Abstract
Monica Fin
The Interconfessional Polemic Between the Orthodox Serbs and the Catholic Church in Dalmatia Between 17^sup th^ and 19^sup th^ Century. The Age of Gerasim Zelic
The interconfessional polemic which, between the 17^sup th^ and 19^sup th^ centuries, engulfed the Serbian Orthodox community living in the Dalmatian area close to the Triplex Confinium (the triple border point between the Venetian Republic, the Ottoman Empire and the Habsburg Empire), has already attracted the attention of many historians. However, previous scholarship is characterized by considerable differences in approach and results.
The present paper is to be seen as the first part of a broader study of the personal and public fate of Gerasim Zelic (1758-1828), a Serbian archimandrite and writer, whose activity as Vicar General of the Serbs of Dalmatia (1796-1810) and Vicar General of Cattaro (1810-1811) interacted with the interconfessional polemic in his native Dalmatia. Firstly, the paper provides state-of-the-art historiography on the confessional question in Dalmatia. Secondly, it summarizes the main events which opposed the Catholic Church and the Orthodox population of the area, from the time of the Venetian domination to Zelic's day. Lastly, it provides a brief description of a corpus of manuscripts connected to the figure of Zelic, which will be studied from a historical and culturological perspective in order to help reconstruct the events related to the confessional question in Dalmatia.
Keywords
Interconfessional Polemic; Dalmatia; Gerasim Zelic.
La polemica confessionale che fra xvii e xix secolo oppose le comunità serbo- ortodosse e il clero cattolico nella regione del Triplo Confine - la zona della Dalmazia settentrionale a lungo contesa fra la Repubblica di Venezia, l'Impero Ottomano e la monarchia Asburgica - è stata ampiamente studiata dalla storiografia: i lavori di Nikodim Milas (1901), MileBogovic (1982), Marko Jacov (1984), Drago Roksandic (1991) ed Egidio Ivetic (2009), per citarne solo alcuni, hanno contribuito in maniera significativa a ricostruire il complicato mosaico confessionale della regione, arrivando talvolta a conclusioni anche contrastanti.
L'elemento confessionale costituisce infatti la differentia specifica alla base della difficile convivenza fra il clero cattolico croato e i serbi ortodossi immigrati nelle zone settentrionali della Dalmazia in seguito alle guerre veneto-turche (1645-1718). Buona parte del Settecento fu segnata dall'attività pastorale di vescovi e preti cattolici, i quali cercarono di estendere l'autorità della Chiesa romana anche sul clero e sulle popolazioni "serviane di rito greco", in modo da scongiurare l'eventualità che nell'area si insediasse un episcopo ortodosso. Alle attenzioni del clero cattolico si affiancarono poi i tentativi, più o meno programmatici, di " armonizzazione" delle genti ortodosse messi in atto dalle grandi potenze europee che si trovarono a governare sulla regione, in particolare la Repubblica di Venezia e l'Impero Asburgico.
Per quanto riguarda Venezia, dopo le guerre del Seicento l'integrazione dei morlacchi ortodossi nel sistema sociale della Dalmazia veneta non costituì solo un problema locale, ma un punto nodale nel rapporto fra la Repubblica e i sudditi ortodossi (greci e serbi) durante il Settecento. All'analisi dei documenti dell'epoca, l'atteggiamento della Serenissima nei confronti degli ortodossi appare spesso oscillante, poiché fortemente dipendente non solo dalle concrete circostanze storiche cui la Repubblica dovette far fronte, ma anche dalle competenze politiche e dalla sensibilità dimostrata dai proweditori di turno in Dalmazia verso la questione confessionale (Morabito 2001: 282).
Decisamente più netta, invece, la posizione degli austriaci: un preciso progetto volto a ricondurre le comunità ortodosse dalmate in seno alla Chiesa cattolica fu elaborato da Vienna ai primi dell'Ottocento e coinvolse direttamente lo stesso imperatore Francesco i, Spiritus movens dell'iniziativa. La monarchia asburgica auspicava così, tra l'altro, di porre fine alla forte ingerenza esercitata sulle genti ortodosse della regione da parte degli zar russi, i quali si proponevano agli slavi meridionali come alleati naturali nella lotta per l'affrancamento dalla dominazione straniera.
Dal canto loro, le comunità serbe stanziate nella regione dimostrarono costante fermezza nel difendere il proprio retaggio culturale e la propria identità, cercando anzi una legittimazione per la Chiesa ortodossa in territorio dalmata. Dopo i reiterati tentativi, tutti andati vani, profusi durante la dominazione veneziana, i serbi ottennero la creazione di un'eparchia ortodossa dalmata solo nel 1809, sotto la dominazione francese: l'anno seguente fu lo stesso Napoleone a nominare Benedikt Kraljevic primo vescovo ortodosso di Dalmazia. La costituzione dell'eparchia non risolse tuttavia le tensioni fra le due parti, anzi, se possibile non fece che acuirle.
Il presente studio rappresenta la fase preliminare di una ricerca più ampia, volta a chiarire alcune questioni inerenti alla polemica confessionale nella zona della Dalmazia settentrionale per l'epoca a cavallo fra xvm e xix secolo, sulla base di un corpus di documenti manoscritti legati alla figura dell'archimandrita Gerasim Zelic (1752-1828). Originario dell'entro terra zaratino, Zelic fu di fatto uno dei principali protagonisti degli eventi del tempo, in quanto ricoprì dapprima la carica di Vicario generale dei serbi di Dalmazia (1796-1810) e in seguito quella di episcopo vicario di Cattaro (1810-1811). Scopo finale della ricerca è ricostruire l'operato di Zelic nel contesto della questione confessionale, con particolare attenzione alla controversia che lo oppose all'episcopo Kraljevic, un episodio che segnò profondamente l'ultima fase della vita dell'archimandrita serbo, e che, seppur già noto alla storiografia, meriterebbe ulteriori approfondimenti.
All'inquadramento del problema dal punto di vista storiografico seguiranno dunque una disamina degli eventi legati alla questione confessionale in Dalmazia fino all'epoca di Zelic, e, in chiusura, una presentazione sommaria del corpus di documenti relativi alla sua vicenda.
1. Un problema storiografico
Come accennato in apertura, molte sono le diversità interpretative fra le storiografie che si sono occupate della questione confessionale in Dalmazia: a questo proposito, vediamo di tracciare un quadro dei contributi offerti finora dagli studiosi.
Per quanto concerne la storia della Chiesa cattolica in Dalmazia, ad esempio, le sintesi finora proposte dimostrano spesso una scarsa correlazione fra l'edizione delle fonti d'archivio e la ricerca nell'ambito della ricostruzione storica. Altrettanto limitata è l'attenzione riservata alle dinamiche confessionali proprio per l'epoca settecentesca, benché sia stato più volte puntualizzato corne proprio il Settecento sia il secolo da cui partire nella ricostruzione storica dei rapporti fra croati e serbi nella zona del "Triplo Confine" (Roksandic 2003).
Alla luce di ciò, la monografia di Mile Bogovic Katolicka crkva i pravoslavlje u Dalmaciji za mletacke vladavine (prima ed. 1982), basata soprattutto su fonti vaticane, rimane comunque il testo che riassume in maniera più efficace le questioni fondamentali che coinvolsero l'alto clero cattolico nella Dalmazia veneta. Nel caso della polemica confessionale, ad esempio, Bogovic (1993: 106) sostiene che non si possa parlare di un preciso programma di politica religiosa e dunque di un atteggiamento univoco da parte della gerarchia cattolica verso gli ortodossi dell'area dalmata, perlomeno fino agli inizi del Settecento. Le tà in questo senso dai cattolici sarebbero dunque riconducibili all'iniziativa di singole personalità locali particolarmente autorevoli, in particolare gli arcivescovi di Zara Vicko Zmajevic (in carica dal 1713 al 1745) e Mate Karaman (in carica dal 1745 al 1771), entrambi, com'è noto, fortemente impegnati ad arginare la presenza ecclesiastica ortodossa e ad affermare il ruolo prioritario del clero cattolico nella regione1.
Per quanto riguarda invece la storia della presenza ortodossa in Dalmazia, rimane imprescindibile il volume Pravoslavna Dalmacija dell'episcopo Nikodim Milas (prima ed. 1901). Definita come una " storia dell'intolleranza verso i serbi dalmati e della loro resistenza alle pressioni della Chiesa cattolica e degli Stati cattolici che hanno governato la regione" (Ivetic 2009a: 91), l'opera di Milas è di fatto guidata dall'idea che non vi fu mai (o quasi) tolleranza verso gli ortodossi in Dalmazia, e ciò malgrado Timpegno da loro dimostrato a fianco delle potenze europee durante le guerre contro gli ottomani2 * * 5. Secondo Tepiscopo serbo il periodo peggiore nello scontro fra le due confessioni fu proprio il Settecento, il secolo in cui la regolazione della presenza ortodossa sul territorio divenne un'esigenza pressante tanto per il governo veneziano, quanto per i vescovi cattolici locali, fra cui spiccano appunto i già citati Zmajevic e Karaman3.
Malgrado alcune sue posizioni discutibili, Topera di Milas ha il merito di aver aperto un filone di studi sul rapporto plurisecolare fra la curia romana e gli slavi meridionali (serbi e croati), una tematica ripresa da Jovan Radonic nel suo Rimska kurija i juznoslovenske zemlje (1950) e nelle raccolte di fonti vaticane pubblicate da Marko Jacov negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso (1983,1986,1992,1998). Si tratta di lavori utilissimi per ricostruire Toperato della Chiesa cattolica nei Balcani, anche se va segnalata una generale tendenza, propria di buona parte della storiografia serba, a mettere in luce il velleitarismo del clero cattolico e della politica perseguita dalla Santa Sede (leggi Propaganda Fide) nei confronti degli slavi meridionali. 1
Una voce fuori dal coro è in tal senso rappresentata da Gligor Stanojevic, il quale indica nella Dalmazia dell'Acquisto nuovo e nuovissimo la terra in cui cattolici ed ortodossi convivevano pacificamente, almeno fino alla fine della dominazione veneta, contro il comune awersario ottomano (Stanojevic 1970).
Di parere opposto è invece Egidio Ivetic, il quale sostiene che nella Dalmazia del Settecento "non ci poteva obiettivamente essere dialogo fra il clero cattolico e i fedeli ortodossi": la propaganda, e talvolta "la forte imposizione dell'uniatismo" da parte delle varie potenze che si trovarono a gestire le minoranze ortodosse stanziate nei territori di nuova conquista, crearono un clima da " guerra santa" che investì non solo la Dalmazia, ma una regione ben più ampia, che si estendeva fino alla Transilvania (Ivetic 2009a: 95-97). Per quanto riguarda invece il rapporto fra le due Chiese, Ivetic puntualizza come il contrasto fra clero cattolico ed ortodosso non si possa ridurre solo ad una questione ecclesiastica: la convivenza forzata e lo sforzo di uniformare in senso confessionale una provincia di frondera comportavano altresì implicazioni politiche ed economiche, specie per le zone in cui le competenze del clero cattolico ed ortodosso si sovrapponevano e le comunità erano costrette a condividere territori e risorse. Di conseguenza, nel ricostruire la storia della convivenza fra cattolici ed ortodossi in Dalmazia andrebbero prese in considerazione non solo le memorie dei singoli ecclesiastici, sicuramente preziose per comprendere le posizioni ideologiche dei vari personaggi che operarono nella regione, ma anche i risvolti sociali e materiali di questo rapporto, aspetti che si possono chiarire esclusivamente sulla base dei documenti relativi alla gestione materiale dei territori e delle singole parrocchie4.
2. La questione confessionale nella Dalmazia veneta
Il xviii secolo è stato definito "1 época della stabilità e della prosperità" nel complesso del quasi millenario rapporto che, tra tensioni e guerre, legò Venezia al suo "oltremare", owero l'Istria, la Dalmazia e 1 Albania venete, regioni assai diverse fra loro per dinamiche politiche e sociali5.
Alla fine del Settecento, la Dalmazia veneta era una sorta di piccolo regno a sé, "una realtà aggregata e fluida di genti, lingue e confessioni diverse" (Paladini 2002: 14), racchiu-4 sa fra l'Adriatico e la linea confinaria che divideva i possedimenti veneziani da quelli ottomani, frutto dei molteplici conflitti che a lungo avevano impegnato le due potenze6. Dal punto di vista confessionale, la regione costituiva da un lato la frondera tra il cristianesimo e l'islam, dall'altro lo spazio in cui si trovarono a dover convivere, purtroppo non sempre pacificamente, cattolicesimo ed ortodossia7.
Le guerre di Candia e Morea avevano infatti portato ad una forte immigrazione nei territori di nuova conquista di genti ortodosse provenienti dall'entroterra: secondo le súme di G. Stanojevic (1962: m, 128), circa 10.000 morlacchi di entrambe le confessioni si erano trasferiti nei territori definiti dalla Linea Nani ed altri 30.000 erano arrivati dopo le guerre di Morea8. Sulla base di questi dati, è stato ipotizzato che la presenza ortodossa fosse pari a circa 7.000 anime verso il 1650, fra le 10 e le 13.000 verso il 1685 e circa 20.000 alla fine delle tre guerre veneto-turche, nel 17219. Stando ai documenti veneziani, nel 1761 la maggioranza degli ortodossi serbi faceva capo alle diocesi di Cattaro (dove costituivano il 64% della popolazione), Nona (55,3%) e Scardona (50%); a Sebenico erano invece il 26,4% della popolazione totale, a Spalato e Zara meno del 10%10. Riassumendo, sipuó dire che nel corso di mezzo secolo (1720-1770), la popolazione serbo-ortodossa della Dalmazia veneta raddoppiò, passando da 20.000 a quasi 40.000 unità, pari a circa il 17,3% sul totale, con costanti oscillazioni dovute alle migrazioni verso la Krajina asburgica e le zone meridionali della Russia (Ivetic 2009a: 99-100).
La Dalmazia non era comunque l'unica regione dentro i domini veneti a registrare una massiccia presenza ortodossa: nel 1718 l'Albania veneta (leggi Bocche di Cattaro) era infatti per quasi due terzi ortodossa, con 9.000 cattolici a fronte di 16.000 ortodossi (Ivetic 2009a: 100). La situazione sociale era comunque diversa nelle due provincie: mentre in Albania veneta il clero ortodosso montenegrino ed erzegovese era riuscito a mantenere un controllo diretto sulle nuove comunità, per cui non ci fu discontinuità nel passaggio fra la fase ottomana e quella veneziana, in Dalmazia settentrionale l'inserimento degli ortodossi aveva seguito la casualità delle immigrazioni ed era stato frammisto all'arrivo dei cattolici, portando fin da subito a scontri fra i due gruppi confessionali11. Significativa era inoltre la presenza su questo territorio di vescovati cattolici, alcuni anche di antichissima origine: si trattava perlopiù di diocesi litoranee, già parti della Dalmazia turca ed i cui confini furono ritracciati dopo la guerra di Morea, in un delicato passaggio di competenze che da nominali divenivano ora reali per le zone di nuova conquista veneziana12.
La "fase critica" nelle relazioni fra le due parti si aprì proprio con la guerra di Candia. Fino ad allora, i sudditi ortodossi della Dalmazia veneta (ad esempio gli stradioti greci) avevano vissuto in piccole comunità militari negli ambiti urbani di Zara, Sebenico e dell'isola di Lesina, come minoranza tollerata dal clero cattolico, che talvolta permetteva loro di praticare i riti liturgici nelle chiese cattoliche (Trogrlic 2009: 344). Durante la guerra di Candia, i veneziani mantennero dapprima un atteggiamento garante della diversità nel culto: nel 1641, ad esempio, fu confermata la libertà di professione religiosa in favore della comunità greca di Sebenico, una clausola poi di fatto estesa anche ai morlacchi ortodossi trasferitisi sotto la sovranità veneta (Bogovic 1993: 152). Dopo la fine della guerra e la perdita di Candia, Venezia cambiò invece il suo atteggiamento : se prima vi era la tendenza a trincerarsi lungo la costa, evitando lo scontro con gli ottomani, nella guerra di Morea i veneziani non solo penetrarono verso l'interno, ma si dimostrarono ben decisi a conservare i territori conquistati (Vrandecic 2009: 305). Fu allora che le popolazioni dell'interno, i morlacchi ortodossi e cattolici, accompagnati da preti e monaci, si spostarono nei territori di nuova dominazione (soprattutto l'entroterra zaratino), con la speranza di ottenere terra coltivabile13.
Malgrado i provveditori abbiano spesso ricondotto la propria difficoltà nel gestire le turbolenze causate dai nuovi arrivati anche all'inefficienza del clero cattolico locale14, i documenti d'archivio testimoniano che i vescovi dalmati si sforzarono di convertire gli "scismatici" (ovvero i morlacchi ortodossi) fin dal loro arrivo: i primi episodi di questo tipo si registrano infatti già nel 1645, con un aumento di casi verso la fine del secolo15. La "conversione" poteva avvenire in due modi: la comunità poteva riconoscere sia il dogma cattolico che il rito latino, oppure accettare solo l'autorità del parroco o del vescovo latino locale, mantenendo comunque il rito greco16. L'aspetto rituale era infatti fondamentale per il popolo semplice, cosa di cui i vescovi cattolici si rendevano pienamente conto: come scrive Bogovic (1993: 106-107), "U stvari, za puk veoma lose upucen u vjerska pitanja znacilo je mnogo vise ono uocljivo, vanjsko, tj. obred (ceremonije), predaje i obicaji, nego dogmatske razlike"17.
Nella maggior parte dei casi, comunque, le genti ortodosse si dimostrarono refrattarie e sfuggenti alle proposte (e talvolta alle imposizioni) del clero cattolico dalmata: i serbi accettavano la sovranità veneta, ma intendevano mantenere la propria liturgia e le proprie consuetudini, la propria vita sociale e confessionale. Inoltre, dato che le migrazioni riguardarono sempre comunità dotate di una loro organizzazione interna, i serbi si percepivano come un gruppo a sé nel contesto dalmata, al contempo ben consapevoli di essere "un segmento di una popolazione ben più numerosa, che aveva il suo baricentro nell'impero ottomano e che nella Chiesa serba trovava la sua identificazione" (Ivetic 2009a: 103)18. Sotto la dominazione ottomana gli ortodossi ricadevano infatti sotto la competenza religiosa (e in parte civile) dell'eparchia bosniaca di Dabar, e, naturalmente, del patriarcato di Pec, prerogative che tuttavia non potevano essere accettate dalla Dominante, i cui sudditi di fede ortodossa sottostavano all'autorità esclusiva dell'arcivescovo di Filadelfia, riconosciuto nel 1576 dalla Repubblica, in sintonia con il patriarcato di Costantinopoli (Fedalto 2002).
Date dunque le oggettive difficoltà, il governo veneziano tentò ben presto di definire una sostanziale gerarchia fra i due gruppi e di inquadrarli nel sistema della Serenissima, emanando delle normative con cui il clero ortodosso veniva di fatto posto in posizione subordinata rispetto a quello cattolico19. Già nel 1693, inoltre, i veneziani pensarono di creare un episcopato ortodosso per la Dalmazia, in modo da poter avere un controllo diretto sui pope e sui monaci: nata dunque come iniziativa dei veneziani, la creazione di un'eparchia dalmata divenneperle comunità serbo-ortodosse un'aspirazione costante, che avrebbe animato la storia della regione per tutto l'arco del Settecento (Samardzic 2000, iv/2: 7-68; Milas 2004: 298- 434). Il riconoscimento formale ed istituzionale della Chiesa ortodossa serba rappresentava infatti per i nuovi venuti non solo una conferma dell'autonomia culturale e della loro legittimità in quanto popolazione specifica, ma anche la condizione essenziale per una propria affermazione come comunità ed il riconoscimento della "piena cittadinanza"20. Le controparti con cui i serbi ebbero a misurarsi furono il governo veneto, che non si dimostrò mai lineare nelle sue decisioni, ed il clero cattolico, ostile a qualsiasi concessione del genere.
La storiografia individua tradizionalmente tre fasi nello svolgimento della vicenda. La prima fase (1645-1706) si apre con l'arrivo dei serbi ortodossi nelle regioni di nuova conquista veneziana, e registra da un lato le prime "professioni di fede cattolica", dall'altro un paio di tentativi di trovare un compromesso fra le norme dello Stato veneto e la tradizione confessionale dei nuovi arrivati: in tal senso, l'episodio più significativo è legato alla figura di Nikodim Busovic, già parroco di Sebenico, il quale, su iniziativa dei veneziani, nel 1693 fu investito della carica di episcopo ortodosso per la Dalmazia dall'arcivescovo di Filadel18 fia, Melezio Tipaldi21, e confermato nel suo molo dal patriarca serbo Arsenije ni Crnojevic (Milas 2004: 308-318). L'equilibrio così trovato dai veneziani sembrò dapprima funzionare, complice anche l'amicizia del Busovic con i proweditori generali Daniele Dolfin (1692-1696) e Alvise Mocenigo (1696-1702), per poi crollare rapidamente sotto il proweditore Giustin da Riva (1705-1708), apertamente schierato con i vescovi cattolici (Bogovic 1993: 48-51). L'episodio non fece di fatto che aumentare la diffidenza degli ortodossi nei confronti dei cattolici e deU'"Unione con Roma"22.
Una seconda fase nella vicenda confessionale si aprì nel 1705, quando il proweditore generale Riva impose al clero serbo ortodosso una nuova serie di norme che prevede - vano ubbidienza ai prelati cattolici. Gli ortodossi individuarono allora una nuova guida in Savatije Ljubibratic, religioso di origine erzegovese cui i veneziani avevano già riconosciuto l'autorità sul clero ortodosso di Castelnuovo (Radonic 1950: 588-590). Pur senza il beneplacito dell'arcivescovo di Filadelfia Tipaldi, Savatije iniziò ad esercitare a pieno i suoi poteri da episcopo ortodosso in pectore, compiendo visite pastorali presso i monasteri ortodossi di Krka, Krupa e Dragovic e le parrocchie locali (Bogovic 1993: 56-58). Di fatto, tuttavia, Savatije non ottenne mai un'investi tura formale da parte veneziana, e tornò a Castelnuovo già nel 171223.
Pochi anni dopo, complice il secondo mandato a proweditore generale di Alvise cenigo per parte sua favorevole a concedere l'autonomia ecclesiastica agli ortodossi dalmati, il patriarca di Pec, Mojsije Rajevic, nominò episcopo di Dalmazia il nipote di Savatije, Stefan Ljubibratic24. Era il 1719, il trattato di Passarowitz era appena stato firmato, e al momento di definire i nuovi confini la collaborazione del Ljubibratic fu molto preziosa per Mocenigo, convinto dell'utilità di avere i morlacchi ortodossi dalla parte del governo, ed allo stesso tempo critico nei confronti dei vescovi cattolici, le cui iniziative "pastorali" tradivano l'interesse per un possibile aumento delle entrate25. Le posizioni di Mocenigo 21 suscitarono le proteste dell'arcivescovo di Zara, Vicko Zmajevic, il quale informò Propaganda Fide dell'iniziativa e presentò il Ljubibratic come un pericolo politico per il dominio dalmata26. In breve, nemmeno questo secondo tentativo andò a buon fine: la candidatura di Ljubibratic venne sottoposta al Senato veneziano, ma incontrò il parere negativo del nuovo proweditore, Marcantonio Diedo (1721-1723), che, "indirizzato" da Zmajevic, descrisse il candidato come un soggetto inaffidabile27. Ljubibratic fu allora costretto a ritirarsi nella Lika austriaca (Bogovic 1993: 61-65).
E stato notato come la vicenda di Ljubibratic evidenzi non solo la crescente tensione nei rapporti fra il clero cattolico, quello ortodosso e un segmento del patriziato veneto, ma anche la presenza di alcuni attriti interni al fronte cattolico in Dalmazia, dove di fatto non tutti condividevano le idee di Zmajevic. Questa ipotesi, sollevata dal Bogovic (1993: 63), apre una nuova prospettiva interpretativa sulla figura di Zmajevic, che diventa così una componente, e non più il protagonista assoluto, dell'episcopalismo dalmata settecentesco. Benché sia innegabile che la sua attività, insieme a quella del suo successore Mate Karaman, abbia segnato una continuità politica di quasi sei decenni nella regione (1712-1771), il clero cattolico di Dalmazia non andrebbe visto (com'è stato spesso fatto) come un corpo monolitico: l'attività dei singoli fu infatti spesso influenzata dalla loro estrazione (croata o italiana) e dal contesto politico, così variabile in tempi e luoghi anche molto vicini28. Similmente, anche la politica religiosa portata avanti dalla curia romana nell'area che oggi diremmo dei Balcani occidentali mutò spesso, in un oscillare di atteggiamenti void ora a conservare le posizioni acquisite, ora ad espandersi verso gli ortodossi, data anche la consapevolezza dei limiti d'azione del clero cattolico presente nell'area29.
Un ultimo tentativo per trovare un compromesso venne fatto alla metà del Settecento: il nuovo candidato, Simeon Koncarevic, fu nominato episcopo di Dalmazia dall'episcopo serbo di Bosnia, su delega del patriarca di Pec, sollevando stavolta le proteste non solo dei vescovi cattolici, ma anche di una parte del clero ortodosso dalmata. Data la situazione, le autorità veneziane gli imposero di allontanarsi dalla Dalmazia nel 175330. Anche dopo essersi ritirato nella provincia, Koncarevic continuò a rappresentare una presenza ingombrante sia per la Chiesa cattolica che per le autorità veneziane, data anche la sua dichiarata russofilia. Il suo operato fu comunque tollerato durante il mandato del proweditore generale Francesco Grimani (1753-1756), grande riformatore e convinto sostenitore della causa ortodossa: come Alvise Mocenigo prima di lui, anche il Grimani aveva compreso che l'integrazione degli ortodossi non poteva prescindere da un'organizzazione accettata dalla stessa comunità, per cui la nomina di un episcopo avrebbe significato una legittimazione confessionale e sociale. Nel 1754 il Grimani emise dunque un decreto che garantiva agli ortodossi il diritto di professare la propria fede senza l'intromissione del clero cattolico, riforma che fu, purtroppo, cancellata dal suo successore, Alvise Contarini (1757-1759), per parte sua vicino ai vescovi latini31.
Si apre così la terza ed ultima fase (1760-1797) di questa vicenda, che si potrebbe definire Tepoca del compromesso" e che alla lunga si dimostrò decisiva per far maturare la convivenza fra i due gruppi nella regione. In questi anni il governo veneto, ormai al crepuscolo e dunque poco incline a dialogare su terni confessionali, riconobbe agli ortodossi la libertà di professione: trovatosi a gestire una sommossa popolare di proporzioni tali da aver eco anche in Russia, nell'aprile del 1760 ilproweditore Francesco Diedo (1760-1762) corse infatti ai ripari rispolverando il decreto del Grimani del 1754 (Bogovic 1993: 163-164). Da qui alla fine del Settecento gli ortodossi non ottennero l'autonomia episcopale, ma nemmeno il clero cattolico ebbe mai un controllo completo sugli "scismatici".
Come abbiamo visto, gli sforzi void all'integrazione amministrativa e sociale fra le diverse confessioni non seppero portare, nel corso del Settecento, ad una soluzione condivisa dalle due parti. Di fatto, il sole della Serenissima tramontò su una regione divisa, una Dalmazia veneta cattolica e una Dalmazia veneta ortodossa, ben diverse dal luogo mitico talvolta descritto nei resoconti dei viaggiatori dell'epoca. Anche in questo caso i giudizi degli storici sono contrastanti: secondo Bogovic (1993: 164), alla luce degli eventi del Settecento la Chiesa ortodossa serba ci avrebbe grosso modo guadagnato, affermandosi in territori ad essa preclusi fino al xvii secolo; Ivetic (2009: 115) pensa piuttosto che, a conti fatti, non si possa parlare di vincitori e vinti.
Per quanto riguarda infine la politica della Dominante nei confronti della minoranza ortodossa nel Settecento, sono evidenti da un lato lo sforzo costante (e purtroppo vano) di riordinare il particolare, contenendo il più possibile le complicazioni dovute alla compre - senza di due confessioni nello stesso territorio, dall'altro la mancanza di una linea coerente della Serenissima verso i sudditi serbo-ortodossi: l'atteggiamento a tratti "distaccato" del governo veneziano verso la Chiesa ortodossa era di fatto tale anche nei confronti di quella cattolica, ed andrebbe dunque interpretato non tanto come intolleranza verso l'ortodossia (come del resto spesso accade), quanto piuttosto corne semplice espressione del tradizionale pragmatismo veneziano, preoccupato dalla necessità concreta di uniformare sul piano confessionale le realtà sociali dei nuovi acquisti32.
3. La polemica confessionale all'epoca di Gerasim Zelic
Siamo così arrivati all'epoca di Gerasim Zelic, il quale, come detto in apertura al presente studio, figura fra i leader spirituali che più si distinsero nella storia della Dalmazia settentrionale fra xvm e xix secolo. Malgrado l'indiscusso spessore del personaggio, tuttavia, manca ad oggi una monografia, o comunque uno studio sistematico, che ricostruisca la sua vicenda pubblica e sia in grado di fornire un resoconto attendibile della sua partecipazione agli eventi legati alla polemica confessionale: alle pagine dedicate a Zelic da Nikodim Milas nel suo Pravoslavna Dalmacija (1901), hanno infatti fatto seguito solo le ricerche di Ljubomir Vlacic (1928,1934,1935) e, più recentemente, di Persida Lazarevic Di Giacomo (2007). Molto spesso, dunque, la figura di Zelic viene tuttora tratteggiata a partire dalla sua autobiografia, intitolata semplicemente Zitije e pubblicata in prima edizione a Budapest nel 1823, testo che costituisce peral tro uno dei primi esempi del genere nella storia della letteratura serba33.
Anche in questo caso, le posizioni degli studiosi sono in parte contrastanti. Il giudizio di Milas rispetto all'operato di Zelic, ad esempio, è molto oscillante: l'archimandrita serbo viene infatti presentato ora come un ecclesiastico illuminato e profondamente impegnato a difendere l'identità confessionale delle comunità ortodosse sotto la sua giurisdizione, ora come un arrivista e un intrigante, ossessionato dal potere. Pur basandosi essenzialmente su documenti d'archivio, nel ricostruire il profilo di Zelic lo storico serbo non disdegna di citare anche lo Zitije, poichè, come egli stesso ammette, spesso non dispone di documenti sufficienti per chiarire questo o quell'evento34. Lo stesso paradigma vale, anche se in minor misura, per gli studi di Vlacic, la cui opinione nei confronti di Zelic è però indubbiamente negativa: di fatto, egli è forse il primo ad aver dimostrato la necessità di una parziale rivalutazione storica della figura di Benedikt Kraljevic, primo episcopo ortodosso di Dalmazia e, come già anticipato, grande oppositore di Zelic. Lo studio di Persida Lazarevic Di Giacomo (2007), infine, apre delle prospettive interessanti proprio in questa direzione, fornendo nuovi da ti relativi alla vita di Kraljevic.
Partiamo comunque anche in questo caso dai fatti. Gerasim Zelic nacque nel 1752 a Zegar, nell'entroterra di Zara, e prese i voti presso il monastero di Krupa, che con Krka e Dragovic costituiva uno dei principali punti di riferimento per gli ortodossi della regione. Fin dall'inizio della sua carriera ecclesiastica Zelic si dimostrò dotato, e allo stesso tempo assai ambizioso, tanto che Vlacic (1928: 215), forse esagerando, scrive di lui che "od detinjstva pa do smrti sanjao je samo o casti i vlasti, o episkopskoj mitri" ("dall'infanzia e fino alla morte sognò solo honore e il potere, la mitra vescovile")35.
Dopo aver ottenuto la carica di archimandrita del monastero di Krupa nel 1785, Zelic si recò a Venezia per essere confermato nella sua nomina presso l'Arcivescovo di Filadelfia, Sofronije Kutuvali, all'epoca la massima autorità ecclesiastica per i sudditi ortodossi della Dalmazia veneta. Approfittando dell'occasione, Zelic chiese di poter celebrare la liturgia indossando la mitra, privilegio che spettava tuttavia ai soli episcopi e che quindi gli fu negato. Il giovane archimandrita ne rimase contrariato, e, stando a Milas (2004: 428), "poceo je radi toga javno izrazavati svoje nezadovoljstvo, i mnoge je na svoju stranu zadobio, tako da su se poceli i nemiri pokazivati u crkvi"36.
Negli anni seguenti Zelic si allontanò, almeno temporaneamente, dalla Dalmazia, complici anche alcune incomprensioni che lo opposero alle autorità veneziane (Milas 2004: 431). Dopo aver trascorso dei lunghi periodi in Russia, tornò in patria nel 1792, in un momento in cui, all'indomani della morte del vescovo Vicario Nikanor Bogunovic, la chiesa ortodossa dalmata si trovava di fatto senza guida. Nel 1796, finalmente, il nuovo proweditore, Andrea Querini (1795-1797), acconsentì alla nomina di un nuovo Vicario generale: il clero ortodosso dalmata scelse allora a maggioranza proprio Zelic, che venne confermato nella sua carica dalle autorità veneziane nell'ottobre dello stesso anno. Contemporaneamente, l'archimandrita Simeon Ivkovic veniva eletto a furor di popolo episcopo in pectore di Dalmazia: negli anni seguenti tale situazione avrebbe portato ad un aspro conflitto d'interessi fra Zelic, il Vicario generale confermato dalle autorità, ed Ivkovic, l'episcopo scelto invece dal popolo e dal clero ortodosso locale (Milas 2004: 432, 448-451). Di tutti questi eventi Zelic ci racconta nell'autobiografia, anche se, come si può immaginare, non sempre in maniera oggettiva: l'episcopo Ivkovic, ad esempio, è descritto come "jedna hitra i lukava lisica" ("una volpe scaltra e furba"; Zelic 1823: 97)37.
Siamo così alla fine del xviii secolo, che, com'è noto, si chiuse con Campoformio e la concessione delle terre venete agli Asburgo da parte di Napoleone I. Il governatorato venne affidato al generale francese Auguste Marmont, mentre per la parte civile fu scelto il veneziano Vincenzo Dandolo (già proweditore generale), di stanza a Zara38. Secondo Milas (2004: 436), durante la prima dominazione austriaca (1797-1805) la posizione delpomoci la Chiesa ortodossa dalmata non subì alcun cambiamento, rimase tutto com'era all'epoca della dominazione veneziana. Il cambio della guardia nella regione non toccò più di tanto nemmeno Zelic, che in tempi brevissimi venne confermato dalle autorità austriache come Vicario generale e legittimo capo della Chiesa ortodossa in Dalmazia (luglio 1797). Dal resoconto, proposto sempre da Milas, dei primi nove anni del mandato di Zelic (1796-1805), si ha l'immagine di un soggetto molto intraprendente e deciso a riordinare l'assetto della Chiesa ortodossa di Dalmazia, ma allo stesso tempo talmente ossessionato dal timore di perdere la sua posizione da rivelarsi spesso troppo severo, a tratti addirittura spietato, nei confronti dei fedeli e dei suoi (molto spesso presunti) awersari, caratteristiche per cui si attirò ben presto lo sfavore sia del clero ortodosso, che del popolo semplice. Il giudizio di Milas non lascia dubbi:
Za vrijeme devetogodisnje uprave dalmatinskom crkvom Zelic je nastojao o ocuvanju u njoj pravoslavne vjere, a htio je da mu i crkvena uprava bude prema namjerama njegovim [...] Ali u upravi crkvenoj Zelic nije bio mudar [...] Postupanje pak njegovo [...] se ne moze nikako opravdati. A kad pogledamo na njegovo zitije, u kome sam pise, da je molio u februaru 1790. godine cara u Becu za njegove usluge "proizvedenie vo episkopa dalmatinskago", tada bi se moglo misliti, da je Zelic onakav polozaj zauzeo bio i protiv Zivkovica, i protiv Ivkovica, a i protivu Vidaka, samo zato sto su mu ova lica smetala, da postane on episkopom. A ovo je meðutijem ucinilo, da je mnogo neprijatelja u Dalmaciji imao, da mu je, osim njegove precerane strogosti, svestenstvo bilo vecinom protivno i radi njegovog neogranicenoga slavoljublja (Milas 2004: 456)39.
Lo storico serbo si concentra purtroppo quasi esclusivamente sulle dispute personali del Vicario generale, non avendo, come scrive, dati sufficienti per valutare l'operato di Zelic per quanto riguarda la questione confessionale, che comunque continuava a creare grandi difficoltà agli ortodossi: nel 1801, ad esempio, le autorità austriache riesumarono un decreto emanato dal proweditore Alvise Foscari nel 1779, con cui si concedeva ai sacerdoti cattolici il diritto di ufficiare anche i funerali degli ortodossi; negli stessi anni fu inoltre ribadita la validità delle norme relative alle questioni interconfessionali vigenti al 1796 (cf. Milas 2-004: 444).
Nel 1805 la Dalmazia passò sotto la dominazione francese, entrando dapprima a far parte (con Dubrovnik) del Regno d'Italia napoleonico, e successivamente, nel 1809, delle Province Illiriche, in cui i territori strappati dai francesi all'Austria si univano a quelli dell'ex Repubblica di Ragusa e della Dalmazia ed Istria venete, oltre che a parte della Slovenia.
Durante la guerra, Zelic parteggiò dapprima per Francesco i, disponendo che il clero ortodosso pregasse per l'imperatore e per la vittoria degli Asburgo, per poi dichiarare la sua fedeltà a Napoleone in un proclama apparso addirittura sul quotidiano "Regia Dalmazia" il 20 settembre del 1806. All'indomani del passaggio di consegne, l'archimandrita presentò al proweditore Dandolo la sua candidatura ad episcopo di Dalmazia, richiesta che reiterò al cospetto dello stesso Napoleone durante una visita a Parigi nel 180940. Entrambi i tentativi ebbero però esito vano: del resto, almeno stando a Vlacic (1928: 216), a non volerlo come guida erano il clero e i fedeli ortodossi della Dalmazia, i quali scelsero invece di appoggiare la candidatura di Benedikt Kraljevic. Vescovo bosniaco di origine greca, questi era giunto da poco in Dalmazia, eppure godeva già di un certo favore presso le comunità ortodosse locali, che nel candidarlo lo descrivevano come "najbolji, najmoralniji i najpobozniji covjek, za ciju podanicku vjernost i mudro ponasanje oni jamce"41.
Nel 1809 Napoleone creò l'eparchia dalmata, con sede a Sebenico, e nel marzo del 1810 ne affidò la guida proprio al Kraljevic, relegando Zelic a Vicario per le Bocche di Cattaro e ponendolo così, sostanzialmente, in posizione subordinata42. Verosimilmente, ad influenzare la scelta del Bonaparte fu non solo il parere positivo espresso nei confronti di Kraljevic dal proweditore Dandolo, il quale si era fatto portavoce delle richieste dei serbi (Milas 2004: 475), ma anche e soprattutto l'impegno e la fedeltà alla causa francese dimostrati dall'episcopo ortodosso durante le sommosse filo-austriache che nel 1809 avevano scosso la regione, eventi su cui peraltro negli anni seguenti Zelic avrebbe fatto leva per cercare di screditare il rivale presso la corte austriaca (Vlacic 1928).
La valutazione di Milas dei primi anni di mandato di Kraljevic è molto positiva: " radio je marljivo i usrdno nastojao, da disciplina zavlada u svestenstvu [...] pa je gledao da cim urednije mu bude sve u eparhiji i da stece ljubav svestenstva i naroda"43. Il nuovo episcopo ottenne dei buoni risultati anche nell'ambito della questione confessionale: il 10 novembre del 1810 le autorità disposero che venissero tolti dalle chiese ortodosse tutti gli elementi di origine cattolica, concedendo peraltro a Kraljevic piena autonomia amministrativa, al pari dei vescovi cattolici (Milas 2004: 476-477).
Ciononostante, la rottura fra Kraljevic e Zelic non si fece attendere. Il casus belli è legato alla consacrazione di un nuovo tempio ortodosso a Cattaro, cerimonia celebrata da Zelic nel dicembre 1810 senza prima aver avuto il consenso del suo superiore, il quale prontamente lo riprese. Da questo momento i toni cordiali che avevano caratterizzato la corrispondenza fra i due mutarono sensibilmente, divenendo particolarmente aspri soprattutto da parte di Zelic, il quale nel 1811 rinunciò definitivamente alla sua carica e si ritirò presso il monastero di Krupa (Milas 2004: 478).
Qualche anno più tardi l'Impero asburgico riprese il controllo sulla Dalmazia, che divenne definitivamente un regno autonomo, con capitale Zara. Si chiudeva così la dominazione francese sulla regione, un periodo che Milas descrive con parole a dir poco entusiastiche, soprattutto per quanto riguarda l'impegno dimostrato dalle autorità nel gestire la questione confessionale:
Francuska vlada je htjela da se interkonfeksijonalni odnosi u Dalmaciji po pravici urede, da dotadasnja vjerska trzavica prestane i da se mir utvrdi meðu stanovnicima razlicitih vjeroispovjesti. I taj je mir u Dalmaciji vladao za sve vrijeme, dok su Francuzi ovom zemljom zapovijedali, jer su francuski temeljni zakoni osnovani bili na nacelima slobode i ravnopravnosti, i jer je francuska vlada nepomicno u smislu tih nacela i postupala (Milas 2004: 480)44.
All'alba della seconda dominazione, alle autorità di Vienna si ripresentò il problema degli ortodossi: la corte austriaca aveva in programma di ricondurli in seno all'autorità della Chiesa cattolica fin dal 1804, un progetto che aveva anche una chiara motivazione politica, in quanto avrebbe permesso di arginare l'influenza dei russi nei Balcani . L'arrivo dei cesi, aveva bloccato i piani di Vienna. Nel 1815 fu quindi lo stesso Francesco I a prendere il comando dell'iniziativa, dando il via alla "prima ondata di diffusione sistematica dell'uniatizzazione degli ortodossi in Dalmazia", che la Lazarevic Di Giacomo (2007: 183) descrive come Tevento sociale e culturale più significativo per i serbi di Dalmazia nella prima metà del xix secolo", di cui Kraljevic e Zelic furono due fra i principali attori.
Le ambizioni dei due "scomodi litiganti" si scontrarono allora con quelle del metropolita serbo Stefan Stratimirovic, il quale intendeva "mettere a riposo" sia Kraljevic, di cui (probabilmente) non si fidava, sia il vecchio Zelic, che anche le autorità austriache consideravano "ein feiner intriganter Geistlicher" (Vlacic 1935: 65). Ed in effetti, anche in questo caso Zelic si era mosso in anticipo. Già nel settembre del 1814, ottenuta un'udienza con l'imperatore Francesco i, aveva sottoposto alle autorità austriache un memoriale, in cui accusava Kraljevic non solo di parteggiare per i francesi, ma anche di essersi macchiato 44 di soprusi (in particolare di simonia) durante il suo mandato. Kraljevic, costretto a difendere la sua posizione, si dichiarò allora segretamente pronto a sposare la politica religiosa degli austriaci nei territori sotto la sua giurisdizione, presentando a Francesco i una sua proposta per la fondazione di un seminario con sede a Sebenico, che sarebbe stato retto da maestri greco-cattolici. Alla fine del 1819 partirono dunque dalla Galizia quattro "ucitelji" uniati, i quali però, una volta giunti in Dalmazia, dovettero fare i conti con il malcontento della comunità ortodossa locale, consapevole del tradimento di Kraljevic e decisa a non perdonarlo. A causa delle scelte da lui compiute nel passaggio dalla dominazione francese a quella austriaca, e soprattutto della facilità con cui aveva sposato la politica religiosa di Vienna, Kraljevic divenne allora "l'uomo più odiato presso i serbi del litorale", talmente inviso alla comunità ortodossa da esser oggetto di un attentato, cui per sua fortuna riuscì a sfuggire45.
Le cose non andarono meglio nemmeno a Zelic, ritornato nel frattempo in auge presso gli ortodossi dalmati che in lui intrawedevano una possibile guida, e proprio per questo costantemente spiato dalle autorità austriache: a causa di alcune sue lettere dal contenuto giudicato sowersivo, in cui incitava i suoi connazionali a sollevarsi contro Kraljevic, nel 1820 Zelic fu accusato di calunnia e costretto a spostarsi a Vienna, in modo da essere abbastanza lontano dal teatro d'azione (cf. Vlacic 1935). Zelic lasciò così il monastero di Krupa, dove peraltro non sarebbe più tomato: in seguito venne infatti esiliato a Buda, dove rimase fino alla morte (1828), non senza aver tentato in tutti i modi di riscattare la sua posizione e di ritornare alla natia Dalmazia.
Come ho accennato, recentemente Persida Lazarevic Di Giacomo (2007) ha proposto un interessante studio, in cui dimostra come la caratterizzazione negativa che spesso accompagna la figura di Kraljevic dipenda, fra l'altro, da tre opere letterarie del xix secolo, owero l'Avtobiografija di Kiril Cvjetkovic, lo Spomenik Miloradov di Spiridon Aleksijevic e, appunto, lo Zitije di Zelic: tre scritti dalla forte componente autobiografica, i cui autori furono coinvolti, seppur a diverso titolo, nelle vicende trattate. Secondo la Lazarevic, in esse Kraljevic viene descritto " attraverso il prisma delle vicende individuali e del destino" e ridotto alla stregua di un "demonio" che riassume in sé tutti i caratteri negativi tipici tanto della simbologia cristiana, quanto della tradizione orale slavo-balcanica.
Mentre è comprensibile che il confronto fra la realtà storica e quella proposta nelle autobiografie riveli delle discrepanze, non è invece accettabile che la storiografia, nel servirsi della letteratura come fonte, si dimentichi talvolta di togliere (o perlomeno di verificare) gli epiteti che i vari Zelic, Cvjetkovic o Aleksijevic possono aver attribuito a personaggi realmente esistiti in risposta alle proprie necessità stilistiche, contenutistiche, o ideologiche. Così, ad esempio, se è del tutto plausibile che, non essendo un dalmata , Kraljevic possa essere stato accolto con la diffidenza riservata solitamente ad un "forestiero" al momento del suo arrivo fra i serbi di Dalmazia46, etichette quali "lupo travestito da agnello" ("volk pod ovcijom kozom"), "miscredente" e (da qui il passo è breve) "demonio", come lo chiama Zelic, si sono rivelate purtroppo più difficili da eliminare, come dimostrano alcuni esempi tratti dalla storiografia serba novecentesca, per la quale Kraljevic rimane "un personaggio oscuro" ("jedna opskurna osoba"; Milutinovic 1973: 17-31) o "il problematico Levantino" (Radonic 1950: 619)47. Quanto a Zelic, tanto i documenti d'archivio quanto le fonti letterarie sembrano confermare che proprio la mancata nomina ad episcopo influenzò sensibilmente tutto il suo operato successivo, in particolare la parte finale della sua vita.
Come si è detto, i pochi contributi dedicati finora dalla storiografia alla vicenda dell'archimandrita serbo risalgono alla prima metà del secolo scorso ed hanno in generale carattere ridotto o frammentario; inoltre, essi rimangono ancora (troppo) dipendenti dalla sua autobiografia. Tali considerazioni, insieme al recente ritrovamento di un corpus di documenti d'archivio legati proprio alla figura di Zelic, mi spingono in questa sede a riaprire la questione.
I documenti sono attualmente conservati presso l'archivio dell'Accademia delle Scienze e delle Arti serba, sede di Sremski Karlovci (asanuk), fondo mpa 328/1835. La collezione si compone di oltre 150 documenti, per un totale di 580 carte manoscritte numerate progressivamente e complessivamente in buono stato di conservazione, redatte con grafia perlopiù chiara e leggibile da più mani, fra cui appunto lo stesso Zelic. La maggior parte dei documenti è in lingua serba (107) ed italiana (41); i rimanenti sono in tedesco (3), greco (2) e latino (2). La maggior parte del corpus è costituita dalla corrispondenza personale dell'archimandrita serbo; il fondo comprende altresì numerosi diplomi emanati a beneficio di Zelic dalle autorità veneziane, austriache e francesi.
I documenti coprono un arco di tempo che va dal gennaio 1794 al settembre 1830. Il più antico (n. 83, cc. 295-296) è infatti datato Zara, 6 gennaio 1794 m.v. (more veneto): si tratta della conferma, da parte del provveditore generale Alvise Marin (1792-1795), della nomina di Zelic "al Vacante posto di Superiore Guardiano del monastero di Cruppa", avvenuta nel novembre dell'anno precedente. Sul verso del documento Zelic ha appuntato "1794. (ProQuest: ... denotes non-US-ASCII text omitted.) Il documento successivo (n. 84, cc. 297-298) riporta la traduzione (non del tutto fedele) in lingua serba della comunicazione del provveditore, ad opera di tale Niccolò Sandri. Il documento più recente (n. 9, cc. 33-34) è invece datato Novi Sad, 11 settembre 1830, ed è firmato da tre giovani teologi, Nikolaj Plavsa, Alexij Zelic e Grigorij Radulovic: si tratta di una dichiarazione con cui i tre attestano di aver impiegato il denaro proveniente dalla fondazione di Zelic esclusivamente per pagarsi gli studi, secondo le volontà testamentarie dell'archimandrita serbo, che si era spento due anni prima a Buda48.
Fra i destinatari delle lettere di Zelic figurano, fra gli altri, l'imperatore Francesco I (al quale l'archimandrita serbo inviò numerose suppliche di cui l'asanuk conserva copia), l'episcopo Benedikt Kraljevic, il metropolita Stefan Stratimirovic, l'episcopo Petar J. Vidak, il provveditore generale Vincenzo Dandolo, il parroco zaratino Spiridon Aleksijevic (autore dello Spomenik Miloradov) e l'igumeno del monastero di Krupa Dimitrije Perazic. I documenti più significativi, almeno per il presente studio, sono naturalmente quelli legati alla "disputa" fra Zelic e l'episcopo Kraljevic: si tratta di circolari emanate dalla autorità austriache, ma soprattutto di lettere vergate dai due ecclesiastici e da altri soggetti coinvolti nella vicenda, come ad esempio Spiridon Aleksijevic. Altro scambio epistolare degno di attenzione è quello che coinvolge Zelic e il metropolita Stratimirovic: oltre a contare il maggior numero di missive, tale corrispondenza è particolarmente interessante poiché tratta principalmente delle condizioni della chiesa ortodossa serba nell'area dalmata e della creazione da parte di Zelic di un fondo finanziario presso la metropolia di Karlovci, un'iniziativa che avrebbe permesso a giovani serbi provenienti dalle comunità dalmate di studiare presso i rinomati istituti della cittadina del Sirmio (scuole medie inferiori, ginnasio ed accademia di teologia). Ormai anziano e lontano dalla sua terra, Zelic decise dunque di investire una parte delle proprie ricchezze nella formazione di giovani teologi, in modo da assicurare delle solide basi al futuro della Chiesa ortodossa di Dalmazia.
Va infine segnalato come i documenti rinvenuti a Karlovci siano per buona parte inediti, fatta eccezione per quelli inclusi nelle diverse edizioni dello Zitije ed in parte citati dall'episcopo Milas nel suo Pravoslavna Dalmacija. Nel caso dei manoscritti redatti in italiano o tedesco, tuttavia, è stata generalmente pubblicata solo una traduzione in lingua serba, con imprecisioni talvolta non trascurabili nel passaggio da un idioma all'altro.
Ulteriori ricerche, svolte presso gli archivi di Venezia e Zara con l'auspicio di incrementare il corpus già presente, permetteranno di fare maggior chiarezza non solo sugli eventi inerenti alla vicenda personale di Zelic, ma, più in generale, anche sulla storia confessionale degli ortodossi di Dalmazia.
1 Su Vicko Zmajevic e Mate Karaman si vedano Bogovic 1993: 112-145; Morabito 2001: 283-290; Ivetic 2009a. Per una monografia su Karaman cf. Japundzic 1961, nonché gli studi di B. Lomagistro (1996, 1998, 1999). L'attività dei due arcivescovi è inoltre ampiamente documentata dagli scritti inviati da entrambi a Propaganda Fide, per cui si rimanda a Gentilizza 1913: 491-508, alle raccolte di M. Jacov e agli studi di B. Lomagistro (cf. Bibliografia).
2 Nella prefazione, Milas (2004: 1) scrive: "Valjda nema na svijetu zemlje, u kojoj je intolerancija naspram pravoslavne vjere tako velika, kao u Dalmaciji" ("Probabilmente non vi è paese al mondo in cui l'intolleranza nei confronti della fede ortodossa sia così forte come in Dalmazia").
3 Scrive Milas (2004: 329): "Ovaj arcibiskup (Zmajevic), a za njim nasljednik mu Matej Karaman [...] upotrebise sve ono, sto samo najveca intolerancija i najneobuzdaniji vjerski fanatizam izmisliti mogu, da bi primorali na prevjeru pravoslavne Dalmatince i iskorjenili iz Dalmacije pravoslavnu vjeru" ("Questo arcivescovo [Zmajevic], e dopo di lui il suo successore Matej Karaman [...] si avvalsero di tutto ciò che solo la più grande intolleranza e il fanatismo religioso più sfrenato possono ideare per costringere gli ortodossi di Dalmazia all'apostasia e per sradicare la fede ortodossa dalla Dalmazia").
4 Un lavoro di questo tipo è stato effettuato, a partire dal 1996, nell'ambito del progetto internazionale di ricerca "Triplex Confinium", cui collaborano studiosi di storia dell'Europa Orientale afferenti alle Università di Zagabria, Graz e della Central European University di Budapest, sotto la coordinazione dei proff. Drago Roksandic e Karl Kaser.
5 Per Ivetic (2009: 49), ad esempio, la Dalmazia era "la vera spina dorsale della Repubblica, tanto più importante poiché rappresentava la via marittima verso il Levante". Buona parte della storiografia croata, invece, denuncia la natura coloniale del dominio veneziano in Istria e Dalmazia, una condizione che avrebbe peraltro penalizzato lo sviluppo di una civiltà slava mediterranea (leggi croata) che per parte sua aveva già dato prova di una forte vitalità attraverso opere artistiche e letterarie (cf. Novak 1944, 1961). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato come molte città della costa dalmata (Spalato, Traù, Zara e Sebenico) abbiano avuto uno sviluppo notevole proprio sotto la sovranità veneziana, un processo poi frenato dall'arrivo degli ottomani (Ivetic 2009b: 241)
6 Si trattava di una "grande Dalmazia", con una popolazione di circa 166.000 abitanti (Vrandecic 2009: 305), che comprendeva i territori dellAcquisto vecchio, annessi in seguito alla guerra di Candia e definiti dalla Linea Nani, e quelli dellAcquisto nuovo e nuovissimo, definiti invece dalla Linea Grimani e dalla Linea Mocenigo (cf. Samardzic 2000, iv/2: 56-57 [cartina]; Ivetic 2009b: 252). Sulle guerre veneto-turche cf. Samardzic 2000, iii/1: 336- 426 (Kandijiski rat 1645-1669); Gullino 2010: 239-260. Per maggiori approfondimenti sul Settecento veneziano cf. Del Negro-Preto 1998.
7 La situazione sociale nelle zone dellAcquisto Nuovo è ben descritta da Filippo Maria Paladini nel volume " Un caos che spaventa". Poteri, territori e religioni di frontiera nella Dalmazia della tarda età veneta (2002): il titolo, piuttosto eloquente, riprende le parole di Angelo Diedo, provveditore generale di Dalmazia e Albania dal 1789, che proprio così descrisse, al suo arrivo, le terre che si trovava ad amministrare. Cf. anche Samardzic 2000, iii/1: 452-490 (Srbi u Hrvatskoj od 1606. do ióSif iv/2: 7-68 (Srbi u Dalmaciji).
8 Nelle relazioni dei proweditori veneti si percepisce una netta distinzione sociale e culturale fra gli " schiavoni", owero gli slavi della Dalmazia costiera, e i "morlacchi", owero gli abitanti dell'entroterra, le cui comunità erano comunque estremamente fluide (Novak 1971: 579-603). I morlacchi facevano spesso da "mediatori commerciali" fra le città della costa e la Dalmazia ottomana, e anche per questo venivano "tollerati" quando si recavano in città a vendere i propri prodotti (Ivetic 2007: 275, 277). Sui morlacchi nel dominio veneto cf. anche Samardzic 2000, iv/2: Saric 2007.
9 Cf. Bogovic 1993: 20; Trogrlic 2009: 345.
10 Cf. Bogovic 1993: 21; Paladini 2002: 206-207, nota 97; Ivetic 2009a: 99.
11 In Albania veneta gli attriti fra cattolici ed ortodossi erano smorzati anche in virtù della conformazione naturale del territorio, che permetteva alle varie comunità di comunicare, rimanendo al contempo isolate (Ivetic 2009a: 101).
12 Le sedi più importanti erano l'arcivescovato di Zara (che copriva i vescovati delle isole settentrionali) e le sedi metropolitane di Spalato e di Ragusa, considerate invece il limes del cattolicesimo, cui si aggiungevano le piccole diocesi insulari della fascia litoranea (Ivetic 2009a: 71-72).
13 Il "compromesso" fra i nuovi arrivati e le autorità veneziane è così descritto da Dubravka Mlinaric (2007: 303): "Deserted areas were still during the war and immediately after it populated by the semi nomadic shepherd Morlacs. Morlacs obtained subordinate military defensive duties and represented a new economic power of land users and tax payers".
14 Nel 1675, ormai di ritorno a Venezia dopo aver concluso il suo mandato da proweditore generale, Pietro Civran scriveva, nella sua relazione presentata al Senato della Dominante, che il clero cattolico " se premalo brine da ponudi potrebni lijek za spasenje dusa" (" si preoccupava troppo poco di offrire il rimedio necessario alla salvezza delle anime"; Bogovic 1993: 149).
15 Cf. Jacov 1992. A proposito dell'accoglienza riservata ai serbi ortodossi da parte del clero cattolico dalmata, Jovan Radonic (1950: 196-197) esprime un parere piuttosto netto: "Bas to neprijateljsko raspolozenje rimokatolickog klira, koje je iskopalo tako dubok jaz izmeðu pravoslavnog i katolickog dela naseg naroda, govorilo je jasno da ce pravoslavlje u Dalmaciji imati teske dane i da ce Rimska crkva nastojati svom snagom da prevede Srbe na uniju" ("Proprio questo atteggiamento ostile da parte del clero cattolico creò una profonda frattura fra la parte ortodossa e quella cattolica del nostro popolo, e lasciò intendere chiaramente che l'ortodossia avrebbe conosciuto tempi difficili in Dalmazia e che la Chiesa romana avrebbe cercato di condurre con la forza i Serbi all'unione").
16 Proprio la diversa interpretazione del concetto di "rito" da parte delle autorità venete e del clero cattolico dalmata costituì, secondo Bogovic (1993: 152), un aspetto fondamentale nell'evoluzione dell'intera vicenda: "Pojam obreda u spisima drzavne vlasti nije uvijekidentican ono u spisima crkvenih ustanova. I zbog toga je bilo dosta nesporazuma izmeðu crkvenih i drzavnih vlasti" ("Il concetto di rito così come appare nei documenti delle autorità statali non è sempre identico a quello usato nei documenti delle istituzioni religiose. Anche per questo vi furono parecchi malintesi fra le autorità statali e quelle ecclesiastiche").
17 "In realtà per il popolo, molto poco versato per le questioni religiose, aveva molta più importanza l'elemento visibile, esteriore, owero il rituale (le cerimonie), la tradizione e le usanze, piuttosto che le differenze dogmatiche". Ad ogni buon conto, Ivetic (2009: 77) segnala come la prassi delle conversioni andrebbe ulteriormente studiata, anche sulla base di documenti già pubblicati (cf. Jacov 1992, 1998). Spesso, infatti, fu la mancanza di punti di riferimento stabili nell'ambito della Chiesa ortodossa locale a favorire queste " soluzioni di compromesso", specie dopo la Velika Seoba, quando le genti serbe si ritrovarono di fatto disseminate fra domini ottomani, asburgici e veneti, e dunque più vulnerabili.
18 Di fatto, le comunità dalmate costituirono a lungo un unico sistema con le popolazioni ortodosse della Bosnia e del Confine militare asburgico, nonostante i confini di Stato li dividessero (cf. Samardzic 2000, iv/1: 531-552 [Srpska crkva u Turskom carstvu 1690-1766]).
19 Nel 1679, ad esempio, il proweditore Pietro Valier attribuì ai sacerdoti cattolici il compito di istruire i colleghi ortodossi sugli usi dei cattolici e sul rispetto delle festività secondo il calendario gregoriano; del 1686 è invece una normativa con cui il clero ortodosso veniva subordinato a quello cattolico sia nella pratica liturgica, sia nel rispetto delle visite pastorali (Bogovic 1993: 149; Milas 2004: 316).
20 Secondo Marko Trogrlic (2009: 346), i serbi di Dalmazia miravano ad ottenere all'interno del sistema veneziano uno status simile a quello della Chiesa serbo-ortodossa nell'ambito della monarchia Asburgica.
21 Tipaldi, prelato greco, aveva accettato l'autorità papale nel 1690, una scelta che negli anni a venire avrebbe portato ad ulteriori complicazioni nel suo rapporto con gli ortodossi (Milas 2004: 306-307). 22
22 Diversamente, nella Croazia asburgica esisteva, fin dal 1609, il vescovato uniate di Marca, nato per iniziativa del vescovo ortodosso locale, Simeon Vratanja, il quale aveva riconosciuto l'autorità papale ed era così divenuto di fatto il primo vescovo greco-cattolico croato (cf. Morabito 2001: 133, nota 148). La maggior parte dei cattolici di rito greco dell'Impero asburgico viveva lungo il Confine militare, la cui situazione confessionale è ben riassunta in Roksandic 1997: 67-73; Id. 2004: 219-266. 23
23 Nello stesso anno fu peraltro esautorato anche il Tipaldi; la carica di arcivescovo di Filadelfia rimase così vacante, per volere della Serenissima, fino al 1782 (Bogovic 1993: 60; Milas 2004: 325). 24
24 Cf. Bogovic 1993: 61-66; Jacov 1984: 22-41; Milas 2004: 333-355. 25
25 In una sua comunicazione al Senato veneziano, Mocenigo scrive che i vescovi cattolici sono tanto più attratti dalle diocesi "dov'è migliore la mensa e sono più copiose le rendite" (Radonic 1950: 597). 597).
26 Zmajevic mirava al riconoscimento definitivo della supremazia della Chiesa cattolica nei territori dello Stato marciano: poiché la Dalmazia veneta rientrava sotto la giurisdizione delle due sedi cattoliche metropolitane di Zara e Spalato, riteneva che non vi fosse posto per una diocesi serbo-ortodossa, per cui gli " scismatici" avrebbero dovuto dimostrare obbedienza ai soli vescovi cattolici (Bogovic 1993: 114-129).
27 A supporto delle sue tesi, Zmajevic aveva composto lo Specchio della verità, un trattatello che aveva fatto circolare fra i patrizi di Venezia, in cui descriveva i serbi ortodossi come " serpi annidate in seno alla Repubblica", che remavano contro la Venezia cattolica e dunque andavano estirpate (Radonic 1950: 599-604; Paladiniiooi: 178). Le tesi di Zmajevic non furono comunque accolte con unanime consenso: vennero anzi rigettate in quanto formalmente inconsistenti da Nicola Papadopoli, teologo d'origine greca e professore di diritto canonico presso 1' Universitá di Padova (Radonic 1950: 600-602; Milas 2004: 350-354).
28 Durante tutto il Settecento il clero cattolico dalmata fu comunque concorde nel perseguire il rafforzamento dell'episcopalismo, una tendenza da considerarsi non solo come diretta conseguenza della convivenza con gli ortodossi, ma anche come una risposta alla necessità di rilanciare il cattolicesimo in una provincia ingrandita dalle guerre e di frontiera rispetto all'islam. Avendo compreso che l'efficacia della pratica episcopale dipendeva strettamente dalla possibilità di disporre di un clero preparato, in grado di rilanciare la Chiesa cattolica sul territorio, i vescovi cattolici dalmati cercarono di migliorare il sistema di formazione del clero regolare: com'è noto, nei piani di Zmajevic vi era la fondazione di un seminario glagolitico a Zara, che venne aperto da Karaman nel 1748. Come ben evidenziato da Morabito (2001: 285-287), i punti fondamentali di questo progetto di riforma in chiave "proselitistico-unionista" erano l'impiego dello slavo ecclesiastico come lingua liturgica e il ricorso sistematico al libro come strumento di propaganda confessionale. La diffusione fra i serbi di Dalmazia del Messale romano (1741), composto da Karaman in slavo ecclesiastico di re- dazione russa, avrebbe infatti dovuto rendere possibile il soprawento del rito latino sull'ortodossia attraverso la pratica liturgica, cosicché le genti di rito greco avrebbero dapprima riconosciuto l'autorità di Roma, e in seguito si sarebbero conformate al rito latino. Cf. Japunzic 1961; Bogovic 1993: 129-144; Lomagistro 1996,1998,1999; Morabito 1001:177-190.
29 Anche in questo caso è significativo l'esempio di Karaman: il suo progetto di imporre lo slavo ecclesiastico come lingua liturgica agli ortodossi di Dalmazia, dapprima supportato da Propaganda Fide, fallì infatti a causa dell'opposizione dei francescani e del clero preposto alle sedi vescovili nominali in territorio ottomano, per parte loro testimoni dell'incapacità degli ecclesiastici locali di servirsi dello slavo ecclesiastico nella liturgia, e dunque convinti della sua inutilità nella conversione degli " scismatici" (Morabito 1001:185-189).
30 Cf. Milas 2004: 380-385; Jacov 1984: 75; Bogovic 1993: 73-78.
31 Koncarevic si trasferì allora in Russia, seguito da alcune comunità serbe, che lasciarono la Dalmazia per sfuggire alla politica ostile del Contarini (Jacov 1984: 80-83). Quanto al Grimani e alla sua riforma del 1754, interessante è il commento di Ivan Pederin (1990: 72), che ipotizza una possibile "ingerenza" dei russi nella questione: "Francesco Grimani emancipira pravoslavne u Dalmaciji 1754 [...] Je li to prosvetiteljska tolerancija ili posljedica ruske zastite pravoslavnih kojima Venecija inace nije bila sklona? Verovatno ono prvo jer je Grimani pozvao katolicke biskupe u Dalmaciji na toleranciju prema pravoslavnima" ("Nel 1754 Francesco Grimani emancipa gli ortodossi di Dalmazia [...] Si trattò di tolleranza illuminata o fu il risultato della protezione russa sugli ortodossi, verso i quali Venezia non era invece ben disposta? Probabilmente il primo caso, poiché Grimani richiamò i vescovi cattolici di Dalmazia alla tolleranza verso gli ortodossi").
32 Cf. Ivetic 2009a: 97. Sull'atteggiamento veneziano nei confronti delle chiese cattolica e ortodossa nell'area dalmata si vedano anche Berengo 1954; Gullino 1993, 2007; Paladini 2002: 164-199; Fedalto 2006.
33 Materiale dell'autobiografia sono le memorie dell'ecclesiastico serbo e il resoconto dei lunghi viaggi che lo portarono ad attraversare tutta Europa, spaziando da Mosca a Parigi, da Venezia a Vienna e a Budapest, e ad incontrare alcune fra le personalità chiave dell'epoca, quali Caterina la Grande, Giuseppe 11 e Napoleone Bonaparte. Punto di forza dell'opera è sicuramente la ricchezza del materiale documentario ivi proposto, il cui apporto risulta prezioso per comprendere a pieno la complessa vicenda umana del personaggio. Dal punto di vista strutturale, quindi, lo Zitije si presenta come una sintesi fra autobiografia e storiografia, forme già praticate nella letteratura serba antica, che vennero riprese e rielaborate nel corso del Settecento (Grdinic 2003; Leto 2011). Sull'opera letteraria di Zelic cf. i lavori di Mila Stojinic (1989), Radomir Ivanovic (1999) e Zeljko Ðuric (2011).
34 Cf. Milas 2004: 433: "Je li sve ovako, kako Zelic pise, mi nijesmo u stanju procijeniti, jer nam oskudjevaju za to odnosni dodatci" ("Non siamo in condizione di giudicare se sia tutto così come scrive Zelic, poiché per questo ci mancano ulteriori dati pertinenti").
35 E aggiunge: "No on sam ipakuvida, da svojim sposobnostima i zaslugama ne bi nikad mogao doci do casti i vlasti uopce, a pogotovo postici episkopsko dostojanstvo, vec da mu tu mogu vise hitrost (lukavost), zucnost i naletljivost, kojima je od prirode bogato obdaren bio" ("Egli stesso comprese tuttavia che non avrebbe mai potuto raggiungere honore e il potere, e men che meno ottenere la dignità vescovile, per le sue capacità ed i suoi meriti, ma che per questo potevano essergli maggiormente d'aiuto la scaltrezza (astuzia), l'acrimonia e l'aggressività di cui la natura gli aveva fatto abbondantemente dono"; Vlacic 1928: 215).
36 "Prese per questo ad esprimere pubblicamente il suo malcontento e riuscì a portare molti dalla sua parte, così che iniziarono a manifestarsi anche degli attriti all'interno della chiesa".
37 Non a caso, nel tracciare un breve profilo biografico dell'archimandrita serbo, Bosko Kovacek scrive: "U autobiografiji nije uvek potpuno otvoren i tacan; najcesce precutkuje one okolnosti svoga zivota koje bi ga mogle uciniti politicki sumnjivim kod vlasti" ("Nell'autobiografia non è sempre del tutto sincero e preciso; molto spesso tace in merito ad alcune circostanze della sua vita che avrebbero potuto renderlo politicamente sospetto presso le autorità").
38 Per un quadro generale cf. Samardzic 2000, v/1: 279-292 (Srbi u Dalmaciji 1797-1849).
39 "Durante i nove anni in cui amministrò la chiesa dalmata Zelic si sforzò di difendere la fede ortodossa e volle che anche l'amministrazione ecclesiastica fosse conforme alle sue disposizioni [...] Tuttavia, nell'amministrare la chiesa Zelic non fu saggio [...] Il suo comportamento [...] non si può in alcun modo giustificare. Ma se stiamo alla sua biografia, nella quale egli stesso scrive che nel febbraio del 1790 chiese all'Imperatore a Vienna "la promozione ad episcopo di Dalmazia" in virtù dei suoi servizi, allora si potrebbe pensare che Zelic avesse preso una tale posizione contro Zivkovic, contro Ivkovic e anche contro Vidak, solo perché questi gli avevano impedito di diventare episcopo. Ciò comportò peraltro che egli avesse molti nemici in Dalmazia, e che il clero gli fosse perlopiù awerso non solo a causa della sua esagerata severità, ma anche della sua sconfinata ambizione".
40 Anche il rapporto fra Dandolo e Zelic rimane un punto non ancora chiarito dalla storiografia. Sull'operato di Dandolo in favore degli ortodossi di Dalmazia cf. Milas 2004: 460-469.
41 "L'uomo migliore, il più integro e il più devoto, di cui garantivano la lealtà di suddito e il comportamento saggio" (Milas 2004: 472).
42 Per quanto riguarda la figura di Kraljevic, ed in particolare la sua vita prima della nomina ad episcopo, Milas (2004: 469) si basa, per sua stessa ammissione, solo sullo Zitije di Zelic, non disponendo di altre fonti. Più attendibili sono in tal senso gli studi di Ljubomir Vlacic e Persida Lazarevic Di Giacomo, cui rimando per maggiori approfondimenti.
43 "Lavorò diligentemente e si adoperò fervidamente affinchè la disciplina cominciasse a governare fra il clero [...] si preoccupò che nell'eparchia tutto fosse il più ordinato possibile e di guadagnarsi l'amore del clero e del popolo".
44 Il governo francese volle che i rapporti interconfessionali in Dalmazia fossero regolati secondo giustizia, che si ponesse fine al dissenso confessionale fino allora esistito e che si consolidasse la pace fra cittadini di diverse confessioni. E tale pace regnò in Dalmazia per tutto il tempo in cui i Francesi dominarono la regione, perché le leggi fondamentali francesi erano state fondate su principi di libertà ed uguaglianza, e il governo francese agì immancabilmente in conformità di questi principi". principi".
45 Il 10 giugno del 1821 fu infatti assaltata la sua carrozza, anche se ad avere la peggio fu il canonico Stupnicki, uno dei quattro maestri uniati. Kraljevic, invece, fuggì dapprima a Zara, e in seguito si trasferì a Venezia, dove visse ancora per quasi 40 anni. Venne ufficialmente messo a riposo solo nel 1828 (Lazarevic Di Giacomo 2007: 184, nota 6).
46 Come scrive Persida Lazarevic Di Giacomo (2007: 186), "Tuðinac je ovde vezan za pojam opasnog, gresnog, onostranog i necistog" ("Il forestiero è qui legato all'idea di pericoloso, peccaminoso, lontano e impuro"). Sul topos dell'"altro" come "diverso" cf. Maticki 2006; Ivetic-Roksandic 2007.
47 Milas e Vlacic si dimostrano in questo senso più moderati: il primo sembra comprendere la difficoltà oggettive incontrate dal Kraljevic dopo il ritorno degli austriaci, anche se non per questo giustifica le sue scelte (Milas 2004: 481-532); Vlacic, invece, sostiene (appoggiandosi ai documenti d'archivio) che Kraljevic "non si convertì mai all'unione, né mai cercò di convertire nessuno" ("nije nikad presao u Uniju, niti je pokusavao, da koga u nju obrati"; Vlacic 1934: 57).
48 Sulla base di altri documenti appartenenti al corpus (nn. 51, 123, 141) sappiamo che Alexij Zelic era nipote dell'archimandrita serbo, e che proprio grazie alla fondazione istituita dallo zio aveva potuto compiere i suoi studi di teologia come borsista presso gli istituti di Karlovci, sotto la protezione del metropolita Stratimirovic. In altri documenti (nn. 15, 45, 60, 118) viene nominato anche Nikodim Zelic, a sua volta nipote dell'archimandrita serbo ed igumeno del monastero di Krupa.
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Monica Fin si è laureata nel 2008 in Lingue e Letterature Euroamericane presso l'Università di Padova (lingue di specializzazione: Russo, Ungherese, Serbo-croato) e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Slavistica presso lo stesso ateneo nel 2012, con una tesi dal titolo : Kiev-Buda- Venezia: I centri di sviluppo della cultura serba del Settecento. Il ruolo mediatore di Dionisije Novakovic (relatore: Prof.ssa Dorota Gil). La tesi è in via di pubblicazione in traduzione serba. Nel 2013 è stata docente a contratto di Lingua e Letteratura Serba e Croata presso lo stesso ateneo. Dall'aprile 2014 è assegnista nell'ambito del progetto di ricerca The Interconfessional Polemic Between the Orthodox Serbs and the Catholic Church in the Manuscripts of Gerasim Zelic (supervisore: Prof. Han Steenwijk). Le sue ricerche si sono finora concentrate prevalentemente sulla cultura e letteratura serba del Settecento, con particolare riferimento alle figure di D. Novakovic, Z. Orfelin e D. Obradovic.
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Copyright Firenze University Press 2014
Abstract
The interconfessional polemic which, between the 17^sup th^ and 19^sup th^ centuries, engulfed the Serbian Orthodox community living in the Dalmatian area close to the Triplex Confinium (the triple border point between the Venetian Republic, the Ottoman Empire and the Habsburg Empire), has already attracted the attention of many historians. However, previous scholarship is characterized by considerable differences in approach and results. The present paper is to be seen as the first part of a broader study of the personal and public fate of Gerasim Zelic (1758-1828), a Serbian archimandrite and writer, whose activity as Vicar General of the Serbs of Dalmatia (1796-1810) and Vicar General of Cattaro (1810-1811) interacted with the interconfessional polemic in his native Dalmatia. Firstly, the paper provides state-of-the-art historiography on the confessional question in Dalmatia. Secondly, it summarizes the main events which opposed the Catholic Church and the Orthodox population of the area, from the time of the Venetian domination to Zelic's day. Lastly, it provides a brief description of a corpus of manuscripts connected to the figure of Zelic, which will be studied from a historical and culturological perspective in order to help reconstruct the events related to the confessional question in Dalmatia.
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