M. Pirjevec (a cura di), L'altra anima di Trieste - saggi - racconti - testimonianze - poesie, Mladika, Trieste 2008, pp. 533.
Questo ponderoso volume, il cui denso e variegato contenuto si articola in oltre un centinaio di testi di sessantasei autori diversi, è frutto di un'operazione originale e coraggiosa che si spera cadrà su terreno fertile. Il libro, pubblicato dall'editrice triestina Mladika a cura di Marija Pirjevec, studiosa slovena di Trieste, è dedicato a quell'aspetto di questa affascinante ma non facile città che spesso, con singolare pervicacia, è stato ignorato e misconosciuto dalla gran parte dei suoi abitanti: la sua altra anima appunto, l'anima slovena. Si tratta di quella presenza attestata nella città e soprattutto nel suo entroterra già a partire dal Medioevo e divenuta più tangibile nel corso dei secoli, e soprattutto in seguito alla crescente consapevolezza nazionale che nell'Ottocento investì le genti europee. Come gli Sloveni anche gli Italiani, tra i quali all'interno dell'Impero Austro-Ungarico iniziarono sempre più a prendere piede impulsi irredentisti, come ben spiega la curatrice nel saggio introduttivo all'opera (pp. 9-40). La comune sudditanza all'imperatore austriaco - sotto la cui egida Trieste, da sempre crocevia di diverse culture, si trovava da mezzo millennio - non portò tuttavia in quest'area a una reciproca solidarietà tra le due componenti principali della città, appunto l'italiana e la slovena, ma al contrario si assiste negli ultimi decenni dell'Ottocento a una crescente diffidenza, soprattutto da parte della maggioritaria etnia italiana nei confronti della minoritaria slovena, ormai in rapida ascesa. La Pirjevec riassume le alterne vicende che segnarono la tormentata storia della città, passata alla fine della I guerra mondiale sotto l'Italia. Il Trattato di Rapallo del 1920, che conferì al Belpaese la sovranità su ampie porzioni di territori abitati prevalentemente da Sloveni, contribuì al logoramento dei rapporti, che poi peggiorarono drasticamente nel ventennio fascista, con un regime che tentò in tutti i modi di ottenere la completa denazionalizzazione dei territori appena annessi. Le italianizzazioni forzate di cognomi e toponimi, le espropriazioni di capitali sloveni, la chiusura di scuole, teatri e in generale di tutte le organizzazioni culturali di lingua slovena, cui si aggiunsero con sempre maggiore frequenza azioni violente di squadracce fasciste volte a terrorizzare la popolazione, sortirono comunque generalmente l'effetto opposto. Anche persone per natura e scelta di vita completamente avulse dalla politica come semplici curati di campagna, maestrine di paesini sperduti ed eterei musicisti si trovarono loro malgrado a divenire combattenti per la propria esistenza culturale. Il regime fascista, che arrivò al punto di proibire ai sacerdoti di tenere omelie in lingua slovena minacciando pesantemente i preti disobbedienti (che a Trieste e nel Litorale furono comunque numerosi) si macchiò di efferati delitti per tutto il periodo prebellico.
La successiva II guerra portò con sé, con l'occupazione nazifascista del territorio, altri e più grandi orrori che non occorre ricordare in questa sede. La guida della lotta di liberazione partigiana - che in quelle zone divampò molto presto, in gran parte spontaneamente - venne assunta dalle forze comuniste di Josip Broz "Tito", che fecero subito intendere alla componente liberale e cristiano-sociale del movimento che non avrebbero tollerato intromissioni nella loro egemonia né durante la lotta di liberazione né nella rifondata Jugoslavia socialista. Ben presto i "titini" si resero a loro volta colpevoli di orribili delitti, molti dei quali tra le fila dei loro stessi alleati. Tanto fu l'orrore suscitato da queste nuove ondate di violenza che molti Sloveni preferirono, proclamandosi domobranci, difensori della patria, allearsi con Tedeschi e Italiani, ritenendo che le truppe partigiane rappresentassero un pericolo ancora maggiore per il futuro della piccola nazione. Da qui una sanguinosa guerra civile dai rovinosi effetti: migliaia di persone - Italiani, Sloveni e Croati - furono gettati nelle cosiddette fojbe, in realtà "invenzione" fascista, poi però praticata in massa dai comunisti e anche da molti criminali comuni.
Questi tre drammatici decenni costituiscono un pesante bagaglio che gli uni e gli altri, i Triestini italiani e quelli sloveni, si portano dietro tutt'ora. E sono anche la chiave di lettura per comprendere le contraddizioni della città sul golfo: E a Trieste, vi odiate sempre tanto? avrebbe chiesto Eugenio Montale ogni volta che gli capitava di ricevere dei triestini, come ricorda lo studioso e pubblicista Miran Kossuta nella penultima pagina del corpo del libro.
L'antologia ha comunque un respiro ben più ampio. Si parte dal lontano Cinquecento con la vicenda del sacerdote Primoz Trubar, padre del protestantesimo sloveno e autore del primo libro in questa lingua, come ricorda lo storico Joze Pirjevec sottolineando l'importanza dell'esperienza triestina nella vita del prete carniolano, soprattutto il suo decisivo incontro con l'allora vescovo della città, l'illuminato Pietro Bonomo.
Da qui prende il via una serie di contributi memorialistici che rappresentano l'ossatura del libro: a inizio Ottocento è ambientato il racconto autobiografico di Josip Godina Verdelski (1808-1884), semplice ma toccante ricordo di un ragazzo di una povera borgata triestina e del suo forte desiderio, infine esaudito, di riscatto sia economico che soprattutto culturale. Cronologicamente il volume si conclude per così dire nel futuro, con la "Profezia di Dzevad", metafora, per Kosuta, di un avvenire triestino che si auspica all'insegna di una ritrovata serenità.
L'opera è articolata in quattro sezioni, ciascuna preceduta da una breve citazione. I numerosi autori sono diversi tra loro per estrazione ed epoca, ma anche per il tipo di rapporto con la città. Li accomuna solo il dato di essere tutti Sloveni. Molti sono ovviamente i nativi di Trieste e del circondario, ma non mancano i "forestieri" per i quali la città sul golfo ha rappresentato una tappa significativa della vita. Dietro ai testi non letterari troviamo studiosi di campi diversi, come - per citarne almeno alcuni - il già menzionato Pirjevec, presente con più contributi illustrativi; il sociologo e politico goriziano Darko Bratina, prematuramente scomparso; lo psichiatra e pubblicista Pavel Fonda, collaboratore del famoso Basaglia; la pubblicista Pavla Hocevar che ricorda un aspetto relativo alla condizione femminile ai primi del Novecento; il compositore e linguista Pavle Merkù che racconta la sua personale vicenda umana di "Sloveno di ritorno", quando, sradicato dalla sua lingua di origine, si trova a doverla re-imparare da adolescente; la pittrice Zora Koren Skerk che scrive del suo passaggio - giovanissima - dalla "zona B" alla città di Trieste, dove iniziò una nuova vita; il critico letterario Lino Legisa che ci narra del suo arresto da parte dei fascisti, sullo sfondo dell'amato paesaggio carsico; lo psicologo e teologo Anton Trstenjak che cerca di individuare i tratti distintivi dell'animo degli Sloveni di Trieste, che egli vede, nonostante tutto, molto simili a quelli dei loro concittadini italiani.
Come si vede, numerose sono le memorie personali. Ciò vale anche per gli scrittori di professione, che qui generalmente parlano di se stessi o di personaggi comunque reali. In particolar modo questo è vero per i prosatori ma non solo, anche se ovviamente la poesia usa un linguaggio diverso.
I testi propriamente poetici sono piacevolmente sparsi in tutto il volume, diffondendo come un alito di leggerezza sull'intera opera. Inizia la serie un poeta della cosiddetta Moderna, quel Dragotin Kette (1876-1899) morto di stenti appena ventiduenne alle soglie del nuovo secolo. Per lui, uomo dell'interno che a Trieste era giunto per adempiere agli obblighi militari per il Kaiser, la città sul golfo è soprattutto il mare, gli orizzonti aperti:
E allora ha riso il mare vasto,
e allora ha riso la brezza leggera.
La poetessa dialettale Marija Mijot (1902-1994) - ampio spazio è dedicato nel volume all'universo femminile, sia che si tratti di saggistica, memorialistica, poesia o prosa - la leggiamo qui tradotta nell'idioma italiano della stessa città, cioè in triestino. Come lei figlio del sobborgo di S. Giovanni / Sv. Ivan, Vladimir Bartol (1903-1967), più noto per l'originale romanzo Alamut, tradotto anche in italiano, è qui presente con frammenti tratti dalle sue memorie, lo scritto Mladost pri Sv. Ivanu (Una giovinezza a S. Giovanni). Il prosatore ci fa rivivere con gli occhi di un ragazzo antichi rituali paganeggianti in voga nelle zone suburbane della città ancora alla vigilia della grande guerra. Tra i poeti non poteva mancare il grande Carsolino Srecko Kosovel (1904-1926), nonostante la brevissima vita universalmente riconosciuto come uno dei più originali autori del secolo, molto tradotto anche in italiano, soprattutto dalla brava e infaticabile Jolka Milic. La sua forte personalità gli fa gridare - nonostante le difficoltà e la malattia che doveva condurlo presto alla tomba:
Su questo lembo di terra pietrosa
tutto è bello e vero,
essere, vivere, lottare,
sentirsi giovane e sano.
Nella raccolta, Kosovel è presente con diversi brani: tra gli altri, con la visionaria e inquietante Ekstaza smrti (Estasi di morte); con una poesia-denuncia delle persecuzioni fasciste (Cultura italiana?); e con una prosa (la traduzione è dell'altrettanto brava e infaticabile Diomira Fabjan Bajc) in cui nota - lui ragazzo di provincia - il profondo contrasto tra campagna e zone urbane. Partendo dalla carsica Villa Opicina / Opcine che la sovrasta, giungiamo fino al cuore della città con un effetto zoom, via via scendendo col famoso tram de Ópcina verso il mare. Ormai messa a fuoco, Trieste non è più uno spettacolo da cartolina ma una città vera, con dettagli, suoni, odori, difetti.
Dall'obelisco si vede Trieste e il mare; ma quello che hai davanti agli occhi è solo un quadro [...]. Ma a mano a mano che il tram scende, ti rendi conto di come siano sbilenche le case, e di come tu sia retto. [...] Il quadro che hai visto dal monte prende vita. Ciò che hai abbracciato con lo sguardo vive ora in mille suoni, e tu passeggi tra quei suoni.
Il Carso e la sua costa vengono evocati, vividi, anche dai versi realistici di Igo Gruden (1893-1948), da quelli riflessivi di Alojz Gradnik, poeta del Collio (1882 -1967) da quelli di Miroslav Kosuta (1936), radicati nel suolo natio ma intrisi di un tormento dai tratti universali. E da tanti altri ancora, che per brevità non è qui possibile citare.
La parte più corposa del volume è rappresentata - la lingua batte dove il dente duole - da scritti che si riferiscono al periodo più buio nella storia degli Sloveni di Trieste. Abbiamo qui una gamma piuttosto vasta di testi, dal pubblicistico al letterario, dal discorso politico all'omelia cattolica.
Tra gli scrittori spiccano i nomi dei due più grandi romanzieri triestini sloveni viventi, Boris Pahor (1913) e Alojz Rebula (1924). Del primo, presente con diversi brani, ricordiamo un frammento autobiografico con la rievocazione dell'incendio appiccato dai fascisti - nel lontano 1920 - al Narodni dom, edificio al centro di Trieste sede all'epoca di varie istituzioni slovene; e la poetica trasfigurazione di una delle tante brutalità perpetrate nel "ventennio" tra gli scolari sloveni, qui ai danni di una soave bimba con le treccine, la "Farfalla sull'attaccapanni". Di Rebula, non a caso, troviamo tra gli altri un brano la cui protagonista, la "Signorina Romilda" è un'esaltata maestra fascista, una dei tanti insegnanti che venivano all'epoca spediti in quelle zone per "rieducare" i bimbi sloveni. In un altro passo l'autore rievoca un'altra tematica dolorosa, quella dell'emigrazione degli anni cinquanta. Tra i testi a metà tra pubblicistico e letterario ricordiamo il toccante "Padre nostro per il nemico", preghiera che nei ricordi del giornalista e scrittore triestino Sasa Martelanc veniva recitata da sua nonna ogni sera anche per "quegli altri".
Tra i brani più propriamente letterari ricordiamo "L'allievo di Joyce" del noto prosatore e drammaturgo Drago Jancar (1948) che narra la storia paradossale ma vera di un intellettuale sloveno triestino che venne perseguitato prima dai fascisti, poi dai comunisti, fatto purtroppo non raro in quelle zone.
Particolarmente interessanti sono i testi di due politici e di due sacerdoti. Dei primi due, un cristiano-sociale, Engelbert Besednjak (1894-1968), e un liberale, Josip Vilfan (1878-1955), sono riportati i rispettivi discorsi in parlamento dove tentarono di ribellarsi alle imposizioni fasciste. Il sacerdote e scrittore Virgil Scek (1889-1948), che fu sospeso a divinis dall'allora vescovo di Trieste Santin per non essersi piegato al divieto di predicare in sloveno durante la messa, parla in toni pacati della propria vicenda di uomo e di prete. Un testo molto forte è anche la predica del teologo e astronomo Jakob Ukmar (1878-1971), prete coraggioso e vicino al suo popolo che è stato proposto per la beatificazione.
Concludiamo questa carrellata - per motivi di spazio purtroppo assolutamente incompleta - ricordando tre contributi molto toccanti: una lettera dal carcere inviata alla giovane moglie dallo scrittore Stanko Vuk (1912-1944), la cui tragica vicenda ha ispirato anche lo scrittore italiano Fulvio Tomizza; un brano di memorie del medico Dorce Sardoc (1898-1988), condannato a morte nel 1940, con pena poi commutata in ergastolo. E infine la lettera di addio scritta alla fidanzata alla vigilia dell'esecuzione capitale - in questo caso la condanna fu eseguita davvero - dallo studente e attivista politico Pinko Tomazic (1915-1941). Colpisce il sereno coraggio che traspare dalle sue ultime parole:
Vivi, è necessario vivere per adempiere al compito assegnatoci dalla vita, al dovere nei confronti della società!
Il volume, che ha anche una gradevole veste grafica, riporta alla fine brevi "Notizie biobibliografiche sugli autori". Segue un indice dei traduttori, ben trentuno, per la gran parte estremamente validi. È bene ricordare come per molti dei testi si tratti di traduzioni inedite, eseguite appositamente per questa pubblicazione. Utile anche un indice di alcuni toponimi ricorrenti nel testo, nelle due forme italiana e slovena. Si sente invece la mancanza di un indice alfabetico dei nomi che avrebbe facilitato la consultazione del voluminoso tomo.
Se raggiungerà un buon numero di lettori italiani, quest'opera, di gradevole lettura, darà senz'altro un validissimo contributo alla conoscenza di quell'altra anima di Trieste, sia informando su eventi che in Italia sono ignoti ai più, sia rendendo partecipi del modo in cui queste realtà sono state vissute da altri esseri umani, al di là di quella frontiera che ancora oggi suscita talora inquietudine.
Maria Bidovec
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Copyright Firenze University Press 2010
Abstract
Come gli Sloveni anche gli Italiani, tra i quali all'interno dell'Impero Austro-Ungarico iniziarono sempre più a prendere piede impulsi irredentisti, come ben spiega la curatrice nel saggio introduttivo all'opera (pp. 9-40). La comune sudditanza all'imperatore austriaco - sotto la cui egida Trieste, da sempre crocevia di diverse culture, si trovava da mezzo millennio - non portò tuttavia in quest'area a una reciproca solidarietà tra le due componenti principali della città, appunto l'italiana e la slovena, ma al contrario si assiste negli ultimi decenni dell'Ottocento a una crescente diffidenza, soprattutto da parte della maggioritaria etnia italiana nei confronti della minoritaria slovena, ormai in rapida ascesa. Per lui, uomo dell'interno che a Trieste era giunto per adempiere agli obblighi militari per il Kaiser, la città sul golfo è soprattutto il mare, gli orizzonti aperti: E allora ha riso il mare vasto, e allora ha riso la brezza leggera. Se raggiungerà un buon numero di lettori italiani, quest'opera, di gradevole lettura, darà senz'altro un validissimo contributo alla conoscenza di quell'altra anima di Trieste, sia informando su eventi che in Italia sono ignoti ai più, sia rendendo partecipi del modo in cui queste realtà sono state vissute da altri esseri umani, al di là di quella frontiera che ancora oggi suscita talora inquietudine.
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