero rapidamente le differenze nell'iconografia e nell'uffi- cio liturgico nel XVI sec. Probabilmente un certo ruolo hanno giocato in questo i brevi ma densi commenti di Massimo il Greco sulle composizioni iconografiche non chiare e i loro singoli elementi.
Tirando le somme, possiamo affermare che, tralasciandone la brevità e l'apparente facilità, gli articoli di Massimo il Greco riguardanti le questioni iconografiche che abbiamo analizzato, testimoniano la sua notevole conoscenza dell'argomento. E per l'uditorio russo questi enunciati, come una decina di altri dettati da ragioni diverse, hanno rivestito un significato pedagogico e culturale, permettendo non solo di precisare gli aspetti lessicali nell'iconografia, ma anche di chiarire il senso di soggetti simbolici diventati sempre più popolari e richiesti nella metà del XVI sec.
1 L'opera è stata pubblicata, per esempio, sotto il nome di Massimo il Greco nell'antologia curata da N.K. Gavrjusin (1993).
2 Sinicyna 1977: 259.
3 Ibid. 266, 269.
4 Marcialis 2009: Appendice 3. Maksim Grek i Ljutor, 179-190.
5 Ibid. 236, 260.
6 Ibid. 246, 254.
7 Il testo è pubblicato in Gorskij 1859: 190-192.
8 Ad esempio, nella raccolta del monastero Soloveckij: Sinicyna 1977: 267.
9 Belting 1990: 3.
10 Salina 2003: 309.
11 Ibid. 308-313; Belting 1990; Dufrenne 1968: 297-310; Markovic 1998: 167-179.
12 È bene notare come a Mosca, per quanto ci è noto, durante quegli stessi uffici liturgici ci si rivolgesse all'icona del Salvatore Acheropito.
13 Lazarev 1970: 235, 244-249, 255; Vzdornov 1989: 49-50, 84-85. Con profondo rammarico bisogna ricordare che entrambi i complessi di affreschi sono andati perduti durante la Seconda Guerra Mondiale, e sono noti solamente grazie a disegni e a fotografie in bianco e nero.
14 Su questo articolo e la sua fonte greca vedi Dmitrievskij 1917, III/I: 215.
15 Evseeva et al. 2008. In catalogo n. 4.
16 Ibid. numeri nel catalogo 32, 33, 37.
17 Belting 1990: 192-196; Zvezdina 2003: 588-589.
18 Belting 1990: 191.
Bibliografia
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Traduzione dal russo di E. Dell'Omo
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Copyright Firenze University Press 2010
Abstract
Solitamente in area slava l'icona veniva chiamata Il re della Gloria (Car' Slavy) oppure Condiscendenza (Schozdenie). Il papa di Roma Gregorio occupò la cattedra di Pietro negli anni 590-604, tuttavia i ricercatori hanno da tempo stabilito che la leggenda sulla sua visione, durante la liturgia, del Cristo morto nella tomba con gli strumenti della passione, apparve solo nel XIV secolo17. La composizione arrivò inizialmente in Italia da Bisanzio; verso il XIV sec. si sviluppò il culto dell'antica icona bizantina a mosaico, il "Cristo nella tomba", la quale si trova ancora oggi nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Dalla metà del XVI sec., comunque, il nome " Accidia" scompare dall'uso, mentre la composizione in tutti i suoi aspetti (solo il Cristo morto oppure il Cristo sostenuto dalla Madre di Dio, che diventa la variante più frequente per il XVI sec., e anche l'unione in una sola composizione del Salvatore Acheropito e del Cristo nella tomba) cominciò a essere chiamata con le parole dell'irmos del nono canto del canone della mattina del Sabato Santo: "Non piangere su di me, o Madre (Ne rydaj mene, Mati)". Bibliografia Belting 1990: H. Belting, The Image and Its Public in the Middle Ages.
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