Abstract: During the ideological crisis of the 1950s, through the studies of Gianfranco Contini and Antonio Gramsci, the Divine Comedy proposed itself as an authorial, existential and political model and as a multilingual model, to which Auerbach's concept of Mimesis was added from 1957. A concept already prophetically sensitive to the arrival of neo-capitalism in the 1960s, which coincided, not by chance, with the triumph of the neoavant-garde and the Gruppo 63. An artistic witness to the agonizing struggle against this arrival is La Divina Mimesis, an unfinished remake of Dante's poem, in which Pier Paolo Pasolini depicts the crisis of his mimetic poetics in the encounter between his 1950s self and his 1960s self. The characterization of the three beasts constitutes a sociolinguistic framework in which the author-actor does not renounce allegorical dialectics, identifying, in each one of them (lion-illusion, lion-superbia, she-wolf-conformism), the evil he recognizes in himself and in reality.
Keywords: Dante, Pasolini, Divine Mimesis, Comedy, sociolinguistics, beasts.
Riassunto: La Divina Commedia si propone, durante la crisi ideologica degli anni '50, tramite gli studi di Gianfranco Contini e di Antonio Gramsci, come modelio autoriale, esistenziale e politico e come modelio plurilinguistico, ai quali si unisce, a partire dal 1957, il concetto di Mimesi di Auerbach, giâ profeticamente sensibile all'avvento del neocapitalismo degli anni '60, coincidente in modo non casuale con il trionfo della neoavanguardia e del Gruppo 63. Testimone artístico dell'agonica lotta contro tale avvento e La Divina Mimesis, incompiuto rifacimento del poema dantesco, in cui Pier Paolo Pasolini raffigura la crisi della sua poetica mimetica nell'incontro fra il suo io degli anni '50 e quello degli anni '60. La caratterizzazione delle tre fiere costituisce un quadro sociolinguistico in cui l'autore-attore non rinuncia alia dialettica allegorica, individuando, in ognuna di esse (lonza-illusione, leone-superbia, lupa-conformismo), i mali che riconosce in sé e nella realtâ.
Parole chiave: Dante, Pasolini, Divina Mimesis, Commedia, sociolinguistica, fiere.
1. Anteprima
La Divina Commedia si propone, ad un certo punto - durante la crisi ideologica degli anni '50, tramite gli studi di Gianfranco Contini e la guida di Antonio Gramsci -, come modelio autoriale nel senso di luogo in cui ia dimensione esistenziale e quella religiosa e politica si integrano, e come modelio plurilinguistico nell'uso di una lingua infinita e plurale che si apre a tutte le forze sociali invece di esercitarsi come monolítico stramento di dominio. II frutto piú alto dal punto di vista artístico sara Ragazzi di vita, in cui la mimesi riesce ad essere espressione di un mondo (quello delle borgate romane) e non un semplice stereotipo. A partire dal 1957, con la traduzione in italiano diMimesi, Pasolini si alimenta intellettualmente anche dell'idea di mimesi di Erich Auerbach apparsa nei suoi Studi su Dante (1963) e ha giâ iniziato la sua camera cinematografica. Pasolini e giâ profeticamente sensibile all'avvento del neocapitalismo degli anni '60, che coinciderâ in modo non casuale con il trionfo della neoavanguardia e del Gruppo 63. Uno dei testimoni documentari ed artistici di questa agonica lotta contro tale awento e La Divina Mimesis, incompiuto rifacimento del poema dantesco, in cui Pasolini raffigura la crisi della sua poetica mimetica nell'incontro fra il suo io degli anni '50 e quello degli anni '60, "ingiallito" e quasi vinto. Partendo dallo studio di Emanuela Patti (2016), che ricostruisce con acutezza tale percorso, affrontiamo la caratterizzazione delle tre fiere, che costituiscono un quadro sociolinguistico della realtâ in cui l'autore-attore non rinuncia alla dialettica allegorica che gli permette di individuare, in ognuna di esse (lonza-illusione, leone-superbia, lupa-conformismo), il male che riconosce in sé stesso e nella realtâ. Questo lavora vuole essere un'analisi di tali figure nell'opera di Pasolini.
2. Introduzione: genesi e formazione dell'opera. Antefatti e detonante
Innanzitutto, cerchiamo di definire concisamente la genesi e lo statuto dell'opera nell'itinerario di Pasolini. Soltanto a torto l'opera puo considerarsi incompiuta, giacché lo stesso autore decide di presentarla alia stampa nel 1975, in un'accurata raccolta di abbozzi e di note di cui soltanto i primi due canti si presentano in una forma chiusa, e la presenta, come detta la prefazione, in quanto "documento, ma anche per fare un dispetto ai miei 'nemici'".
La Divina Mimesis: do alle stampe oggi queste pagine come un 'documento', ma anche per fare un dispetto ai miei 'nemici': infatti, offrendo a loro una ragione di piú per disprezzarmi, offro loro una ragione di piú per andaré all'Inferno.
Iconografia ingiallita. queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una (peraltro assai leggibile) 'poesía visiva' (Pasolini 2006: 3).
Se guardiamo ad altre opere, come Petrolio, capiamo subito come in Pasolini l'incompiutezza puo essere la forma compiuta di un'opera che esprime cosi il carattere espressivo di una crisi poetica, esistenziale, lingüistica e politica. La genesi dell'opera e databile al 1963, venendo definita nei Progetto di opere future come "opera se mai ve ne fu, da farsi". II modo in cui ogni nuovo asserto, sebbene apparentemente estemo, viene datato e aggiunto alio scartafaccio, ci parla di un'opera in cui ogni strato intermedio vuole essere contenuto e conservato nel suo fenomenologico dispiegarsi1. Infine, non si puo dire nemmeno, a rigore, che sia un'opera postuma, giacché quando e stata data alle stampe secondo le indicazioni dell'autore, questi era ancora - anche se per pochi giomi - vivo. Opera non postuma invece di non-opera postuma, La Divina Mimesis si configura come affermazione dell'autore, per quanto esigua e agonica, abbastanza potente da mandare all'Infemo, come si dice nella prefazione, chi pretenda ancora di sostare nell'idea di Paradiso, di un paradiso scisso in due opposte distopie. Ma quali sono questi nemici e quali questi paradisi? Per quale motivo Pasolini serive questo rifacimento a partire dal 1963?
Per rispondere a queste domande dobbiamo tornare indietro, al suo precedente rifacimento della Divina Commedia datato 1959, intitolato LaMortaccia frammenti), compreso in Ali dagli occhi azzurri (1965). Questo progetto - effettivamente abbandonato dall'autore - doveva essere una replica in prosa romanesca della Divina Commedia, in cui, nel linguaggio di una prostituta-Dante, guidata da un Dante-Virgilio, si rappresentassero le borgate romane e nella quale ci sarebbe stata una trasposizione demetaforizzante dell'Infemo dantesco con personaggi contemporanei (Stalin al posto di Farinata, Gadda collocato fra i golosi, Marilyn trasformata in una mimosa, ecc.). Questo tentativo viene definito, in una pagina scartata dalla Divina Mimesi, "embrione infelice", e infatti lo sostituirâ a partire dal '63 il nuovo disegno dantesco, dove "il carattere stilistico e Limpiante strutturale dell'opera e completamente mutato" (Pasolini 2005: 1265).
Ne La Mortaccia Pasolini vuole ancora inseguiré un progetto poetico - il cui esito folgorante era stato Ragazzi di vita (1955) - nel quale il suo debito intellettuale verso Contini e Gramsci si materializzi. Da una parte l'analogia fra l'Italia lingüistica di Dante (con la dialettica latino-volgare) e l'Italia dell'immediato dopoguerra (con la dialettica linguaggio borghese-realtâ del parlante popolare) sembra rendere praticabile la ricerca di un plurilinguismo che integri un linguaggio raffinate e umano, elevato e umile, sublime e basso. Questa sintesi, sulla scia degli studi di Auerbach, e il grande universo cristiano di Dante che rappresenta dall'alto il piú basso, e che, grazié alla concezione figurale, e capace di cogliere il vívente nell'etemo. II poema didattico assoluto, rappresentato dalla Commedia, raffigura un ordine fisico-cosmologico, etico e storico-politico. A questo plurilinguismo dantesco si aggiunge, nel conferire a Dante il posto centrale come modelio e símbolo dell'ispirazione pasoliniana, il pensiero politico di Gramsci sull'egemonia e sull'idea di empatia (l'intellettuale pensa ma non sente, il popolo sente ma non pensa) come elemento necessario all'intellettuale per poter fungere da ponte fra il popolo e il potere. La traduzione di questa prerogativa gramsciana nella pratica poetica e incarnata nella pieta dantesca, ovvero nella cognizione che presuppone il viaggio dantesco in cui avviene l'integrazione fra Auctor (funzione intellettuale) e Actor (esperienza vissuta del viaggio). In altre parole, Dante dimostrerebbe con il suo exemplum l'intreccio indissolubile e reale fra vita e arte, fra intellettuale e popolo, fra soggetto che rappresenta e cosa rappresentata. Mimesi e modelio autoriale sono come sostenuti dalla figura di Dante. Ne LaMortaccia il linguaggio della prostituta Teresa - in un "regresso del parlante" che superasse la distanza egemonica - doveva essere il romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli, cioe non quello della poesía dialettale colta, bensi quello di una Roma autentica. Le fiere, demetaforizzate, erano qui tre "canacci lupi" (Pasolini 2005: 592). La prostituta appena entrata nell'anti-infemo si trovava davanti ad un Dante di cui aveva letto in un fumetto poco prima di essere assassinata e che la guidava fino al "carcere-penitenziario", prosaica rappresentazione del carcere infernale. Per quali motivi il disegno e abbandonato ma non cosi l'intenzione di eseguire un rifacimento della Commedia?
Se e vero il giudizio critico di Franco Fortini, che, nel 1977, a due anni dalla scomparsa di Pasolini, afferma che si tratti della "personalita piú riconoscibile e definita del nostro secondo dopoguerra" (Fortini 1980: 171), e anche vero che proprio quella riconoscibilitâ storica che lo lega all'ideale partigiano e impegnato degli anni '50 comincia a gravare su di lui a partire dall'enorme cambio sociologico e politico della seconda industrializzazione e del boom economico degli anni '60. Lo sviluppo, che aitri vedono come necessario decollo per l'evoluzione corretta del paese, forse non e stato analizzato cosi profondamente nelle sue vere conseguenze da nessun altro intellettuale italiano, né la provocatoria denuncia e stata, forse, cosi francamente espressa. L'intreccio lingua/societâ (o, detto in altro modo, lingüistica e sociologia) e il fulcro della sua riflessione, che in Nuove questioni linguistiche, pubblicato in Empirismo eretico (1972), viene esposta in poche ma definitive pagine. L'incontro fra un Pasolini-Dante-anni '50 e un Pasolini-Virgilio-anni '60 e la traduzione allegorica, attraverso lo sdoppiamento, della grave crisi esistenziale e poetica che rappresenta La Divina Mimesis. L'ideale di Dante símbolo del plurilinguismo e del modello autoriale e mimetico, sostenuto e condiviso negli anni '50 dalla "compagnia picciola" formata intomo a Contini (Pasolini 1999: 1383), ovvero la possibilitâ (sia pur remota e difficile) di creare una lingua nazionale popolare grazié alla letteratura, perde ogni speranza. In quegli anni, rappresentati nella "poesía visiva" che Pasolini aggiunge a La Divina Mimesis, si poteva ancora pensare che "[...] l'allargamento lingüístico era un contributo a una possibile lingua nazionale attraverso l'operazione letteraria" (Pasolini 1999: 1253-54). Non si tratta soltanto della "fine del mandato dello scrittore" di cui parla Fortini, o della neoavanguardia - di cui Pasolini individua il punto debole (giacché il punto zero dal quale i neoavanguardisti compiono la loro distruzione dei semantemi non e una scelta libera, come vorrebbero), in quanto non si puo prescindere dalla propria storia -, ma piuttosto di un vero e proprio cambio di era. "Questa crisi lingüistica - e non soltanto stilistica - e la spia che sta accadendo nella nostra societa qualcosa di profondamente nuovo" (Pasolini 1999: 1254). Siamo nel 1964, ad un anno dal settimo centenario che celebrerâ con nuove revisioni il ruolo di Dante. All'osmosi col latino del linguaggio politico ufficiale si sostituisce l'osmosi con il linguaggio tecnico-scientifico legato al francese e soprattutto all'inglese. Come esempio, Pasolini cita Falióra primo ministro Aldo Moro che inaugura l'Autostrada del Sole, símbolo della modemizzazione del paese e del ponte commerciale fra nord e sud; e afferma: "Centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio, non sono piú le universita, ma le azien- de" (Pasolini 1999: 1262). Secondo Pasolini, questo cambio lingüístico realizzato dai mass media (pubblicitâ, telegiomali, ecc.) viene determinato dalla seconda industrializzazione e tale linguaggio tecnico-scientifico non si pone come nuova stratificazione della lingua ma tende ad annullare le precedenti: e quindi omologatrice delle altre. L'omologazione, cioe la distruzione delle differenze con fini comunicativi, demolisce l'espressivitâ che ha da sempre caratterizzato la lingua italiana. Una lingua imposta dall'alto, propria della tecnocrazia del nord, egemonica, finalmente nazionale. Da una parte Pasolini afferma: "In seno a questa nuova realtâ lingüistica, il fine della lotta del letterato sarâ l'espressivitâ lingüistica, che viene radicalmente a coincidere con la liberta dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione" (Pasolini 1999: 1269). Dall'altra non dimentica che "[...] per un letterato non ideológicamente borghese si tratta di ricordare ancora una volta, con Gramsci", che bisogna conoscere "[...] con assoluta chiarezza e coraggio" questo italiano nazionale, "qual e e cos'e la realtâ nazionale che lo produce" (Pasolini 1999: 1270). Questi due poli vuole rappresentare La Divina Mimesi, un inferno fra due Paradisi, quello del monolinguismo ideologico dell'Urss (caduto come ideale nei '56 con i fatti d'Ungheria) e l'altro monolinguismo tecnico-scientifico del paradiso neoliberale progettato dal potere negii anni '60. Il trionfo lingüístico e sociológico che impedisce a Pasolini-Dante di proseguiré l'ascesa del "dilettoso monte" e la ferocia mostruosa, l'universo orrendo che tale "trionfo" prospetta (cfr. Ferretti 1978). A Pasolini converrâ, a questo punto, "tenere altro viaggio", un viaggio nuovo indicatogli dal suo doppio: il viaggio nel linguaggio del cinema, il linguaggio della realtâ.
3.Analisi delle tre fiere de La Divina Mimesis
Per quanto riguarda la definizione di genere dell'opera, Pasolini stesso lo descrive, in un'intervista apparsa sui quotidiano "La Stampa" cinque giomi dopo la sua morte, come "qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in prosa" (Pasolini 2006: 1). Cerchiamo quindi di inseguiré il rifacimento punto per punto, considerándolo "poesía anche se in prosa", nella comparazione con il testo a cui si rifa, che noi consultiamo nell'edizione a cura di Giorgio Petrocchi (1966-67).
Dante:
Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual era ė cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura! / Tant'ė amara che poco piů ė morte; / ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, / dirô dell'altre cose ch'i' v'ho scorte (Alighieril966-67: 1).
Pasolini:
Intomo ai quaranťanni, (1) (questa e le seguenti note poi non sono piů state şeritte), mi accorsi di trovami in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi nella "Selva" (2) della realtâ del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell'esclusione dalla vita degli aitri che ė la ripetizione della propria, c'era un senso di oscuritá. Non direi di nausea (3), o di angoscia: (4) anzi, in quell'oscuritå, per dire il vero, c'era qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia veritå, se vogliamo, quella davanti a cui non c'ė piů niente da dire (Pasolini 2006: 7).
Troviamo la concreta indicazione temporale nella biografía ("intomo ai quarant'anni") nella quale Pasolini toglie il carattere universale dato dal "nostra" dantesco. A questa segue l'indicazione di luogo, come sappiamo, simbolico: la selva oscura, trasformata in una Selva, con la maiuscola e fra virgolette, accompagnata da una presunta nota (cosi come lo era anche l'indicazione temporale e le parole "nausea" e "angoscia" che caratterizzano simbólicamente la selva). Queste note, come ci indica l'autore "filológico", "poi non sono piú state şeritte". Il gioco da pasticheur immette elementi di "critica" testuale falliti, vuoti, come a dire che nessuna nota puo delucidare la selva della realtâ. Ma c'e un dato che viene a rappresentare questa selva, al di la dell'oscuritâ, ed e "l'impreparazione a quell'esclusione dalla vita degli aitri che e la ripetizione della propria". L'incapacitâ, cioe, di rappresentare la vita di la del limite dell'io, il problema della mimesi, della rappresentazione della realtâ. Infatti piú avanti l'autore allude, in contrapposizione, ad un tempo meraviglioso in cui aveva fede in questa capacita. Parlera appunto di quel tempo in cui "era chiaro che stavo facendo esperienza di una forma di vita allo scopo di esprimerla". II carattere oscuro della selva di Pasolini e pero portatore di "qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia verita, se vogliamo, quella davanti a cui non c'e piú niente da dire". Questa "vecchia verita" di Pasolini, terribile luce in fondo all'oscuritâ, corrisponderebbe al "ben ch'i' trovai" di Dante "per trattar" del quale il poeta ha la necessita di parlare delle altre cose che sta rimemorando ("l'altre cose ch'i' v'ho scorte"). L'amarezza vicina alla morte ("tant'e amara che poco piú e morte"), in Dante, "l'angoscia" e la "nausea" in Pasolini sono, come caratteri della selva istintuale e materiale, paradossalmente, initium sapientiae nell'itinerario verso il bene. Ma il bene di cui ci vuole parlare Pasolini - e si apre qui un inciso estraneo all'andamento dell'originale - e situato in una realtâ fuori dal tempo, gia morta ed ingiallita, che l'autore ci illustra anche con l'aiuto della poesía visiva Iconografia ingiallita (per unpoemafotograftco), nelle seguenti pagine de La Divina Mimesis.
Oscuritá uguale luce. La luce di quella mattinata d'aprile (o maggio, non ricordo bene: i mesi in questa "Selva" passano senza ragione e quindi senza nome) quando arrival (il lettore non si scandalizzi) davanti al cinema Splendid (o Splendore? O Smeraldo? So di certo che una volta invece, si chiamava Plinius: ed era uno di quelli dei tempi meravigliosi - e non lo sapevo - quando i mesi erano veri, lunghi mesi, e in ogni mio atto - sia pure arbitrario, puerile o colpevole - era chiaro che stavo facendo esperienza di una forma di vita alio scopo di esprimerla) (Pasolini 2006: 7).
Nelle pagine che seguono, Pasolini descrive "questa selva" attraverso un episodio concreto: un raduno comunista nel cinema Splendid di Roma in onore di Julián Grimau, vittima del franchismo il 22 aprile 1963, in un ambiente che sembra ancora quello degli anni '40 ma che l'autore percepisce - in una scansione di sentimenti di dolore: "La millesima, la miliardesima stretta al cuore", "stringeva il cuore", "mi stringeva il cuore", "il cuore straziato" (Pasolini 2006: 7-8) - come definitivamente tramóntate. L'allusione a "le Seicento delle famiglie borghesi di Roma verso le prime merende sui prati" (Pasolini 2006: 8, immagine quasi pubblicitaria, ci ricorda che fuori dal cinema dallo "splendido nome" quasi per contrappasso con la sua reale oscuritá, c'e il mondo degli anni '60 "radioso e indifferente" (Pasolini2006: 10).
Questa digressione dimostra l'impossibilita della mimesi continiana-gramsciana della poetica degli anni '50, liquidata dalla comparsa di una nuova realtâ sociologico-linguistica inappellabile, quella del consumo. II testo toma poi fedelmente all'originale.
Dante:
lo non so ben ridir com'i' v'intrai, / tanťera pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai. / Ma poi ch'i' fui al pie d'un colle grunto, / la dove terminava quella valle / che m'avea di paura il cor compunto, / guardar in alto e vidi le sue spaile / vestite giå dei raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle (Alighieri 1966-67: 1).
Pasolini:
Ah, non so dire, bene, quando ė incominciata: forse da sempre. Chi puô segnare il momento in cui la ragione cominera a dormire, o meglio a desiderare la propria fine? Chi puô determinare le circostanze in cui essa cominera a uscire, o a tomare lå ove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuitå, per conformismo?
Ma come giunsi, in quel mio sogno fuori dalla ragione - di breve durata, e cosi definitivo per il resto della mia esistenza (cosi almeno immagino) - ai piedi di un "Colle" in fondo a quella orribile "Valle" - che mi aveva talmente riempito il cuore di terrore per la vita, e per la poesía - guardar in alto, e vidi, lassú in cima, una luce, una luce (quella del vecchio sole rinato) che mi accecava: come quella "vecchia veritá" su cui non c'é piů nulla da dire. Ma che riempie di gioia il fatto di aver ritrovata, anche se porta con sé, essa si, realmente, la fine di tutto(Pasolini2006: 10).
"Ah, non so dire, bene" sta per "Io non so ben ridir"; il "sonno" di cui e pieno Dante vale per "il momento in cui la ragione comincia a dormire"; "che la verace via abbandonai" e reso con "abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta". In questo punto Pasolini introduce un elemento che non e fedele all'ordine dell'originale e che anticipa i tre motivi che lo hanno fatto abbandonare la verace via: "per passione, per ingenuitå, per conformismo". Parole che anticipano le "tre impedimenta" dell'accesso al monte come intimi peccati del poeta. L'avversativa riprende l'originale: "Ma poi ch'i' fui al pie d'un colle grunto" e ripreso da "Ma come giunsi [...] ai piedi di un 'Colle' in fondo a quella orribile 'Valle'" (e di nuovo le virgolette creano un senso di estraniamento); la "valle / che m'avea di paura il cor compunto" in Pasolini e ampliata in un inciso, "che mi aveva talmente riempito il cuore di terrore per la vita, e per la poesía", introducendo esplicitamente la questione meta-letteraria in intreccio indissolubile con quella esistenziale. La comparsa del Sole nel poema ("guardai in alto e vidi le sue spaile / vestite giâ dei raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle") si riprende con "guardai in alto, e vidi, lassú in cima, una luce, una luce (quella del vecchio sole rinato) che mi accecava", dopodiché due punţi annunciano, in parafrasi, la spiegazione allegorica di tale luce: al "vecchio sole rinato" corrisponde "quella vecchia veritá [...] su cui non e'e piú nulla da dire", e che, ritrovata, ci "riempie di gioia" anche se segna "la fine di tutto". E nell'oscuritâ della valle, nell'istante piú cupo, quello in cui si rivela la luce piú accecante.
Dante:
Ailor fu la paura un poco queta, / che nel lago del cor m'era durata / la notte ch'i' passai contantapieta(Alighieri 1966-67: 1).
Pasolini:
Alla luce fatale di quella vecchia veritá, mi si quietó un po' l'angoscia: che era stata Punico reale sentimento durante tutto il periodo del buio, a cui la mia strada, giusta!, mi aveva finalmente portato (Pasolini 2006: 10).
Quindi quel sole che, nell'universo di Dante, "sostenuto da un'ideologia di ferro" (Pasolini 2006: 22), non si puo guardare direttamente, ma che, con i suoi raggi, guida sovrano ogni creatura, non scompare nel rifacimento di Pasolini: benché "vecchio" e "accecante", esso risorge, proprio come nel poema, nel punto piú profondo dell'oscuritá. "La notte ch'i' passai con tanta pieta" di Dante corrisponde all'"angoscia", "unico reale sentimento durante tutto il periodo del buio". Raggiungendo il suo climax, l'angoscia cede il passo alla quiete: "fu la paura un poco queta" si trasforma in "mi si quieto un po' l'angoscia". Nella piena oscuritâ si intravede la luce vera, che Pasolini chiama "luce fatale, di quella vecchia veritá", traducendo il senso di essa.
Dante:
E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago alla riva, / si volge all'acqua perigliosa e guata, / cosi l'animo mío, ch'ancor fuggiva, / si voise retro a rimirar lo passo / che non lascio grammar persona viva (Alighieri 1966-67: 1)
Pasolini:
Come un naufrago, che esce dal mare, e si aggrappa a una terra sconosciuta, mi voltavo indietro, verso tutto quel buio, devastato, informe: la fatalita del proprio essere, dei propri caratteri natali, la paura di cambiare, il timore del mondo: a cui a nessuno fu mai possibile scampare, portando a salvamento la propria interezza (Pasolini 2006: 10).
La similitudine del naufrago si riprende in modo pedissequo e serve a Pasolini per illustrare il fatto di non essere andato öltre il limite dal quale non sarebbe potuto tomare, di essersi salvato e di contemplare "lo passo che non lascio giammai persona viva", che lui trasforma in: "tutto quel buio [...] a cui a nessuno fu mai possibile scampare, portando a salvamento la propria interezza". Nessuno puo "scampare" senza lasciare dietro di sé tutti gli elementi che di seguito il poeta enumera: "la fatalita del proprio essere, dei propri caratteri natali, la paura di cambiare, il timore del mondo". Una crisi personale che esige quindi un sacrificio, una purga di parti dolenti, ormai morte, per andaré avanti.
Dante:
Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso, / ripresi via per la piaggia diserta, / si che il pié fermo sempre era 'l piů basso (Alighieri 1966-67: 1).
Pasolini:
Mi riposai un poco, non pensai, non vissi, non scrissi: come un malato: poi ricominciai a andaré (ė la vecchia storia). Su per l'ascesa deserta, dove veramente potevo dire di essere solo.
Solo, vinto dai nemici, noioso superstite per gli amici, personaggio estraneo a me stesso, arrancavo verso quella nuova assurda strada, arrampicandomi per la china come un bambino che nonha piů casa, un soldato disperso (Pasolini 2006: 10-11).
La sosta di Dante e spiegata e dilatata nei tempo in forma meta-letteraria, come una sospensione di vita, di pensiero e di scriitura: "Mi riposai un poco, non pensai, non vissi, non scrissi", dove l'intreccio vita-pensiero si fa palese. Poi, "ripresi via per la piaggia diserta" diventa "ricominciai a andaré". Pasolini traduce direttamente la similitudine modale "si che il pie fermo sempre era il piú basso", sciogliendo la perifrasi in "su per l'ascesa deserta", con la posteriore amplificazione dell'aggettivo deserta ("dove veramente potevo dire di essere solo"). Infatti, dal punto di vista della poetica, Pasolini si sente un superstite solitario: "Solo, vinto dai nemici, noioso superstite per gli amici, personaggio estraneo a me stesso", la crisi del neorealismo, del post-ermetismo, del neo-sperimentalismo, "[...] il frutto piú noto e discusso del lavoro critico di "Officina" (Barberi Squarotti 1984: 62), il trionfo della neoavanguadia lo fanno comparire a sé stesso come un personaggio ingiallito, passato; la sua "nuova assurda strada", in cui l'ascesa e un "arrampicarsi per la china", e una scelta disperata, ovviamente poetica e vitale, e viene illustrata da due immagini extra-dantesche: "come un bambino che non ha piú casa, un soldato disperso".
Dante:
Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta, una lonza leggera e presta molto, / che di pel macolato era coperta (Alighieri 1966-67: 2).
Pasolini:
Ma ecco che subito, dopo pochi passi di quel mio solitario e scoraggiato salire, eccola li, uscita dai ripostigli comuni della mia anima (che accanitamente continuava a pensare, per difendersi, per sopravvivere - per tomare indietro!), eccola li, la bestia agile e senza scrupoli, cangiante come un camaleonte, cosi che i suoi colorí che cambiano sono sempre quelli di prima. I colori dell'esterno, prima di tutto: quelli trovati nascendo, e subito oggetto di un affetto tremendo, che non vuol davvero vederii cambiare. E poi, a immagine e somiglianza - a causa dell'errore della lealtå infantile e giovanile - di quelli del mondo. II colore della purezza, soprattutto, dell'altezza morale, dell'onestå intellettuale - maledetti colori dipinti dall'illusione! (Pasolini2006: 11)
Finalmente compare la prima figura. Pasolini riproduce la colloquiale sorpresa dantesca, "Ed ecco", con "ma ecco", enfatizzando poi con "eccola li". Ma la lonza di Pasolini "esce dai ripostigli dell'anima", il che allude all'analisi profonda dei sogni e alie visioni di animali della modema psicología: l'uomo medievale rappresenta il peccato attraverso il bestiario; l'uomo modemo libera la sua istintivita repressa attraverso la figura dell'animale. In Pasolini, pero, la lonza impedisce il passo facendo indietreggiare il poeta nella sua ascesa, verso l'oscuritâ alla quale non puo assolutamente tomare. La figura spaziale e quella del vicolo cieco. L'anima pensa sé stessa attraverso la figura della lonza. Un'anima che "accanitamente continuava a pensare, per difendersi, per sopravvivere - per tomare indietro!" E infatti il poeta non puo tornare alia poetica del passato né affrontare un nuovo approccio. La lonza ha come caratteristiche principali, sul piano letterale, l'essere "leggera e presta molto" e "di pel macolato". Com'é il trattamento qua? I due tratti che tanto hanno occupato i primi commentatori, come riporta Rosa AfFatato nel suo saggio Riflessioni sulla 'lonza ' alia luce di alcuni commenti medievali alla 'Divina Commedia' (ЮН), si traducono nel seguente modo: "agile e senza scrupoli" coglie la leggerezza nel senso fisico e morale; mentre "cangiante come un camaleonte, cosi che i suoi colori che cambiano sono sempre quelli di prima", amplifica la leggerezza e alio stesso tempo interpreta il "pel macolato": la capacita di accomodarsi ad ogni tempo sembrando sempre la stessa in una sorta di perenne adattabilita. Come nelle interpretazioni dei primi commentatori, Pasolini collega la lonza all'adolescenza, alia passione, e divide le sue macchie in "colori dell'estemo", concepiti come congeniti, e "colori dell'intemo" concepiti come culturali, come "purezza", "altezza morale", "onesta intellettuale".
Il carattere seducente e attraente della lonza, la sua connessione con Venere, quindi, si conserva.
Dante:
E non mi si partia d'innanzi al volto, / anzi 'mpediva tanto il mió cammino, / ch'i' fui per ritomarpiůvoltevolto (Alighieri 1966-67: 2).
Pasolini:
Cosi, la "Lonza" (in cui non ebbi, subito, difficoltå a riconoscermi), con tutti quei colori che le maculavano la pelle, non si muoveva da davanti ai miei occhi, come una madreragazzo, come una chiesa-ragazzo. Anzi, per una forza terribile - quella della veritå, quella della necessitå della vita - mi impediva di proseguiré per la mia nuova strada - scelta non per mió volere, ma per mancanza di ogni volere -e su cui non c'é alcun bisogno di mistificazione, perché si ė soli. E io, mistificatore, anzi, sottilissimo caso di mistificazione, a causa dello spreco di sinceritå onestamente voluta - sono stato piů volte per arrendermi e tomare indietro nel prepotente, nello stupido, nel volgare mondo appena lasciato (Pasolini 2006: 11).
E infatti, cosi come in Dante "non mi si partia d'innanzi al volto", in Pasolini "non si muoveva da davanti ai miei occhi", fino al punto che quell'orizzonte lo spinge quasi a "ritomar piú volte volto", cioe, lo porta alla situazione di essere "piú volte per arrendermi e tomare indietro nel prepotente, nello stupido, nel volgare mondo appena lasciato". Lonza come mondo materno adolescenziale dell'illusione: madre-ragazzo, chiesa-ragazzo. Mistificazione suprema per l'assenza di mistificazione in cui il poeta non ha difficoltå a riconoscersi.
Dante:
Temp'era dal principio del maitino, / e 'l sol montava 'n su con quelle stelle / ch'eran con lui quando l'amor divino / mosse di prima quelle cose belle; / si ch'a bene sperar m'era cagione / di quella fiera a la gaetta pelle / l'ora del tempo e la dolce stagione; / ma non si che paura non mi desse / la vista che m'apparve d'un leone. / Questi parea che contra me venisse / con la test'alta e con rabbiosa fame, / si che parea che l'aere ne tremesse (Alighieri 1966-67: 2)
Pasolini:
Ma ecco farsi avanti, accanto alla "Lonza", il sonno e la ferocia riuniti insieme in una sola forma di "Leone"; che, benché spelacchiato, fetido di stallatico bestiale, pigro, vile, prepotente, stupido, privo di altro interesse che non fosse il poltrire, solo, e il divorare, solo - aveva tuttavia la potenza di chi non sa il male, essendo per sua natura soltanto bene ció in cui tutto lui stesso consiste. Dal suo essere sonno e ferocia, egoísmo e fame rabbiosa, il "Leone" traeva una ispirazione a vivere che lo distingueva, con violenza addirittura brutale, dal mondo estemo. Che lo ospitava quasi tremando.
L'idea di sé non ha ragione; e quando si esprime distrugge la realtá, perché la divora.
II saper divorare da poi una certezza per cui ė difficile impedirsi di fame uso: impedirsi di entrare, per mezzo di tale scienza, nel mondo, e istallarvisi, come un re, un prepotente poeta. Sia pure parzialmente, anche in quel "Leone", come in uno sproporzionato segno premonitore, io mi riconobbi (Pasolini 2006: 11-12).
Non c'é traccia nel testo di Pasolini della descrizione stagionale né del verso "si ch'a bene sperar m'era cagione / di quella fiera a la gaetta pelle", che passa direttamente alia "paura" del Leone. II carattere visionario che esprime Dante con "vista che m'apparve" e reso dall'espressione "il sonno e la ferocia in una forma sola di 'Leone'", quest'ultima parola con maiuscola e tra virgolette, espressione che raccoglie i due attributi principali dell'originale, "test'alta e con rabbiosa fame". Si direbbe che la regalttá della figura si ribalti, come nell'originale, con una amplificazione di significati negativi il cui tratto principale e l'egoismo: "spelacchiato, fetido di stallatico bestiale, pigro, vile, prepotente, stupido, privo di altro interesse che non fosse il poltrire, solo, e il divorare", sembra una descrizione del borghese e dei suoi valori, dell'individuo che considera "bene" e "male" partendo dal suo "egoísmo e rabbiosa fame", appunto. Possiede "ispirazione a vivere" "con violenza addirittura brutale", e ha "una idea di sé" che - aggiungiamo noi -, in un modo solipsistico e narcisistico, annienta la realtâ; la figura del leone pasoliniano non ci parla, pero, semplicemente del borghese, ma del poeta borghese, nel quale Pasolini, anche se con maggiore difficoltâ rispetto alla lonza, si riconosce. II mondo "lo ospitava quasi tremando": dove nei "tremore" riecheggia il "tremesse" dell'originale. Viene alia memoria una scena di Uccellacci e Uccellini, quella del Congresso dei Dentisti Dantisti, composto appunto da poeti borghesi, in cui Toto, che incama il piccolo borghese, viene quasi sbranato da un cane da guardia. Al di la della sua assimilazione all'autore borghese, il leone pasoliniano rimanda alla propria crisi poetica, dovuta alla sua presa di coscienza che la mimesi dantesca appare ormai impossibile.
Dante:
Ed una lupa, che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza, / e molte genti fé giå viver grame, / questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch'uscia di sua vista, / ch'io perdei la speranza de l'altezza. / E qual ė quei che volontieri acquista, / e giunge '1 tempo che perder lo face, / che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista; / tal mi fece la bestia sanza pace, / che venedomi 'ncontro, a poco a poco / mi ripingeva la dove 'l sol tace. / Mentre ch'i rovinava in basso loco, / dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio pareafioco (Alighieri 1966-67: 2).
Pasolini:
Ma dovevo riconoscermi ancora in qualcosa di ben peggio. Dai silenzio in cui si e - determinazione incontrollabile o fenomeno che a poco a poco si forma, fuori dagli accaniti e ingenui ritratti che ii figlio per tutta la vita offre di sé - venne fuori una "Lupa", che si affiancô alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocea assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro: lo zigomo in alto, contro l'occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo. E tra loro una cavitá oblunga, che rende il mentó sporgente, quasi appuntito: ridicolo come ogni maschera di morte.
E l'occhio secco in uno spasimo; tanto piů abbietto quanto piů simile agii spasimi dei santi: un'ariditå allucinata, che dove posa la sua luce pare che si attacchi come colla colata dalla pupilla fatta tonda, ora troppo diritta ora sfuggente; e in mezzo il naso, ingrossato nella pelle e nei buchi, sopra il labbro superiore quasi sparito, per consunzione: il naso umano della bestia, che fa di sé stessa una cavia delle proprie brame divenute, incancrenendo, sempre piů naturali.
Quella "Lupa" mi faceva paura: non per ció che di degradante rappresentava, ma per il solo fatto di essere un'apparizione, quasi oggettiva: la definizione di sé, un "ecce homo", per cosi dire, dalla cui realtá la conoscenza non puó in alcun modo evadere. La sua presenza era cosi indiscutibile da togliere ogni speranza di poter giungere mai a quella cima misteriosa che intravedevo davanti a me, nel silenzio. Mi ci ero incamminato cosi volentieri - inaridito, senza vivere, senza scrivere, e tuttavia, proprio nella mancanza di tutto, se non dell'"abominio della desolazione", preso da una nuova forma di vitalita - che ora, il dover accreditare alia presenza di quella bestia senza pace una forza insuperabile - qualcosa contro cui era semplicemente ridicolo cercar di misurarsi - mi dava un'angoscia da cui ero reso impotente. Ero respinto indietro dalla tentazione di ritornarmene la dove non si richiede, in fondo, che di tacere.
E mentre rovinavo giú, giustamente ridicolo per la mia antica vittoria su un mondo cui io appartenevo senza nessuna ragione di ritenermene piů alto, ormai privo dell'autoritá della poesia, e fatto ignorante dalle lunghe frequentazioni oscurantiste, pratiche e mistiche, ecco che mi apparve una figura, in cui dovevo ancora una volta riconoscermi, ingiallita dal silenzio (Pasolini2006: 12-13).
E arriviamo alia lupa. Di nuovo i versi di Dante non sono soltanto rifatti, ma amplificati di sensi e caratteri. Se le precedenti bestie sono "accaniti e ingenui ritratti che il figlio per tutta la vita offre di sé" - passione e illusione la lonza, ingenuita e velleita narcisistica il leone la lupa non puo essere da meno, cioe, come qualcosa in cui il poeta si riconosce, e che pero, come nel poema dantesco, si apre ad una dimensione malefica e oggettiva: "qualcosa di ben peggio", "determinazione incontrollabile". La sintetica deserizione dantesca della fiera "che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza" si trasforma in una "maschera di morte", autoritratto della consunzione del poeta che riconosce in sé il male del suo tempo (cfr. Mura 2016) : Sembra quasi la caricatura del volto del poeta che piú tardi si riprende attenuato nella figura di Pasolini-Virgilio: "mistica magrezza", sguardo da "occhio secco", "simile agii spasimi dei santi: ariditâ allucinata", bocea come "cavita oblunga", "mento sporgente", "naso ingrossato", "naso umano della bestia", "cavia delle proprie brame divenute, incancrenendo, piú naturali".
La "paura" di Pasolini davanti a tale "degradazione" si deve al fatto che la Lupa e "quasi oggettiva", "definizione di sé", "ecce homo". La perdita dantesca della "speranza de l'altezza" diventa in Pasolini una difficile presa di coscienza del fatto che "la sua presenza era cosí indiscutibile da togliere ogni speranza di poter giungere mai a quella cima", una cima che lui chiama "misteriosa" e che non si illude piú di poter raggiungere in ascesa diretta. Lui si era "inaridito, senza vivere, senza serivere". La poetica fra post-ermetismo e neo-sperimentalismo si squarcia a causa della realia oggettiva della Lupa. Ma, proprio come nel poema di Dante, il vicolo cieco dell'Antinfemo nel quale l'impossibile raggiungimento della cima e l'impossibile ritomo nella selva sembrano non offrire via di uscita, si apre ad un inaspettato esito. Infatti, Pasolini-Dante, autore ed attore, afferma di essere, "tuttavia, preso da una nuova forma di vitalita". Una nuova spinta creativa, "una forza insuperabile", che tuttavia Pasolini e ancora incapace di motivare criticamente, in quanto - e salta all'occhio la burocraticita della parola che sceglie - non la puo "accreditare", fatto che gli procura "un'angoscia da cui ero reso impotente". La Lupa, per Pasolini cosi come per Dante, e "bestia senza pace", "qualcosa contro cui era semplicemente ridicolo cercar di misurarsi".
4.Conclusione
La rappresentazione del mondo nella sua came, nella sua mondanita, nella sua malvagita, partendo dalia pieta e dall'empatia con cui Pasolini vede il male in sé e negii aitri, si mostra come una poetica ormai impossibile, sopraffatta dalla realtâ oggettiva della Lupa. Ha perso "l'autoritâ della poesía", e cosi come nel proemio dantesco il senso oggettivo della bestia, la cupidigia, "non lascia altrui passar per la sua via" (v. 95), cosi la Lupa di Pasolini incama la "determinazione incontrollabile" sopra il mondo e il suo linguaggio, quello della trasformazione epocale della seconda industrializzazione, negii anni '60: essa crolla su di lui come una realtâ che non lo lascia passare. Qui Pasolini non riproduce la similitudine di Dante e si distanzia dall'originale anche nell'esito finale dell'incontro con la bestia. Questa, infatti, "ripigneva" Dante "la dove 'l sol tace", mentre Pasolini si sente "respinto indietro dalla tentazione di ritomarmene la dove non si richiede, in fondo, che di tacere".
Ma non sarâ cosi. Il suo doppio degli anni '60 gli suggerirâ che "bisogna cambiare strada", una strada che non puo portare a nessuno dei due paradisi linguistici prospettati, giacché il veltro della sua Commedia corre inesorabilmente verso valori quali "spirito aziendale, capitale cartaceo, e patria plurinazionale" (Pasolini 2006: 17). Del resto, seguendo il proprio maestro interiore, Pasolini era giâ riuscito a trovare, nel cinema, una nuova "strada", ovvero un nuovo linguaggio: "il linguaggio della realtâ".
PERFIL ACADÉMICO Y PROFESIONAL
Cristina Coriasso Martín-Posadillo es actualmente Ayudante Doctor y enseña Storia e Cultura italiana dei secoli XIXo e XXo en el Departamento de Estudios Románicos, Franceses, Italianos y de Traducción de la Universidad Complutense de Madrid, universidad en la que se licenció en Filosofía (1996), obtuvo el Magister en traducción (2007) y el doctorado europeo (2011) con "Premio Extraordinario" (2012) por su tesis Leopardi e l'idea di Natura. Obtuvo Menzione di merito en los Premi Leopardi di Dottorato 2005 (Recanati) por la tesina Símbolo y alegoría en la poética Giacomo Leopardi. Ha traducido y editado el Discorso sopra i costumi di Giacomo Leopardi (Discurso sobre el estado presente de las costumbres de los italianos (2013, Madrid: Pigmalión) y ha traducido y editado Estetica. Teoria della formativitá, del filósofo Luigi Pareyson (Estética. Teoría de la Formatividad, (2014, Madrid: Xorki). Desde 2015 dirige el Seminario Permanente de Estudios Leopardianos (Seminario La Ginestra).
Fechaderecepción: 10-11-2021
Fechadeaceptación: 18-12-2021
* Indirizzo per la corrispondenza: Cristina Coriasso Martin-Posadillo. Departamento de Estudios Románicos, Franceses, Italianos y de Traducción. Facultad de Filología. Universidad Complutense de Madrid. Plaza Menéndez Pelayo s/n. 28040 Madrid ([email protected])
1 Tale carattere viene specificato nella nota numero 2, datata 1° novembre 1964.
BIBLIOGRAFIA
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© 2022. This work is published under https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/es/ (the “License”). Notwithstanding the ProQuest Terms and Conditions, you may use this content in accordance with the terms of the License.
Abstract
Riassunto: La Divina Commedia si propone, durante la crisi ideologica degli anni '50, tramite gli studi di Gianfranco Contini e di Antonio Gramsci, come modelio autoriale, esistenziale e politico e come modelio plurilinguistico, ai quali si unisce, a partire dal 1957, il concetto di Mimesi di Auerbach, giâ profeticamente sensibile all'avvento del neocapitalismo degli anni '60, coincidente in modo non casuale con il trionfo della neoavanguardia e del Gruppo 63. Testimone artístico dell'agonica lotta contro tale avvento e La Divina Mimesis, incompiuto rifacimento del poema dantesco, in cui Pier Paolo Pasolini raffigura la crisi della sua poetica mimetica nell'incontro fra il suo io degli anni '50 e quello degli anni '60. La caratterizzazione delle tre fiere costituisce un quadro sociolinguistico in cui l'autore-attore non rinuncia alia dialettica allegorica, individuando, in ognuna di esse (lonza-illusione, leone-superbia, lupa-conformismo), i mali che riconosce in sé e nella realtâ.