RIASSUNTO: Lo scopo di questo lavoro è analizzare l'impatto che la crisi occorsa nell'Impero Romano durante il III secolo d.C. ebbe sul commercio romano con i popoli del mondo orientale: Arabi, Indiani, Cinesi.
A tal fine si analizza l'area del Mar Rosso dominata per quasi sette secoli dall'Impero Romano prima, e Bizantino poi. Essa infatti svolse l'importante funzione di operare come un punto di contatto tra il mondo occidentale e quello orientale, perché proprio dalle spiagge del mar Rosso le navi romane partivano una volta l'anno alla volta dell'Oriente.
Normalmente, si suole dividere la storia di questo commercio in tre grandi fasi. Una fase di crescita ed espansione, corrispondente al periodo tra la fine del I secolo a.C. e la fine del II d.C.; una fase di declino molto marcato, che corrisponde all'incirca al terzo secolo d.C.; infine, una fase di parziale ripresa, tra IV e VI secolo d.C., durante la quale però non si riuscì mai a tornare ai livelli di epoca altoimperiale. Questo articolo si focalizza principalmente sulla seconda fase, tentando, attraverso la analisi della documentazione superstite, di verificare se il concetto di crisi sia quello più idoneo per definire questo periodo e se, piuttosto, non si possa vedere in essa un momento di trasformazione, di passaggio, tra due sistemi organizzativi diversi.
Parole chiave: Roma, India, commercio, economia, Mar Rosso, crisi.
RESUMEN: Este artículo pretende analizar el impacto que la llamada 'crisis del siglo III' tuvo sobre el comercio internacional entre Roma y el extremo oriente (Arabia, India, China). Con ese objetivo primordial, hemos estudiado específicamente el área del Mar Rojo, controlado durante casi siete siglos de forma sucesiva por los imperios romano y bizantino. La conexión entre occidente y oriente se producía precisamente en esa región, cuando una vez al año de sus costas zarpaban las embarcaciones romanas con dirección al este.
Por lo general, la historia de este tráfico comercial se ha estructurado en tres grandes períodos. A una primera fase de expansión y desarrollo, ocurrido entre finales del siglo I a. C. y finales del siglo II d. C, le siguió otra de declive progresivo, durante el siglo III d. C. Finalmente, se produjo una cierta recuperación, iniciándose en el siglo IV y hasta inicios del VI, durante la cual no obstante el flujo comercial nunca alcanzó niveles imperiales. En consecuencia, en este artículo ahondamos nuestro interés en esa segunda fase. A partir del análisis de la evidencia existente intentamos verificar si el concepto de 'crisis' constituye el término más apropiado para describir lo acontecido durante el siglo III, o si mas bien habría que sustituirlo por el de una gradual 'transformación' desde una fase a la siguiente.
Palabras clave: Roma, India, comercio, economía, Mar Rojo, crisis.
ABSTRACT: The aim of this work is to provide an analysis of the impact that the crisis occurred in the Roman World during the third century AD had on the international trade between Rome and the East (Arabia, India, China). In order to do so, I have studied the area of the Red Sea, ruled for almost seven centuries by the Roman (later Byzantine) Empire. Such area played the pivotal role to connect the Western and the Eastern Worlds, because from the shores of the Red Sea the Roman vessels would leave once a year to the East.
Usually, the history of this trade has been divided in three phases. One phase of boom and development, happened between the end of the first century BC and the end of the second AD; a phase of steady decline, occurring during the third century AD; finally, a partial recovery, started in the IV century AD and lasted more or less until the beginning of the VI, during which the level of the trade never reached the peaks occurred during the imperial age. This article focuses mainly on the second phase, trying, through an analysis of the available evidence, to verify whether the concept of 'crisis' is the most appropriate one to describe what occurred during the third century, or it should be rather changed with the idea of a gradual 'transformation' from one phase to the other.
Keywords: Rome, India, trade, economy, Red Sea, crisis.
(ProQuest: ... denotes non-US-ASCII text omitted.)
Il commercio tra il mondo mediterraneo e i Paesi del vicino e remoto Oriente, come Arabia, India e Cina, ha sempre esercitato una certa fascinazione sia sugli storici contemporanei che su quelli antichi. Da un lato, il mito delle carovane che percorrevano migliaia di chilometri lungo la via della seta, dall'altro, l'idea dei costi favolosi associati alle merci importate e le ingenti ricchezze necessarie per acquistarle, sono sempre state due immagini operanti nella storiografia di tutti i tempi.
Dal loro commercio con l'Est i Romani importavano, complessivamente, varie tipologie di spezie, come la cassia, il cinnamomo, e soprattutto il pepe, ma anche altre mercanzie come le perle, le pietre preziose, i gusci di tartaruga, l'avorio, e ovviamente, la seta1.
Come appena detto, lo studio di tale commercio attrasse fin dall'antichità l'interesse degli autori. A tal proposito, sarà utile partire dalle considerazioni presenti in due dei libri della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Si tratta di passi ben noti agli studiosi che si occupano di questo commercio tra Mediterraneo e Asia in epoca romana, e sono frequentemente citati nei lavori contemporanei che si occupano di tale tema.
Minimaque computatione miliens centena milia sestertium annis omnibus India et Seres et peninsula illa imperio nostro adimunt: tanti nobis deliciae et feminae constant2.
«India, Cina e penisola Araba chiedono cento milioni di sesterzi dal nostro impero ogni anno: tanto ci costano i nostri lussi e le donne».
Digna res, nullo anno minus HS.|D| imperii nostri exhauriente India et merces remittente, quae apud nos centiplicato veneant3.
«È cosa degna di nota che in nessun anno l'India assorbe dal nostro impero meno di 50 milioni di sesterzi, rendendo in cambio mercanzie che da noi si vendono a un valore pari a 100 volte quello di acquisto».
Entrambi i testi sono stati usati molto frequentemente per cercare di ricavare delle cifre esatte sui costi e sul reddito connessi a questo commercio, ma non è per questi fini che si fa riferimento ad essi. Ciò che interessa in questa sede, infatti, è far notare come in essi, complessivamente, si ritrovino molti dei temi che tanto gli antichi quanto i moderni associavano a questo tipo di commercio internazionale: il contatto con Paesi esotici, la ricerca di merci rare, e soprattutto costosissime, per quanto percepite come superflue, o persino inutili.
Un simile punto di vista sul fenomeno del commercio internazionale con l'Oriente è indiscutibilmente parziale e deformato da considerazioni di tipo moralistico. Ciò nonostante, è illuminante per comprendere il punto di vista di un esponente della elite romana su questo tema. Le osservazioni di Plinio riguardano due aspetti di questo commercio.
Da un lato, egli sottolinea quanto fosse remunerativo. Dall'altro, esprime un giudizio contemporaneamente morale ed economico: si tratta di un commercio sostanzialmente in generi di non primaria necessità, volto a soddisfare il desiderio di lusso delle classi alte romane, e che inoltre generava una consistente perdita economica per lo Stato, a causa degli enormi capitali che erano bruciati per acquisire mercanzie viste come di scarsissima utilità per la società.
Questo punto di vista ha dominato gli studi moderni sull'argomento, fino ad epoca molto recente. A partire, infatti, dall'opera capitale di Edward Gibbon4, che definì il commercio tra Roma e l'Est «splendid but trifling», la maggioranza degli autori che si sono interessati di questo tema fino al XX secolo hanno sostanzialmente ricalcato le opinioni di Plinio5.
Solo in anni recenti alcuni studiosi hanno evidenziato come questo approccio sia inadeguato per comprendere la reale natura e il ruolo economico di tale commercio, ponendo in evidenza due fattori. Da un lato, è stata dimostrata ormai al di là di ogni ragionevole dubbio l'importanza economica degli scambi commerciali con l'Oriente, che fruttavano alle casse dello Stato un consistente gettito fiscale6. Dall'altro, si è fatto notare come considerare questo commercio come riservato solo a generi di lusso, di uso limitato esclusivamente alle «corrotte» classi dirigenti romane sia assolutamente fuorviante: nonostante, infatti, molte delle merci che erano importate avessero un distribuzione limitata alle classi alte della società romana, una parte non trascurabile di esse aveva applicazioni di uso quotidiano in ambito medico, alimentare, e religioso7.
Chiariti questi aspetti introduttivi all'argomento generale del presente lavoro, è importante specificare fin d'ora che, nonostante in antico esistessero, schematicamente, due rotte commerciali tra Oriente e Occidente, una terrestre e una marittima, in questo lavoro solo la seconda sarà oggetto d'esame.
Seguendo tale rotta, i mercanti romani partivano dai porti del Mar Rosso, principalmente quelli egiziani, attraversavano il Mare, entravano nell'Oceano Indiano, per poi approdare ai porti indiani della costa occidentale8. È chiaro quindi come l'analisi della vita di questi porti da cui partivano le navi è una chiave di lettura importante per comprendere l'evoluzione di tale commercio.
Da questo punto di vista, è interessante partire dalla lettura di un passo dell'opera geografica di Strabone:
...
«Ad ogni modo, quando Gallo era prefetto dell'Egitto, lo accompagnai risalendo il Nilo fino a Syene ed alle frontiere dell'Etiopia, ed appresi che 120 vascelli stavano salpando da Myos Hormos verso l'India, quando in precedenza, sotto i Tolomei, solo in pochi si avventuravano nel viaggio intrattenendo commerci con l'India».
Il passaggio di Strabone pone l'accento su un fatto che per lo storico di Amasea ha quasi dell'incredibile. Egli si riferisce all'anno 25 a.C., pochissimi anni dopo la annessione dell'Egitto operata da Ottaviano. Nonostante il lasso di tempo così breve, il volume dei commerci passanti per Myos Hormos e diretti in India è aumentato di molte volte, passando da poche navi sotto i Tolemei a 120 nel 25 a.C.
Strabone, quindi, registra per la prima volta un dato di fatto, ormai ampiamente acquisito dalla storiografia contemporanea: con l'annessione dell'Egitto all'Impero Romano si verifica un «boom» commerciale nei rapporti tra il Mondo Mediterraneo e quello Orientale.
Strabone fa riferimento a un porto, Myos Hormos, che non era certamente l'unica installazione sul Mar Rosso. Tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C., in epoca, cioè alto-imperiale, i Romani avevano a disposizione una serie di porti sul litorale del Mar Rosso, tanto sul lato egiziano, quanto su quello arabo. Grazie alle fonti a disposizione, possiamo brevemente elencarli tutti.
1. I porti sul lato egizio
Partendo dal litorale egizio, il primo di questi porti, variamente chiamato Cleopatris, Arsinoe o Clysma, era collocato nell'odierno sito di Suez10. Gli scavi archeologici ne hanno rivelato l'origine tolemaica: tuttavia, pare che esso non fu utilizzato in maniera significativa prima della fine del II sec. d.C., cioè al termine del periodo che stiamo prendendo in considerazione in questa prima parte dell'analisi11.
Per quanto riguarda il secondo porto, Philoteras, possiamo ipotizzare che esso non abbia mai svolto un ruolo di rilievo, nel contesto generale. L'esatta collocazione è ad oggi ignota, e gli studiosi hanno proposto con vari argomenti i siti di Aïn Sukhna e Safaga12. In ogni caso, è impossibile approfondire la discussione su questo sito.
Al contrario, Myos Hormos fu uno dei cardini fondamentali per il funzionamento del sistema portuale nel Mar Rosso, tra I e II sec. d.C. Le fonti antiche sono concordi nel riconoscergli questo ruolo. È certamente significativo che il Periplus Maris Erytraei faccia menzione di due soli porti sulla costa egiziana, attivi all'epoca: uno è, appunto, Myos Hormos, e l'altro Berenice13. Il problema della ubicazione di Myos Hormos ha occupato per decenni gli studiosi, ma pare essere stato risolto in maniera definitiva negli ultimi anni, grazie a una serie di campagne di scavo. Senza voler qui ripercorrere tutte le tappe di questa ricerca, mi limiterò a segnalare che, ad oggi, il sito si può identificare con certezza con la moderna località Quseir al-Qadim14.
La situazione è ben diversa per Leukos Limen, di cui non si è riusciti a giungere ad una sicura identificazione. La circostanza che esso non sia citato da nessun'altra fonte antica ha fatto ipotizzare di recente che non sia in realtà mai esistito un porto sulla costa egiziana con questo nome. Il suo inserimento nella lista di Tolomeo deriverebbe da un errore di trascrizione da parte dell'autore, che avrebbe in qualche modo duplicato il nome di un altro porto, ubicato sulla costa araba: Leuke Kome15.
Anche per il successivo porto a Sud, Nechesia, permangono molti dubbi sulla collocazione. Fino a non molti anni fa, l'opinione più diffusa tra gli studiosi era che si potesse ipotizzare una identificazione con la moderna Marsa Nakari16. Tuttavia, recenti scavi archeologici hanno contribuito a mettere in crisi questa già incerta identificazione: pare, infatti, che il sito di Marsa Nakari si sia sviluppato in epoca prevalentemente imperiale e tardoantica, caratteristica questa, difficilmente attribuibile a Nechesia (la cui fondazione risale all'epoca tolemaica). È bene ricordare, però, che i dati finora acquisiti sono troppo scarsi per poter esprimere un parere definitivo sulla questione17.
Per quanto riguarda Berenice, non ci sono dubbi sulla sua identificazione con la moderna Ras Benas18. Il porto fu fondato da Tolomeo II, nel III secolo a.C. (circa il 275 a.C.)19, ma vide il suo periodo di maggiore fioritura nel I secolo d.C., sotto il dominio romano20. Proprio in questa epoca è chiaramente attestata l'esistenza di una dogana a Berenice, che controllava il flusso di merci in uscita dall'Impero (prevalentemente vino), dirette in India21.
Sostanzialmente, Berenice e Myos Hormos costituirono tra I e II secolo d.C. le colonne portanti dei traffici romani nel Mar Rosso. Le fonti antiche, complessivamente, citano solo questi due porti come coinvolti nel commercio internazionale. Il loro successo è facilmente spiegabile. In primo luogo, il Mar Rosso è battuto, nella sua porzione settentrionale, a Nord del 20° parallelo, da forti venti spiranti da nord durante tutto il corso dell'anno; come se ciò non bastasse, i fondali sono ricchi di scogli e, quindi, pericolosi per le navi che vi si avventurino. A queste difficoltà di tipo ambientale si aggiungeva la costante presenza di pirati che rendevano poco sicura la navigazione22.
Tuttavia, queste circostanze da sole non sarebbero bastate a determinare il successo dei due porti meridionali egiziani. Infatti, le merci ivi scaricate avrebbero dovuto, in teoria, essere trasportate per un lungo e costoso tragitto nel deserto orientale, risalendo la provincia verso nord, fino ad arrivare ad Alessandria e, di lì, essere smistate nel Mediterraneo.
In realtà, fin dall'epoca tolemaica, a svolgere egregiamente il ruolo di «cerniera» tra i porti meridionali ed Alessandria era la città fluviale di Coptos, ubicata lungo il corso del Nilo, nel punto in cui il fiume scorre più vicino alla costa orientale dell'Egitto. L'importanza cruciale di Coptos è ben illustrata da Strabone, che la definisce come un emporion dove confluivano le merci dall'India, dall'Arabia e dall'Etiopia23. Infatti, i prodotti che arrivavano nei porti di Myos Hormos e Berenice erano trasportate a Coptos per mezzo di vie carovaniere che attraversavano il deserto orientale egiziano. Qui esisteva una serie di postazioni militari sottoposte a continua sorveglianza e fornite di punti di approvvigionamento idrico (hydreumata)24.
In questa strutturazione complessiva, Myos Hormos era certamente avvantaggiata dal fatto di essere a soli 174 km da Coptos25 (contro i 392 di Berenice)26, mentre quest'ultima, essendo più a sud, consentiva alle navi di ridurre il periodo di navigazione con i venti contrari27.
Le merci giunte a Coptos venivano infine trasportate lungo il Nilo fino ad Alessandria, dove erano soggette a un dazio pari al 25% del loro valore, riscosso da un gruppo di funzionari denominato arabarchi28.
2. I porti sul lato arabico
Per quanto riguarda, invece, il litorale arabico, va detto che esso fu sotto il controllo del regno nabateo fino all'inizio del II secolo d.C. Tuttavia, questo piccolo Stato cliente era commercialmente pienamente integrato nell'economia romana, e i suoi porti rifornivano di merci le città dell'Impero. Sul Mar Rosso, erano essenzialmente due i punti di approdo delle vie commerciali con il Sud: Aila e Leuke Kome.
Il primo (corrispondente alla odierna città di 'Aqaba) è citato dalle fonti letterarie di I-II secolo come porto dei Nabatei, in rapporto al commercio di spezie dall'Arabia29. Per avere attestazione di contatti diretti tra Aila e l'India dobbiamo aspettare Eusebio di Cesarea, il quale contestualmente ci riporta la notizia che qui fu fatta trasferire da Gerusalemme la Legio X Fretensis, intorno al 29030. Leuke Kome, ubicato all'incirca alla stessa latitudine di Myos Hormos, in corrispondenza della attuale al-Wajh31, era a sua volta inserito nel commercio di incenso e altri prodotti, che provenivano dal Sud Arabia e proseguivano, passando per Petra, fino a Rhinocolura, sulla costa palestinese. Il volume di traffico passante per Leuke Kome raggiunse il suo zenith tra I secolo a.C. e I d.C.32, restando un porto di un certo rilievo nel contesto del commercio nell'area del Mar Rosso, ove il re dei Nabatei, peraltro, manteneva delle truppe di stanza ed esigeva una tassa del 25% sulle merci di importazione33.
Riepilogando sinteticamente, dunque, possiamo affermare che il commercio internazionale romano passante per il Mar Rosso in epoca imperiale si articolava attorno a tre porti principali: Berenice, Myos Hormos, e Leuke Kome. Essi avevano il vantaggio di essere collocati strategicamente nel Mar Rosso, in una zona in cui, per motivi geografici, risultavano gli approdi più sicuri e di maggiore facilità di utilizzo (posizione rispetto alla direzione dei venti nel Mar Rosso, prossimità a rotte carovaniere). Questo scenario, però, non sopravvive alla fine del II secolo d.C., e varie spiegazioni sono state offerte per spiegare un simile cambiamento, normalmente associato a una crisi del commercio internazionale.
Il terzo secolo e la crisi del commercio internazionale
Il III secolo è stato identificato da molto tempo come il «punto di svolta» nella storia della gestione del Mar Rosso da parte dei Romani, e più in generale del commercio tra il loro Impero e l'India. In questo senso, la communis opinio per cui il III secolo sarebbe stato un periodo di profonda crisi politica, militare ed economica ha svolto un ruolo determinante nel formare le teorie elaborate dagli studiosi. Fino ad oggi, ha complessivamente regnato indisturbata l'opinione per cui, mentre tra I e II secolo d.C. il volume dei commerci tra Impero Romano e India avrebbe raggiunto livelli altissimi, a partire dal IV secolo il volume si sarebbe ridotto di molto. Nel mezzo, la «crisi di III secolo», che avrebbe messo l'Impero economicamente e militarmente in ginocchio, causando il quasi totale crollo dei contatti commerciali con l'Oriente e la distruzione dei porti principali dell'area eritrea.
A partire dal IV secolo l'Impero, giovandosi di una ritrovata stabilità economica e politica, avrebbe tentato di riallacciare i contatti con l'Oriente, ma questa volta utilizzando i porti settentrionali del Mar Rosso, pur geograficamente svantaggiati, perché questi erano gli unici rimasti a disposizione. Il volume complessivo degli scambi, tuttavia, sarebbe rimasto basso, anche a causa della concorrenza di Axumiti e Persiani, ormai divenuti i padroni delle rotte commerciali con l'India. Se diamo una rapida occhiata ad alcune delle opinioni espresse nei principali testi che nell'ultimo secolo si sono occupati di questo argomento, possiamo verificare la pressoché totale unanimità dei pareri espressi sulla questione.
Tra i primi a occuparsi dell'argomento fu il Warmington. Egli, nel suo The commerce between the Roman Empire and India, dedicava poche pagine a quello che lui aveva significativamente indicato come un periodo di declino, iniziato con la morte di Marco Aurelio. Lo studioso, a proposito del commercio con l'India nel corso del III secolo, così si esprimeva:
«[...] The Roman Empire as a whole suffered a steady economic and political decline [...]. Egypt shared in the troubles and was unable to protect the desert-routes, and after the cruel treatment of Alexandria by Caracalla, direct sea-trade between the Roman Empire and India almost ceased to exist [...] and discoveries of coins in India become very few for reigns succeeding that of Aurelius, and cease altogether between Caracalla and Constantius II with the exceptions of mostly isolated discoveries in the north of India, reflecting, if anything, the activity of Palmyra»34.
A proposito della ripresa commerciale in epoca bizantina, invece, lo studioso si esprimeva in questi termini:
«Aela, Clysma, and especially Berenice revived in importance, but the so-called trade with the 'Indians' was in reality trade with the Ethiopians, and even under Justinian in the sixth century Byzantine subjects visited not India so much as Arabia and the Axumite realm (particularly Adulis), and the ignorance now shown about India was truly prodigious»35.
Nell'analisi dello studioso inglese sono presenti già tutti gli elementi che caratterizzeranno l'analisi di questo periodo nelle opere di tutti gli autori successivi: il terzo secolo come periodo di totale declino del commercio con l'Oriente; la comparsa di intermediari (gli Axumiti) che avrebbero agito come concorrenti commerciali dei Romani, costringendo questi ultimi a sottostare alle proprie condizioni; il declino in epoca tardoantica, nonostante le sporadiche testimonianze di un revival commerciale a partire dal IV secolo; l'ignoranza geografica mostrata dai Romani di IV-VII secolo riguardo l'India, ulteriore prova di un ridotto contatto commerciale diretto col subcontinente. Ultimo aspetto da non sottovalutare, la grande importanza riservata alle monete romane ritrovate in India, le quali sarebbero un testimone oggettivo e fedele delle variazioni subite nei flussi commerciali tra Occidente e Oriente, e che mostrerebbero anch'esse chiaramente che dopo la fine del II secolo la presenza romana in India divenne assolutamente sporadica.
Le opinioni del Warmington furono riprese successivamente dalla totalità degli studiosi che si occuparono del problema, come risulterà chiaro dal proseguire della nostra rapida carrellata.
Il più celebre dei libri scritti sul tema dei rapporti commerciali tra mondo romano e l'Est è certamente il testo di S.E. Sidebotham, Roman Economic Policy in the Erythra Thalassa, opera che, come si è già avuto modo di notare, resta una pietra miliare nella storia degli studi. Anche il testo del Sidebotham fondamentalmente non si occupa di estendere la sua analisi all'epoca tardoantica, dichiarando nel sottotitolo i limiti cronologici in cui l'opera si inserisce (30 a.C - 217 d.C.), eppure in alcune parti del suo lavoro l'autore non rinunciava ad esprimere alcune valutazioni di massima:
«The fact that no Roman coins later than Caracalla have been found in the east and central Andhra regions of India-an area where the Roman traders were active in the second century-and that very few coins of third century emperors after Caracalla have been found in India at all suggest that Roman trade in coins with India virtually ceased after the second or third decades of the third century. The trade seems to have fallen into the hands of middlemen who may have preferred trading in barter»36.
Come si vede, anche in Sidebotham tornano sinteticamente i concetti già espressi decenni prima dal Warmington: il declino, quasi la sparizione del commercio nel terzo secolo; l'ascesa commerciale di intermediari nell'area del Mar Rosso; l'assenza di monete romane in India dopo l'epoca dei Severi, in particolare da Caracalla in poi.
L'ultimo testo di cui si riportano brevemente le opinioni a titolo di esempio è un volume edito non molti anni fa dallo Young, dal titolo Rome's Eastern trade, il quale per primo ha spinto il proprio orizzonte cronologico al di là del terzo secolo, facendo arrivare la propria trattazione fino alla abdicazione di Dioclaziano (305 d.C.). Anche nel volume dello Young, tuttavia, l'epoca posteriore al II secolo d.C. è trattata in maniera alquanto sintetica, riprendendo ancora una volta gli schemi facenti capo fondamentalmente al Warmington:
«There is considerable evidence to show that the Egyptian Red Sea trade suffered a marked downturn in the later third century. This is not to say that the trade ceased altogether: there is still evidence that the commerce through the Red Sea ports was active at that time in the Historia Augusta. Nonetheless there is good reason to believe that the volume of commerce passing through the Egyptian Red Sea ports declined significantly at this time»37.
Notiamo nelle affermazioni dello Young per la prima volta un ammorbidimento della canonica opinione riguardo al terzo secolo. Egli non parla di «totale cessazione» dei commerci in questo periodo, ma di «riduzione». Lo studioso prosegue poi la sua analisi riportando nella sua discussione alcuni dei tipici argomenti che abbiamo già evidenziato in precedenza:
«This decline in volume of traffic using the Egyptian Red Sea ports also appears to parallel developments in the coin evidence from India. [..] there are no Roman coins at all from the later third century. [...] the apparent coincidence of the disappearance of Roman coins from India with the decline of the Egyptian Red Sea ports would seem to indicate a general downturn in the Red Sea commerce in the later third century. [...] There are several reasons why the civil wars and economic crisis of the third century might have had a damaging effect on the eastern long-distance trade. The greater prevalence of warfare would, of course, impede the trade severely. It has already been seen that the trade began to prosper in a period of peace and Roman prosperity beginning in the later first century BC; it should hardly surprise us that the resurgence of internal warfare in the third century would damage the trade. Similarly, the rampant inflation which gripped the Roman world throughout the third century would have armed international commerce as the buying power of Roman currency collapsed»38.
Il giudizio complessivo dello Young sul III secolo è sostanzialmente analogo a quello degli studiosi che si sono occupati dell'argomento prima di lui. Le opinioni di fondo sono fondamentalmente condivise dai tre autori portati ad esempio, e vedono il III secolo solo come epoca di transizione verso una nuova fase dello sviluppo dei commerci con l'Oriente. Tutti sottolineano alcuni aspetti, come il declino politico ed economico dell'Impero in questo periodo, cui avrebbe fatto seguito una fortissima inflazione, che avrebbe avuto negative ricadute sul commercio internazionale con i Paesi dell'Oriente. Prova principale di questo trend negativo, la mancanza di monete romane in India databili a partire da Caracalla in poi.
Di seguito si cercherà di verificare questa ipotesi, cercando di capire in primo luogo se le fondamenta su cui essa si basa siano effettivamente solide o meno. Questo comporta necessariamente un confronto con quello che è un complesso e annoso problema storiografico, la definizione di quella che fu la cosiddetta «crisi di terzo secolo», sul cui riguardo gli studiosi sono ben lungi dall'essere d'accordo. Il tema è talmente ampio che per affrontarlo adeguatamente probabilmente sarebbe necessario realizzare una nuova ricerca ex-novo, per cui qui di seguito si cercherà di circoscrivere l'analisi a quegli aspetti maggiormente interessanti per il lavoro che si sta portando avanti.
La crisi di terzo secolo come problema storiografico
L'idea che il mondo romano sia stato oggetto di una 'crisi' durante il III secolo d.C. trae origine, in certa misura, dalle testimonianze riportate dagli stessi contemporanei, le quali, pur non numerosissime, presentano un quadro a tinte fosche di questo periodo39. Queste testimonianze hanno in effetti costituito la base su cui si è costruita una vulgata del III secolo come età della crisi per eccellenza del mondo romano, fin dai tempi del Gibbon e della sua monumentale History of Decline and Fall of the Roman Empire40.
In effetti, ragioni per indicare questa come un'epoca difficile ve ne sono. Nel cinquantennio compreso tra il 235 (morte di Alessandro Severo) e il 285 (definitiva conquista del potere da parte di Diocleziano) l'Impero sperimentò una periodo molto difficile, affrontando una serie di minacce che ne misero a repentaglio la stessa esistenza41.
Tuttavia gli studiosi non hanno mai raggiunto un accordo su quelle che furono le reali proporzioni della crisi e neppure se questo sia il termine più adatto a designare i convulsi accadimenti di questo periodo. Se proviamo a verificare in che modo il tema sia stato trattato nell'ultimo secolo, si nota chiaramente che il concetto di crisi sembra essere stato progressivamente «diluito» in quello di «trasformazione», più neutrale.
Nella vecchia edizione della Cambridge Ancient History, il volume XII, del 1939, era intitolato The Imperial Crisis and Recovery, 193-324, quasi a suggerire che il periodo di crisi fosse durato per ben 131 anni, mentre il capitolo affidato ad Andreas Alföldi è intitolato «The crisis of the Empire (AD 249-270)»42, restringendo di fatto l'ambito cronologico a soli 21 anni. La parola «crisi» è utilizzata peraltro come una sorta di «contenitore », di cui non si fornisce una precisa descrizione, come un modo di descrivere un periodo che è ovviamente travagliato e complesso. Compare qui immediatamente una delle caratteristiche più evidenti della storiografia sull'argomento, e cioè la difficoltà nel definire precisamente i limiti cronologici e semantici del fenomeno.
La parola «crisi» è utilizzata ancora in un lavoro del MacMullen del 1976, Roman Government's Response to Crisis AD 235-33743. Possiamo subito notare come la ripartizione cronologica scelta dal MacMullen sia diversa da quella della Cambridge Ancient History, mentre il termine è ancora una volta usato in maniera vaga, come sintesi per indicare una situazione precaria che, come suggerito dal titolo del testo, il governo romano dovette ad un certo punto affrontare.
Non molti anni dopo, Geza Alföldi per la prima volta pose il concetto di crisi davvero al centro della indagine storiografica44. Egli puntò l'attenzione sulla percezione che i contemporanei avevano dei tempi in cui si trovarono a vivere. Analizzando prevalentemente fonti cristiane (pur senza trascurare quelle di ambito pagano), egli trasse la conclusione che i Romani di III secolo ebbero la chiara percezione di vivere in un periodo di grave difficoltà e di crisi sociale, arrivando a interpretare questi fenomeni come presagi della imminente fine del mondo.
È solo in anni recenti, invece, che il concetto di crisi è stato decisamente rimesso in discussione, arrivando a negare che esso possa descrivere adeguatamente lo scenario di III secolo. Il tal senso, uno dei primi testi che si segnalò fu certamente il lavoro dello Strobel, edito nel 199345, che ebbe anche il merito di utilizzare il concetto di crisi come un vero e proprio modello storiografico, e non solo come «contenitore»46. Egli rigettava l'idea di crisi nel terzo secolo, e in particolare confutava la argomentazioni di Geza Alföldi, sostenendo che le testimonianze raccolte da quest'ultimo nel suo libro non erano utilizzabili per sostenere l'idea che i Romani di III secolo avessero l'impressione di vivere in un periodo di crisi irrimediabile, ma evidenziassero piuttosto i problemi che singole persone o gruppi di persone (ad esempio i Cristiani, sottoposti a persecuzioni) potevano aver riscontrato in quel determinato periodo. Infine, lo Strobel esprimeva anche sfiducia sulla validità del metodo adoperato dallo Alföldi: partendo dalla convinzione che l'autentica natura di un'epoca di crisi può essere compiutamente riconosciuta solo quando questa epoca sia giunta a termine, egli dubitava che i Romani di III secolo fossero nella posizione di poter esprimere giudizi significativi sulla loro epoca. La conclusione dello Strobel è che in effetti non vi fu alcuna crisi nel corso del III secolo, e che esso possa essere considerato complessivamente un'epoca relativamente stabile47, arrivando infine persino a negare l'ipotesi che si sia verificato in questo periodo un «cambiamento accelerato» (beschleunigter Wandel), ribadendo che «cambiamento strutturale» (Strukturwandel) è il termine più appropriato per descrivere il fenomeno48.
Nel 1999 fu il Witschel a tornare sull'argomento49, nel suo lavoro che si prefiggeva di realizzare una ricognizione generale delle condizioni sociali del mondo romano nel III secolo, analizzando non solo le testimonianze letterarie, ma anche quelle provenienti da scavi archeologici. Piuttosto che occuparsi della storia politica dell'Impero, egli cercò di delineare la storia delle singole regioni, mettendo in evidenza quali furono i risultati del cambiamento in ognuna di esse, sottolineandone le relative differenze. Egli sostenne che, nonostante per certi versi il mondo romano a partire dal IV secolo risultasse profondamente diverso da quello di II secolo, le strutture portanti fossero rimaste immutate. Dato ancora più importante, egli sottolineò come molti degli sviluppi caratterizzanti il III secolo erano in realtà partiti nel secolo precedente. Nonostante il Witschel dichiarasse di non trovare sorprendente che molti studiosi considerassero il periodo tra il 250/60 e il 280/90 come un'epoca di crisi50, la sua personale conclusione era che crisi non vi fosse stata per nulla51.
A suggellare la parabola evolutiva del concetto di «crisi di III secolo» è infine la nuova edizione della Cambridge Ancient History, volume XII, che reca lo stesso identico titolo del XII volume della edizione precedente. Questa volta, tuttavia, il capitolo in esso contenuto e dedicato alle difficoltà di III secolo ha un titolo decisamente più neutro: Maximinus to Diocletian and the Crisis52, laddove l'autore, J. Drinkwater, non manca di sottolineare come il termine «crisi» non dovrebbe essere utilizzato per descrivere il complesso dei fenomeni occorsi nel III secolo, mentre la parola più adatta a tale scopo sarebbe «trasformazione», o «cambiamento»53.
Stessa opinione è contenuta in un'altra opera di recente pubblicazione, che si confronta con l'argomento: The Roman Empire at Bay, AD 180-395, di D. Potter54. L'autore esprime l'idea che sia necessario sostituire il concetto di crisi con quello di cambiamento e trasformazione graduale55.
Questo recente e radicale cambiamento nel giudizio sul III secolo trae origine da due fenomeni. Da un lato, vi sono ragioni non propriamente «oggettive», riconducibili alla congerie culturale contemporanea, che tende a rivalutare fortemente tutta la antichità «non classica», in reazione a secoli di venerazione per quella «classica», considerata l'esempio per eccellenza di perfezione e oggetto privilegiato dello studio dello storico56.
Dall'altro lato, la maggiore attenzione che si è dedicata nel corso degli ultimi decenni allo studio della cultura materiale delle singole province dell'Impero ha permesso di comprendere meglio nel dettaglio la società romana di III secolo, evidenziando le profonde differenze esistenti tra le singole province57. Per quanto concerne questo ultimo aspetto, va detto che in particolare le province orientali dell'Impero, oggetto di questo lavoro, sembrano tra le meno coinvolte in fenomeni che si possano definire genericamente come «crisi».
Nonostante questo complessivo cambio di prospettiva sul problema della «crisi», abbiamo visto in precedenza che l'opinione generalmente condivisa dagli studiosi è che ciò nondimeno le difficili condizioni economiche caratteristiche del III secolo avrebbero danneggiato il commercio nel Mar Rosso. A tal proposito, sono tre i punti fondamentali su cui si basa questa ipotesi:
1. L'inflazione incontrollabile che avrebbe colpito la moneta romana in questo periodo avrebbe severamente compromesso la capacità di spesa dei Romani, limitando conseguentemente la domanda di beni di lusso provenienti dall'Oriente.
2. Le monete romane ritrovate in India non sono posteriori all'epoca di Settimio Severo o Caracalla, il che lascerebbe presumere che dopo la prima età Severiana vi fu una contrazione notevole degli scambi commerciali diretti tra il Mediterraneo e l'India.
3. Alcuni porti dell'area eritrea, come Myos Hormos e Coptos, furono distrutti abbandonati o distrutti durante il III secolo, per cui o assumiamo che questo fu il risultato di una crisi commerciale, o che ne fu la premessa.
In realtà, nessuno di questi tre punti resiste ad una più accorta analisi della documentazione in nostro possesso, come sarà ora dimostrato.
1. L'inflazione nel III secolo
«It is still the normal view that there was serious price-inflation in the Roman Empire of the third century A.D., that is inflation at a rate and of a duration which disrupted economic structures. This supposed price-inflation is only one element in a grand economic model whose other principal elements are increased state expenditure, mainly on the army, monetary inflation arising through debasement and increased supply, in terms of its face value, of the coinage, and increased taxation, with a consequent public and private tendency to revert to an economy in kind»58.
Con queste parole Dominic Rathbone descriveva quella che era l'opinione maggiormente diffusa tra gli studiosi di storia romana, secondo la quale il terzo secolo sarebbe stato un periodo in cui l'inflazione della moneta romana avrebbe generato un catastrofico e incontrollato aumento dei prezzi, espressi in unità di conto. Questa spirale inflazionistica si sarebbe innescata a partire dalle riforme monetarie di Caracalla, fino a raggiungere livelli inauditi alla fine del III secolo, quando Diocleziano, per porre fine a questa tendenza pluridecennale, avrebbe emanato il suo celebre Edictum de pretiis rerum venalium.
Abbiamo visto come questa teoria sia stata largamente seguita da coloro che si sono interessati dei commerci tra Roma e l'India, per spiegare il supposto calo della domanda di prodotti orientali nel III secolo: la inflazione inarrestabile del III secolo avrebbe eroso il valore della moneta argentea e, conseguentemente, avrebbe ridotto di molto la capacità di spesa dei cittadini dell'Impero; ragione per cui nel III secolo si sarebbe verificata una stagnazione commerciale nel Mar Rosso.
Nonostante la maggior parte degli studiosi sia ancora dell'avviso che durante il III secolo si sarebbe effettivamente verificata una consistente inflazione, con relativo aumento dei prezzi espressi in unità di conto, questa ipotesi è stata in anni recenti sottoposta a severe critiche, perché pare essere fondata più su un pregiudizio che su dati oggettivi59.
Non c'è qui lo spazio per ripercorrere tutte le tappe di un dibattito storiografico lungo e acceso, ma si cercherà di fornire un sintetico quadro della situazione.
È noto come a partire dalle riforme di età Severiana la moneta romana argentea subì un notevole debasement della propria componente di metallo fino. Questo processo continuò in maniera costante durante tutto l'arco del III secolo, finché si arrivò al punto che, attorno al 270 d.C., le monete argentee contenevano appena l'1% di metallo fino. Parallelamente, il peso della moneta aurea fu ridotto più volte, nel 215, nel 238 e nel 267. In base agli effetti della cosiddetta «legge di Gresham» l'immissione di moneta di scarso valore intrinseco sul mercato spinse le persone a tesaurizzare la vecchia moneta, di superiore valore intrinseco, ma di eguale valore nominale. Una delle conseguenze della «legge di Gresham» sarebbe dovuta essere il generarsi di una spirale inflazionistica, dovuta allo scollamento sempre maggiore tra il valore intrinseco e quello nominale della moneta in uso.
Eppure la nostra documentazione non permette assolutamente di verificare alcuna inflazione, fino almeno al 274, anno della riforma monetaria di Aureliano60. Peraltro, varrà la pena di accennare che la riforma di Aureliano fu la prima, in cinquanta anni, ad aumentare la percentuale di metallo fino contenuta nella moneta argentea, e non ad abbassarlo, riportandolo a circa il 4-5%61.
Quanto detto finora, ben lungi dall'esaurire la complessa discussione riguardo alle complesse vicende monetali del III secolo, dovrebbe quantomeno chiarire che il primo dei punti individuati, secondo il quale il commercio con l'Oriente nel III secolo avrebbe subito una battuta d'arresto a causa dell'inflazione, è sicuramente fallace, perché, per buona parte del III secolo stesso, non si verificò alcuna particolare inflazione. È solo a partire dal 274 che si determinò una vertiginosa crescita dei prezzi, ma a questa altezza cronologica, secondo i pareri espressi dalla maggioranza degli studiosi, il commercio con l'Oriente sarebbe dovuto essere già entrato in crisi da almeno un quarantennio. L'argomentazione inflazionistica non può quindi che essere rigettata.
2. Assenza di monete posteriori al regno di Caracalla nei ritrovamenti in India
Anche questo aspetto è stato utilizzato costantemente dagli studiosi per dimostrare l'affievolirsi degli scambi commerciali con l'Oriente nel III secolo. Si è sottolineato che i ripostigli monetali rinvenuti in India sono ricchi di monete auree di epoca Giulio-Claudia, e abbondano (pur essendo numericamente inferiori) quelle di età Flavia e Antonina. A partire dai Severi si ebbe una flessione, mentre sono praticamente irreperibili monete posteriori al principato di Caracalla. La presenza di monete romane auree in India ritorna ad essere regolare a partire dall'epoca di Diocleziano e, ancor più, di Costantino, aspetto che dimostrerebbe la ripresa dei rapporti commerciali tra il Mediterraneo e l'India a partire dall'inizio del IV secolo.
Occorre ricordare, se ve ne fosse bisogno, che l'abitudine di utilizzare le monete come elemento per datare un sito o un rinvenimento è alquanto pericolosa, in quanto facilmente può dare luogo a equivoci anche grossolani. La presenza di una moneta databile a un determinato anno in un ripostiglio non implica la datazione di quel ritrovamento all'anno impresso sulla moneta, ma solamente un terminus post quem. Utilizzare dati relativi al quantitativo di monete augustee o neroniane rinvenute nei siti indiani per ricavarne indicazioni sul trend dei commerci tra Mediterraneo e India all'epoca di questi due imperatori è una operazione assolutamente scorretta, nonostante analisi di questo tipo non siano infrequenti nei lavori che trattano questo tema.
Secondo i dati numismatici interpretati in questo modo, il commercio tra Mediterraneo e India ebbe un boom tra Augusto e Claudio, sarebbe poi leggermente declinato a partire da Nerone, mantenendosi più o meno stabile fino agli Antonini. A partire dai Severi vi fu una nuova fase declinante, culminata nel III secolo. A partire dal IV il commercio riprese stabilmente, pur non raggiungendo i livelli toccati nel I secolo d.C.
Questa rassicurante ricostruzione basata apparentemente su obiettivi dati numismatici è sostanzialmente falsa. In primo luogo, è semmai evidente il contrario, che verso l'ultima parte di questo periodo, sotto gli imperatori Antonini, i Romani raggiunsero il loro massimo livello di penetrazione nel mondo del Mar Rosso e probabilmente il picco dei loro commerci con il mondo asiatico62, arrivando a provare ad allacciare persino contatti commerciali diretti con la Cina. Un quadro del genere non è assolutamente conciliabile con i dati numismatici, interpretati secondo la maniera canonica.
In realtà la risposta a questa apparente aporia è molto semplice. A ben guardare, le monete romane più frequentemente attestate nei primi tre secoli della nostra era sono quelle della prima età Giulio-Claudia, quelle cioè col maggiore standard ponderale e percentuale di metallo fino. La riforma neroniana che abbassò lo standard ponderale tanto della moneta argentea quanto di quella aurea comportò un minore gradimento sui mercati indiani delle nuove monete, per cui è facile credere che i mercanti romani tendessero a utilizzare per parecchio tempo le monete pre-riforma, per evitare problemi con la loro controparte indiana. La successiva riduzione della qualità della moneta romana operata da Settimio Severo e da Caracalla segnò un nuovo punto di svolta ed è facile immaginare che i denarii «leggeri» di epoca Severiana non abbiano trovato facile accoglienza presso il mercato indiano.
Infine, le riforme di Diocleziano e Costantino, che reintrodussero buoni nominali aurei ed argentei, analoghi a quelli neroniani, produssero un nuovo apprezzamento della moneta romana contemporanea in India.
Alla luce di quanto detto finora appare evidente quindi che i ritrovamenti di monete romane in India non possono assolutamente essere utilizzati come indicatori dei flussi commerciali tra il mondo mediterraneo e quello indiano, ma al più delle reazioni che i mercati indiani ebbero alle riforme monetarie promosse dagli imperatori romani nel corso dei secoli.
3. Abbandono o distruzione di Coptos e Myos Hormos
Nonostante alcuni studiosi continuino a dare credito a quanto dicono alcune delle nostre fonti letterarie, non c'è motivo alcuno per ritenere che Coptos sia stata distrutta dai tetrarchi in seguito alle confuse vicende di fine III secolo. È vero che a partire dalla fine del III secolo d.C. le nostre informazioni documentarie sulla città diminuiscono sensibilmente: i testi epigrafici e papirologici provenienti dalla città o ad essa facenti riferimento si fanno decisamente più rari, e anche le fonti letterarie latine e greche sono avare di accenni alla storia della città. Questo fenomeno è probabilmente ascrivibile ai travagliati eventi politico-militari in cui Coptos e tutta la Tebaide furono coinvolte a partire dalla fine del III secolo, che imprimeranno un marchio indelebile negativo alla città, come riflesso nelle nostre fonti latine e greche, laddove quelle copte cristiane non mancano di ribadire la prosperità e importanza della città ancora in epoca tardoantica63.
Buona parte dei problemi di Coptos furono generati dallo scarso sentimento di lealismo politico dei suoi abitanti. Alla fine del III secolo si presentarono ben due occasioni di rivolta. Tra le conseguenze della repressione imperiale in seguito a questo periodo alquanto turbolento, le fonti riportano l'assedio e la distruzione di Coptos, avvenuta per mano di Galerio64. In realtà, nonostante le esplicite testimonianze in tal senso, non ci sono prove concrete che la città abbia subito danni fisici considerevoli. Probabilmente la punizione dei tetrarchi fu severa, ma di tipo diverso da quello che le testimonianze letterarie lasciano intuire. La città avrebbe subito una temporanea damnatio memoriae toponomastica, non una distruzione fisica vera e propria. Si sarebbe trattato, quindi, di una simbolica cancellazione della città, piuttosto che di una sua effettiva distruzione, come le fonti antiche lascerebbero intendere. Il quadro che esse offrono risentirebbe quindi di uno stereotipo, e sarebbe frutto di una esagerazione retorica, come ebbe già modo di sottolineare più di venti anni fa il Bowman: in realtà la città sopravvisse e recuperò la sua importanza, fino a diventare la sede del vescovo locale65.
Diverso è invece il discorso per quanto riguarda Myos Hormos. Questo porto vide iniziare il proprio declino già nel II secolo, per essere certamente e definitivamente abbandonato nel III secolo66. Le ragioni di questo abbandono non sono state ancora affrontate in maniera chiara.
Una prima ipotesi potrebbe essere quella di mettere il declino di Myos Hormos in relazione con l'analogo periodo di oscuramento che subì Berenice, durante il IV secolo. Berenice infatti soffrì di un periodo di evidente declino, proprio in questo periodo, e questo si può collegare, almeno in parte, alle travagliate vicende di Coptos, nonché a problemi di instabilità politica in tutta la regione meridionale dell'Egitto. Allorché la sicurezza fu ristabilita in questa zona e, più ancora, appena Coptos ebbe superato il suo periodo difficile, le fortune commerciali di Berenice tornarono a fiorire67.
Myos Hormos, invece, vide declinare la propria prosperità già nel corso del II secolo, e questo declino sfociò in un definitivo abbandono all'inizio del secolo successivo. È improbabile, in questo caso, che i problemi di Myos Hormos siano da collegare alle vicende di Coptos, perché a ben vedere la fase calante della prima iniziò ben prima del periodo travagliato della seconda. Inoltre, se le vicende di Coptos e Myos Hormos fossero correlate, alla stessa maniera in cui lo sono quelle di Coptos e Berenice, ci dovremmo aspettare che alla ripresa economica di Coptos abbia fatto seguito anche quella di Myos Hormos, cosa che invece non avvenne.
È chiaro quindi che la sorte di Myos Hormos non fu segnata dal temporaneo crollo del sistema carovaniero Mar Rosso - Nilo, ma da un qualche altro fattore.
Un aspetto interessante da notare, già solo accennato in precedenza, è che il periodo di progressivo declino di Myos Hormos coincide con la lenta ma progressiva ascesa della installazioni portuali del nord del Mar Rosso, in particolare Clysma sul lato egiziano, la cui posizione strategica era stata migliorata dalla apertura, da parte di Traiano, di un canale congiungente il Nilo e il Mar Rosso, che terminava proprio nei pressi di Clysma.
È importante a tal proposito comprendere a fondo la natura di una installazione come Myos Hormos. Abbiamo detto all'inizio di questo lavoro che il motivo fondamentale per cui i porti più meridionali ubicati sul Mar Rosso, cioè Berenice e Myos Hormos, svolsero un ruolo di primo piano nel contesto del commercio con l'Oriente, tra I secolo a.C. e II d.C., fu la loro collocazione geografica. È sempre bene ricordare la soglia del 20° parallelo Nord, al di sopra della quale i venti spirano costantemente nel
Mar Rosso da Nord verso Sud. Abbiamo anche visto che Myos Hormos e Berenice consentivano, grazie alla loro collocazione, di ridurre al minimo il viaggio controvento, risparmiando ai naviganti una serie di pericoli. Ma a ben vedere solo Berenice è davvero ubicato poco più a Nord della soglia del 20° parallelo. Myos Hormos è molto al di là di questo limite, e per raggiungere questo porto occorreva fare un viaggio non brevissimo, controvento. Myos Hormos aveva tuttavia il vantaggio di essere collocato nel punto più vicino possibile al corso del fiume Nilo, in modo che il viaggio nel deserto orientale per raggiungere Coptos era considerevolmente più breve di quello da fare partendo da Berenice.
Questo ci porta a ipotizzare che in epoca altoimperiale solo le navi di non grandissime dimensioni approdassero e Myos Hormos, perché per esse era più semplice risalire il Mar Rosso controvento, mentre quelle di grosso tonnellaggio approdavano di preferenza a Berenice.
Myos Hormos era, dunque, un porto «di compromesso»: non era abbastanza a Sud da evitare la navigazione controvento, ma era vicino a Coptos, e quindi aveva il vantaggio di ridurre i tempi delle marcia nel deserto orientale, senza peraltro eliminarli.
Quando Clysma fu messa nelle condizioni di poter essere pienamente utilizzato come porto, il destino di Myos Hormos era ormai definitivamente segnato. Il «porto di compromesso» non abbastanza a Sud da evitare i venti, e non abbastanza a Nord da evitare il deserto, fu semplicemente soppiantato da Clysma, che a questo punto aveva il grande vantaggio di essere collegato in maniera quasi diretta con Alessandria, evitando in questo modo la pur sempre difficile traversata del deserto orientale.
Questo ragionamento può essere esteso anche al lato arabico del Mar Rosso romano. Si è accennato in precedenza che Leuke Kome pare aver subito sorte analoga a Myos Hormos. Nonostante le informazioni sulla sopravvivenza di questo porto dopo la fine del I secolo siano molto tenui, riducendosi alla sola possibile testimonianza di Tolomeo, è comunque ipotizzabile con una certa ragionevolezza che il Leuke Kome sia stato abbandonato in un momento non precisabile tra II e III secolo, che è quanto avvenne anche a Myos Hormos. Essendo i due porti in posizione speculare, la cosa più semplice da pensare è che le loro sorti siano state analoghe: anche Leuke Kome fu rimpiazzato. Contestuale alla sua scomparsa è l'ascesa commerciale di Aila, che inizia proprio a fine III secolo, se non prima68. La decisione di Diocleziano di trasferirvi la Legio X Fretensis non deve essere vista solo come punto di partenza dello sviluppo delle città, ma anche come ratifica di un processo già iniziato in precedenza.
Conclusioni
L'insieme di queste considerazioni ci porta a ridefinire complessivamente l'analisi del III secolo, in rapporto all'area del Mar Rosso. Abbiamo visto che i fondamenti su cui si basa la tradizionale interpretazione di questo periodo non sono solidi: la supposta inflazione, la mancanza di monete romane di III secolo in India, l'abbandono di Myos Hormos e la distruzione di Coptos, tutti questi dati sono del tutto infondati. Il III secolo risulta essere quindi piuttosto un'epoca di cambiamento ed evoluzione, per i commerci nel Mar Rosso. A voler essere precisi, però, si dovrebbe sottolineare come questo cambiamento abbia tratto le sue origini in avvenimenti di II secolo. L'evoluzione del sistema altoimperiale in quello tardoantico è stato quindi un processo graduale e relativamente lento, avendo impiegato quasi due secoli per completarsi.
Riepilogando, quindi, nel II secolo si gettarono le basi per determinare l'ascesa commerciale dei porti più settentrionali del Mar Rosso (Clysma e Aila), ciò che decretò la fine di quelli «intermedi» (Myos Hormos e Leuke Kome).
Per completare adeguatamente la descrizione della evoluzione del sistema romano sul Mar Rosso nel III secolo restano ancora da vedere alcuni punti. In primo luogo, anche se l'idea generale di una crisi del commercio va probabilmente rigettata, è pur vero che il sistema realizzato dai Romani nel Mar Rosso nei primi due secoli della loro permanenza nell'area cessò di esistere, trasformandosi in qualcosa di parzialmente nuovo. Mentre per Myos Hormos e Leuke Kome abbiamo parlato di una sostituzione, diversa è la situazione più a Sud, dove effettivamente Coptos e Berenice subirono un periodo di relativa crisi. Entrambe le città risentirono delle turbolenze interne, dovute alle scorrerie delle popolazioni nomadi che abitavano il deserto, come i Blemmi, che in questo periodo sono ricordati più volte come fonte di problemi per le città dell'Alto Egitto. In più, i tentativi di usurpazione del potere imperiale di cui Coptos fu complice causarono alla città la punizione dei tetrarchi che, per quanto ben più lieve di quello che le fonti lasciano intendere, dovette pur sempre avere qualche conseguenza.
Eppure, nonostante le traversie occorse ad alcuni dei porti principali del Mar Rosso e le complesse vicende politiche, non abbiamo elementi seri per immaginare che il volume delle importazioni dall'Oriente abbia subito una seria diminuzione in questo periodo. Gli unici elementi a favore di questa tesi sarebbero quelli già discussi della inflazione e della mancanza di monete romane in India, che abbiamo visto non essere attendibili.
D'altra parte, abbiamo alcuni elementi che lascerebbero pensare che il commercio con l'Oriente andasse avanti nel III secolo a ritmo quantomeno soddisfacente, tant'è che tramite di esso ci si poteva ancora arricchire. A tal proposito sono interessanti due episodi.
All'epoca della rivolta di Palmira, capeggiata dalla regina Zenobia, la importante città orientale fece di tutto per sottoporre l'Egitto al proprio diretto controllo, per ragioni eminentemente commerciali69. Palmira era a quei tempi inserita nel redditizio commercio con l'Oriente per via di terra, ed è logico che vedesse di buon occhio il controllo anche delle rotte marittime, per potersi garantire in pratica il monopolio di questa attività. Se in quegli anni il volume dei commerci con l'Oriente si fosse ridotto in maniera sensibile, è ben difficile che i Palmireni sarebbero stati interessati ad esso.
In questo contesto si inserisce anche una testimonianza della Historia Augusta, a proposito di un certo Firmo, personaggio coinvolto in una delle molte trame che in quegli anni erano ordite per ottenere il potere imperiale. Egli è presentato come un personaggio ricchissimo, che doveva la sua fortuna al proprio coinvolgimento nei commerci con l'Oriente:
Iste (scil. Firmus) Zenobiae amicus ac socius, qui Alexandriam Aegyptiorum incitatus furore pervasit [...]. De huius divitiis multa dicuntur. [...] Idem et cum Blemmyis societatem maximam tenuit et cum Saracenis. Naves quoque ad Indos negotiatorias saepe misit70.
Il caso di Firmo è molto interessante, perché ci consente di comprendere correttamente il senso dell'evoluzione dei rapporti economici nel Mar Rosso a partire dal III secolo. Egli era uomo ricchissimo, coinvolto nei traffici commerciali con l'India, e aveva dei partners commerciali apparentemente insoliti. Era infatti amicus ac socius di Zenobia, con cui forse aveva anche accordi di tipo politico, ma oltre a ciò societatem maximam tenuit sia con i Blemmi che con i «Saraceni».
In effetti, una delle caratteristiche principali dei commerci nel Mar Rosso a partire dal III secolo è la comparsa di attori commerciali che fino a quel momento non avevano svolto alcun ruolo di rilievo, come ad esempio gli etiopi Aksumiti71, unico potere costituito, alternativo a Roma a sud dell'Egitto, e gli Arabi dell'impero degli Himyariti72. Questi popoli reclamarono a partire dal III secolo il proprio ruolo nel panorama commerciale eritreo, e con essi l'Impero Romano si trovò ad interagire in maniera diversa.
La presenza di questi nuovi attori commerciali nel Mar Rosso per tutta l'epoca tardoantica ha fatto parlare di una decadenza del sistema commerciale romano nell'area: si è voluto interpretare il fenomeno in termini di perdita del monopolio eritreo da parte dei Romani. Le opinioni riportate supra dei tre principali testi che si sono occupati di questo tema confermano che l'opinione più diffusa in merita è quella di una decadenza romana, che avrebbe agevolato la comparsa di questi intermediari. In realtà le cose sembrano essere state alquanto differenti.
Innanzitutto, va ricordato che in particolare gli Axumiti furono stretti alleati politici e commerciali dei Romani, e che il loro regno fu assolutamente inglobato nella sfera di influenza economica dell'Impero. Un caso analogo a quello che era accaduto, tempo prima con i Nabatei. Per quanto riguarda questi ultimi è pacificamente accettato che essi fossero una diramazione del potere romano in Arabia. In termini analoghi va posto il discorso per quanto riguarda Axum, alleato e partner dell'Impero Romano.
Il sistema portuale romano nel Mar Rosso, nella sua forma caratteristica tardoantica, e cioè dal IV secolo in poi, è perfettamente strutturato per sfruttare al massimo i vantaggi che potevano essere ricavati dalla presenza di alleati commerciali come gli Axumiti. Dai porti più settentrionali (Clysma e Aila) partivano, infatti, vascelli destinati prevalentemente alla navigazione nel Mar Rosso, che approdavano ad Adulis, porto axumita, come testimoniato ad esempio da Cosmas Indicopleustes.
La organizzazione complessiva che qui si vuole proporre come modello per il funzionamento del sistema portuale del Mar Rosso in epoca tardoantica è così strutturato.
Viaggi commerciali interni al Mar Rosso. Per questo tipo di contatti le navi partivano essenzialmente dai porti più settentrionali, Clysma e Aila, per raggiungere Adulis, approdo axumita. La pratica è ben attestata dalle fonti letterarie e, nel caso di Aila, corroborata dai ritrovamenti archeologici. Tecnicamente, i vantaggi nello strutturare un viaggio in questo modo erano molteplici. Innanzitutto, il tempo risparmiato: invece di partire dagli approdi settentrionali per raggiungere direttamente l'India, era molto più breve il viaggio ad Adulis, laddove i mercanti etiopi si incaricavano di far pervenire le mercanzie di origine indiana. In secondo luogo, un viaggio limitato al Mar Rosso poteva essere effettuato con navi leggere, particolarmente utili per muoversi nei fondali insidiosi caratteristici in particolar modo della parte più settentrionale del Mare. Ancora, l'eliminazione del lungo trasporto via terra delle mercanzie lungo il deserto orientale egiziano e quello arabico: arrivando a Clysma o Aila le merci erano già vicine alle loro destinazioni finali, cioè rispettivamente Alessandria e Gaza. Per tutta questa serie di motivi nel corso dell'epoca tardoantica si realizzò una efficace fusione tra il sistema portuale romano e quello etiopico, generando una nuova rotta commerciale.
Viaggi commerciali verso l'India propria. Questo tipo di viaggi non scomparve, a partire dal IV secolo. È probabile che divenisse più raro, rispetto all'epoca precedente, in virtù della convenienza della nuova rotta appena discussa. Tuttavia i contatti diretti con l'India continuarono, ed è evidente che il recupero e il mantenimento dell'asse Berenice - Coptos sia stato funzionale a questo scopo. Come già in epoca altoimperiale, Berenice era il punto migliore per far partire le navi dirette in India. In primo luogo, le navi che dovevano affrontare il viaggio nell'oceano, spinte dai monsoni, dovevano essere robuste e pesanti, quindi si sarebbero trovate comunque in difficoltà a risalire fin nei recessi settentrionali del Mar Rosso. L'approdo a Berenice consentiva invece di evitare una lunga risalita del Mar Rosso, sfruttando la carovaniera.
Nonostante le due rotte siano coesistite per tutta l'epoca tardoantica, la seconda opzione (viaggio diretto Berenice-India) fu delle due la prima ad essere abbandonata. Mentre, infatti, gli scavi archeologici hanno indicato chiaramente che il sito di Berenice fu abbandonato nel corso del VI secolo, Clysma e Aila sopravvissero e passarono sotto il dominio arabo ancora in condizioni di efficienza.
Questa organizzazione, lungi dal poter essere definita in termini di decadenza o regresso, fu al contrario molto efficiente. L'Impero Romano tardoantico fu un fortissimo importatore di beni provenienti dalle regioni eritree, anche più di quello che era stato l'Impero Romano nei primi secoli della nostra era. Le notizie delle fonti letterarie sulla quantità di mercanzie «indiane» introdotte nell'Impero e, ancora di più, i dati di scavo che dimostrano livelli di sviluppo inediti per i porti tardoantichi, confermano chiaramente questa idea e inducono a riflettere sulla opportunità di riesaminare definitivamente la questione dei rapporti commerciali tra il mondo mediterraneo e l'Oceano Indiano, abbandonando definitivamente schemi interpretativi ormai inadeguati alla realtà delle nuove evidenze documentarie ed archeologiche73.
1. Tra le opera di recente pubblicazione con un inquadramento generale del tema, si vedano almeno: Tomber, R.: Indo-Roman Trade: From Pots to Pepper. London, 2008. Sidebotham, S. E.: «The Red Sea and India Ocean in the age of the great empires», in A Companion to the archaeology of the Ancient Near East. Malden Mass. 2012, pp. 1041-1059.
2. Plin., Nat. Hist., XII, 84.
3. Plin., Nat. Hist., VI, 101.
4. Gibbon, E.: The History of the Decline and Fall of the Roman Empire. London, 1776-1789.
5. A partire da Warmington, E. H.: The Commerce between Roman Empire and India. Cambridge, 1928, fino al recente Young, G. K.: Rome's Eastern Trade. London-New York, 2001.
6. Si vedano a tal proposito almeno i lavori di De Romanis, F.: «Commercio, metrologia, fiscalità. Su P. Vindob. G 40.822 Verso». MEFRA, 110, 1998, pp. 11-60; Rathbone, D. W.: «The 'Muziris' papyrus (SB XVIII 13167): financing Roman trade with India». BSAA 46, 2000, pp. 35-50.
7. Da questo punto di vista, pionieristica fu l'opera di Sidebotham, S.: Roman Economic Policy in Erythra Thalassa. Leiden, 1986.
8. Casson, L.: «Ancient Naval Technology and the Route to India», in Rome and India, a cura di V. Begley e R. D. De Puma. New York, 1991, pp. 8-11.
9. Strab. II, 5, 12.
10. Sidebotham, S. E.: «Ports of the Red Sea and the Arabia-India trade», in V. Begley e R. D. De Puma: op. cit., pp. 15-17.
11. Per il resoconto degli scavi, cfr. Bruyère, B.: Fouilles de Clysma-Qolzum (Suez), 1930-1932, Cairo, 1966. Sul problema della datazione e del periodo di maggior utilizzo del sito si tornerà infra in maniera più approfondita.
12. Sidebotham: «Ports of the Red sea cit.», p. 19; Jackson, R.B.: At Empire's Edge. Yale, 2002, p. 80.
13. Periplus Maris Erythraei, 1.
14. A lungo si è oscillato tra vari siti della costa egiziana, rivelatisi infine non conciliabili con le testimonianze letterarie ed archeologiche. Per un resoconto sintetico di questi problemi, si veda Cuvigny, H.: La route de Myos Hormos, Fouilles de l'IFAO 48/2. Paris, 2003, pp. 24-27.
15. Cuvigny op. cit., pp. 28-30.
16. Si veda Young, op. cit., p. 44, n. 19 per un resoconto aggiornato.
17. Jackson op. cit., p. 85.
18. O.Ber. I. Su Berenice la bibliografia è abbondante, e si basa principalmente sugli scavi effettuati, a partire dal 1994, dal prof. Steven Sidebotham (Delaware University) nel sito dell'antico porto. Le principali pubblicazioni sulla città sono: Sidebotham, S. E. e Wendrich, W.: Berenike 1994. Preliminary Report of the 1994 Excavations at Berenike (Egyptian Red Sea Coast) and the survey of the Eastern Desert, Leiden, 1995; Sidebotham, S. E. e Wendrich, W.: Berenike 1995. Preliminary Report of the 1995 Excavations at Berenike (Egyptian Red Sea Coast) and the survey of the Eastern Desert. Leiden, 1996; Sidebotham, S. E. e Wendrich, W.: Berenike 1996. Preliminary Report of the 1995 Excavations at Berenike (Egyptian Red Sea Coast) and the survey of the Eastern Desert. Leiden, 1998; Sidebotham, S.E. e Wendrich, W.: Berenike 1997. Preliminary Report of the 1997 Excavations at Berenike (Egyptian Red Sea Coast) and the survey of the Eastern Desert, including Excavations at Shenshef. Leiden, 1999; Sidebotham, S. E. e Wendrich, W.: Berenike 1998. Preliminary Report of the 1998 Excavations at Berenike (Egyptian Red Sea Coast) and the survey of the Eastern Desert, including Excavations in Wadi Kalalat. Leiden, 2000; Sidebotham, S. E.: «Late Roman Berenike». JARCE 39, 2002, pp. 217-240; Sidebotham, S. E.: Berenike and the Ancient Maritime Spice Route. Berkeley, 2011.
19. Sidebotham e Wendrich Berenike 94 cit., p. 5.
20. Come chiaramente attestato dai risultati degli scavi ivi effettuati, che hanno evidenziato un sensibile aumento della superficie edificata, al passaggio dall'epoca tolemaica a quella romana. Sidebotham e Wendrich Berenike 94 cit.; Sidebotham e Wendrich Berenike 95 cit., p. 119.
21. Si vedano i dati recentemente editi in Bagnall, R. S., Helms, C. e Verhoogt, A. M. F. W.: Documents from Berenike. Volume I. Greek Ostraka from the 1996-1998 seasons. Bruxelles, 2000, pp. 8-11; Bagnall, R. S., Helms, C. e Verhoogt, A. M. F. W.: Documents from Berenike. Volume II. Greek Ostraka from the 1996-1998 seasons. Bruxelles, 2005, pp. 5-7.
22. Diod. Sic. III, 43, 5; Strab. XVI, 4, 18; Plin., Nat. Hist., VI, 26, 101 e VI, 34, 176; Sidebotham Roman Economic Policy cit., 68-71.
23. Strab., Geog., XVII, 1, 45. Ma analogamente si esprimono, per descrivere la città, anche Plin., Nat. Hist., V, 60; Ael. Arist., Aeg., 36.
24. Sidebotham, Roman Economic Policy cit.
25. Una recente e dettagliata analisi sulla rotta che collegava Myos Hormos a Coptos è in Brun, J.-P.: «Hodos Myosormitikè: l'équipement de la route de Coptos et la mer Rouge aux époques ptolémaïque et romaine», in M.-F. Boussac (ed.), Autour de Coptos. Actes du colloque organisé au Musée des Beaux-Arts de Lyon, Lyon 2002, pp. 395-414.
26. Analogamente, per la rotta Berenice-Coptos si veda Sidebotham, S. E.: «From Berenike to Koptos: recent results of the desert route survey». In Autour de Coptos cit., pp. 415-438.
27. Come già spiegato, il Mar Rosso è battuto da costanti venti in direzione nord-sud, che si fanno via via più intensi, a mano che si sale a nord. Si vedano, oltre a quanto scritto supra, De Romanis, F.: Cassia, cinnamomo, ossidiana. Roma, 1996, pp. 19-31; Rathbone, D. W.: «Koptos the Emporion. Economy and Society, I-III AD», in Autour de Coptos cit., p. 180.
28. Rathbone: «Koptos the Emporion cit.», pp. 182-6; Cuvigny: op. cit., p. 273.
29. Da notare il silenzio del Periplus su Aila, mentre il solo Strabone fa un esplicito riferimento al commercio di spezie provenienti dall'Arabia (Strab., Geog., XVI, 2, 30 e XVI, 4, 4). Cfr. anche Diod. Sic., III, 43, 4; Plin., Nat. Hist., V, 12; Flav. Joseph., VIII, 6, 4; Tolom., Geog., V, 17, 1.
30. Euseb., Onom., E. Klosterman, p. 6, 17-21.
31. NAPPO, D.: «On the location of Leuke Kome», Journal of Roman Archaeology 23, 2010, pp. 335-348.
32. Sidebotham: «Ports of the Red Sea cit.», p. 21.
33. La menzione della tassa e del suo valore è in Periplus, 19. Si veda anche Strab., Geog., XVI, 4, 18-24. Cfr. De Romanis: op. cit, p. 137; Young: op. cit., pp. 94-6. Per quanto riguarda la presenza di ufficiali nabatei nel porto, cfr. Young, G. K.: «The Customs Officer at the Nabateaean Port of Leuke Kome (Periplus Maris Erythraei 19)». ZPE 119, 1997, pp. 266-268.
34. Warmington: op. cit., pp. 136-137.
35. Warmington: op. cit., pp. 139-140.
36. Sidebotham: Roman Economic Policy cit., p. 172.
37. Young: op. cit., p. 82.
38. Young: op. cit., p. 83.
39. Per una raccolta e un commento dettagliato delle fonti letterarie disponibili, si veda Alföldi, G.: Die Krise des römischen Reiches. Geschichte, Geschichtsschreibung und Geschichtsbetrachtung. Stuttgart, 1989, pp. 319-340.
40. Si vedano, per una sintetica panoramica sul dibattito storiografico riguardo a questo argomento, almeno: Mazza, M.: Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo. Catania, 1970; Chambers, M.: «The Crisis of the Third Century». In White, L. (ed.): The Transformation of the Roman World: Gibbon's Problem after two Centuries, Berkeley, 1966, pp. 30-58; Demandt, A.: Der Fall Roms. Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Nachwelt. München, 1984; Alföldi: op. cit.; Lo Cascio, E.: «Dinamiche economiche e politiche fiscali fra i Severi e Aureliano». In A. Momigliano e A. Schiavone (edd.): Storia di Roma, III/1. Torino, 1993, pp. 248-249; Drinkwa ter, J.: «Maximinus to Diocletian and the 'Crisis'». In A. K. Bowman, P. Garnsey e A. Cameron, Cambridge Ancient History (new edition), vol. XII, Cambridge, 2005, pp. 28-66; Liebeschuetz, W.: «Was there a crisis of the third century?» In O. Hekster, G. de Kleijn e D. Slootjes (edd.): Crises and the Roman Empire. Proceedings of the Seventh Workshop of the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006). Leiden, 2007, pp. 11-20.
41. Celebre la efficace immagine evocata dal Mazzarino, S.: L'impero romano (seconda edizione). Roma-Bari, 1973, seconda edizione, pp. 534-543, secondo il quale l'Impero si trovò ridotto a un «torso» di quella che era stato una volta il suo territorio.
42. Alföldi, A.: «The crisis of the Empire (AD 249-270)». In Cambridge Ancient History. Cambridge: 1939, pp. 165-231.
43. MacMuller, R.: Roman Government's Response to Crisis AD 235-337. Yale, 1976.
44. Alföldi: op. cit.
45. Strobel, K.: Das Imperium Romanum im "3. Jahrhundert": Modell einer historischen Krise? Stuttgart, 1993.
46. Strobel: op. cit., p. 32: «ob das '3. Jahrhundert' als Modell einer historischen Krise gesehen werder kann, also nicht nur in einer sachlichen Retrospektive des Historikers, sondern in der erlebten Gegenwart in der Geschichtswahrnehmung der Zeitgenossen».
47. Strobel: op. cit., p. 347: «Aber selbst im Vergleich mit dem mittelalterlichen und dem neuzeitlichen Europa haben wir in der betrachten Periode ein bemerkenswert stabiles System vor uns».
48. Strobel: 1993, pp. 346-347.
49. Witschel, C.: Krise, Rezession, Stagnation?: der Westen des römischen Reiches im 3. Jahrhundert n.Chr. Frankfurt am Main, 1999.
50. Witschel: op. cit., p. 375.
51. Witschel: op. cit., p. 377: »Das römische Reich sah also im 4. Jh. an nicht wenigen Punkten anders als im 2. Jh. Viele dieser Veränderungen betrafen eher Äußerlichkeiten, während die politischen, sozialen und wirtschaftlichen Grundstrukturen in einem bei der Schwere der militärischen Probleme in 3. Jh. erstaunlichen Umfang erhalten blieben."
52. Drinkwa ter: art. cit., pp. 28-66.
53. Drinkwa ter: art. cit., p. 64.
54. Potter, D.: The Roman Empire at Bay. AD 180-395. London, 2004.
55. Analogamente si sono espressi in anni recenti anche Cameron, A.: «The perception of crisis», Settimane di studio del centro italiano sull'alto Medioevo 45, 1998, pp. 9-31; Horden, P. e Purcell, N.: The Corrupting Sea, a Study of Mediterranean History. Oxford, 2000, p. 339.
56. Sulle implicazioni culturali nell'analisi della crisi di III secolo, si veda ora la lucida analisi di Liebeschuetz, art. cit., pp. 13-20.
57. Si veda a tal proposito Lo Cascio: art. cit., pp. 247-252, il quale tuttavia sottolinea (pp. 250-251) come: «Una eccessiva insistenza sulla diversità degli sviluppi regionali e sui casi di continuata prosperità può far perdere di vista, tuttavia, la necessità di una considerazione complessiva delle condizioni dell'Impero in quanto realtà politica unitaria e, almeno per quegli aspetti direttamente connessi con l'esistenza dello Stato, anche economica unitaria. Anche a volere ammettere la non generalizzabilità, nello spazio, di una crisi di vaste proporzioni e il carattere sostanzialmente episodico delle sue manifestazioni, legato a specifiche congiunture (per esempio belliche), rimane pur sempre accertato che i decenni centrali del III secolo vedono messa seriamente a repentaglio la sopravvivenza dell'Impero come organismo unitario [...]».
58. Rathbone, D. W.: «Monetisation, not price-inflation, in third-century A.D. Egypt?» In King, C. E. e Wigg, D. G.: Coin Finds and Coin Use in the Roman World. Berlin, 1996, p. 321.
59. Si vedano, ad esempio, i lavori a tal proposito di Lo Cascio art. cit., pp. 247-282; Rathbone «Monetisation, not pric-inflation cit.», pp. 321-340; Lo Cascio, E.: «Prezzi in oro e prezzi in unità di conto tra il III e il IV sec. d.C.» In Descat, R.: Économie antique: Prix et formation des prix dans les économies antiques, Saint Bertrand de Comminges, 1997, pp. 161-182; Christiansen, E.: Coinage in Roman Egypt. The hoard evidence. Aarhus, 2004, pp. 112-113; Verboven, K.: «Demise and fall of the Augustan monetary system.» In Hekster, O.; de Kleijn, G. e Slootjes, D. (edd.): Crises and the Roman Empire, cit., pp. 245-257.
60. Le informazioni che possediamo sui prezzi in questo periodo derivano essenzialmente dai papiri documentari rinvenuti in Egitto. Per una attenta analisi del valore di questi documenti e dei risultati da essi ricavabili, si veda Rathbone: «Monetization, not price-inflacion cit.», pp. 321-339.
61. Per una dettagliata discussione sulle conseguenze della riforma di Aureliano sui prezzi, si veda Lo Cascio: «Dinamiche economiche cit.», pp. 161-182.
62. Nappo, D.: «Roman trade with India in the second century AD», in corso di stampa.
63. Fournet, J.-L.: «Coptos dans l'Antiquité tardive (fin IIIe-VIIe siècle apr. J.-C.)». In Coptos: L'Egypte antique aux portes du désert. Lyon, 2000, p. 196.
64. Girolamo, Chronic., a.226: Busiris et Coptus contra Romanos rebellantes ad solum usque subversae sunt; Theoph., Chronogr., p. 7, ll. 23-25 ed. De Boor (= anno Mundi 5782):...
65. Bowman, A. K.: «Two Notes», BASP 21, 1984, p. 35.
66. Cuvigny: op. cit., passim.
67. Si veda Sidebotham, S. E. «Late Roman Berenike cit.».
68. La ascesa economica di Aila a partire dal tardo III e soprattutto dal IV secolo è testimoniata abbondantemente dagli scavi archeologici promossi in situ negli anni '90. Si vedano al proposito: Parker, S.T.: «The Roman 'Aqaba Project: the 1994 campaign». ADAJ 40, 1996. pp. 231-57; Parker, S.T.: «The Roman 'Aqaba Project: the 1996 campaign». ADAJ 42, 1998. pp. 375-94; Parker, S.T.: «The Roman 'Aqaba Project: the 1998 campaign». ADAJ 44, 2000 1996. pp. 373-394; Parker, S.T.: «The Roman 'Aqaba Project: the 2000 campaign». ADAJ 46, 2002. pp. 409-428.
69. Young: op. cit., pp. 180-182.
70. Hist. Aug., Quadr. Tyr., III, 1-3.
71. Per una interessante analisi dell'attività commerciale axumita in questo periodo, si vedano Munro-Hay, S. C. H.: «Axumite overseas interests». In Reade, J.: The Indian Ocean in Antiquity.London-New York, 1996, pp. 339-349; Burstein, S. M.: Ancient African Civilizations: Kush and Axum. Princeton, 1997, pp. 89-93.
72. Un'efficace sintesi su questo problema è fornita da Sidebotham, S. E.: «Romans and Arabs in the Red Sea». Topoi 6(2), 1996, pp. 785-797.
73. Si veda, da ultimo, il lavoro di Seland, E. H.: «Trade and Christianity in the Indian Ocean during Late Antiquity», Journal of Late Antiquity, 5.1, 2012, pp. 72-86.
Dario NAPPO
Universitat Autònoma de Barcelona (UAB)
Fecha de recepción: 28-IX-2012; aceptación definitiva: 7-XI-2012
BIBLID [0212-2052(2012)30;141-170]
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Copyright Ediciones Universidad de Salamanca 2012
Abstract
The aim of this work is to provide an analysis of the impact that the crisis occurred in the Roman World during the third century AD had on the international trade between Rome and the East (Arabia, India, China). In order to do so, I have studied the area of the Red Sea, ruled for almost seven centuries by the Roman (later Byzantine) Empire. Such area played the pivotal role to connect the Western and the Eastern Worlds, because from the shores of the Red Sea the Roman vessels would leave once a year to the East. Usually, the history of this trade has been divided in three phases. One phase of boom and development, happened between the end of the first century BC and the end of the second AD; a phase of steady decline, occurring during the third century AD; finally, a partial recovery, started in the IV century AD and lasted more or less until the beginning of the VI, during which the level of the trade never reached the peaks occurred during the imperial age. This article focuses mainly on the second phase, trying, through an analysis of the available evidence, to verify whether the concept of 'crisis' is the most appropriate one to describe what occurred during the third century, or it should be rather changed with the idea of a gradual 'transformation' from one phase to the other. [PUBLICATION ABSTRACT]
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