F. Cambi (a cura di), Ida Baccini. Cento anni dopo, Roma, Anicia, 2013.
È opinione condivisa e diffusa che la produzione letteraria per i giovani lettori, in Italia, tra Ottocento e Novecento sia viziata da moralismo, da un persistente richiamo all'ordine sociale e da messaggi caratterizzati dall'invito alla rassegnazione, all'obbedienza ed al rispetto dell'autorità. Tuttavia, non possiamo negare che non sono mancate, pur nell'ambito di questo orientamento (che solo pochi - il nome di De Amicis basti per tutti - seppero infrangere), figure di particolare rilievo, o per meriti letterari straordinari o per le tematiche trattate o per l'instancabile attività di organizzazione della produzione e della diffusione della lettura in mezzo al popolo ed ai ragazzi.
Tra queste figure di rilievo va senz'altro collocata Ida Baccini, che esordì sulla scena letteraria con Le memorie di un pulcino (testo che ancora nei tardi anni Cinquanta del Novecento aveva posto nelle biblioteche di classe e tra le letture consigliate per gli scolaretti) e fu instancabile sia come scrittrice sia come giornalista: tra le sue numerose collaborazioni, che la videro anche intessere relazioni con i letterati del suo tempo, tra cui la Serao e De Amicis, non si può non ricordare il suo lavoro presso "Il giornale dei bambini" e, soprattutto, "Cordelia" cui la Baccini legò il suo nome in maniera particolare.
Se non possiamo negare che la sua scrittura e i suoi orientamenti ideologici la riconducono nell'alveo dell'ideologia conservatrice del secondo ottocento, non possiamo del pari negare che in lei operano alcuni aspetti emblematici della vita intellettuale femminile del suo tempo. Anzi, ciò è tanto più significativo quanto più si ricordi che la Baccini è ben lontana dal fuoco femminista di alcune sue contemporanee. Maestra elementare, trova nella scrittura specie per i ragazzi non solo il modo per difendere una sua visione dell'insegnamento (allineata con le istanze dell'educazione nuova, centrata sul fanciullo, aperta al gioco di contro alle pratiche mnemoniche tradizionali e interessata ai bisogni dell'infanzia), ma anche la via per emanciparsi da un matrimonio fallimentare e da un'esistenza all'ombra degli uomini. E ciò secondo un percorso che accomuna la Baccini ad altre scrittrici: un modo per riconoscere, ancora una volta se mai ce ne fosse bisogno, che il romanzo, nato come genere letterario destinato alle donne, si rivelò, alla lunga, come un interessante ed efficace strumento per la crescita della loro consapevolezza e per la loro emancipazione sociale ed intellettuale.
Per tutti questi motivi non si può non salutare con soddisfazione il volume collaborativo, curato da Franco Cambi, che, a cento anni dalla morte della scrittrice (avvenuta nel 1911), traccia un bilancio della sua attività, dei suoi interessi e della sua visione del mondo. E lo fa ripercorrendo, con il contributo di storici dell'educazione da tempo impegnati nella ricostruzione delle vicende dell'editoria ottocentesca (come, ad esempio, la Salvati o la Betti) o nell'approfondimento dell'opera della Baccini (come Cantatore o Cini, che le ha recentemente dedicato la sua tesi di dottorato) o nella ricerca intorno alla letteratura per l'infanzia ed al contesto intellettuale e culturale della Toscana ottocentesca (come Bacchetti e Cambi).
"I contributi - come ricorda il curatore del saggio -... si tendono tra il generale e il particolare, e lo fanno proprio per dar corpo a una lettura non di superficie dell'opera della scrittrice fiorentina, toccandone i nessi più profondi e complessi, per contestualizzarne la figura e far emergere gli aspetti più propri (e più nuovi, anche) del suo impegno letterario. Ma, al tempo stesso, si affrontano anche temi più specifici e settoriali ma centrali proprio per comprendere in pieno il ruolo stesso svolto dalla scrittrice e l'orma che ha lasciato nell'Italia letteraria (per ragazzi e non solo)" (p. 8).
I fuochi del volume, si distribuiscono, dunque, su tre direttrici: da un lato, si va a ricostruire l'intellettuale Baccini all'interno del contesto culturale toscano, della sua attività di giornalista e di scrittrice (con quattro interventi, rispettivamente di Carla Ida Salvati, Roberta Turchi, Franco Cambi e Flavia Bacchetti); dall'altro lato, si leggono, da un punto di vista pedagogico le sue opere, e in primis le sue fortunate Memorie di un pulcino, con particolare riguardo ai messaggi destinati alle "giovinette", affidando questo squarcio ricostruttivo a Carmen Betti, Aldo Cecconi, Lorenzo Cantatore, Teresa Cini, Karin Bloom, Piero Pacini e Walter Scancarello; infine, si affrontano temi più propriamente biografici che trattano sia della vita personale dell'autrice (Maria Enrica Carbognin e Lia Madorsky parlano della sua maternità fuori del matrimonio) sia, come emerge nell'appendice curata da Teresa Cini, delle sue relazioni intellettuali, in particolare con Giovanni Marradi, che possiamo conoscere attraverso il carteggio qui pubblicato.
Quale Baccini ci restituisce questo composito, articolato e ricco saggio, corredato, tra l'altro di un piccolo, ma pregevole inserto iconografico? Innanzitutto, l'immagine di un'autrice, a cui merita dedicare attenzione per svariati motivi, che mi limito ad elencare, senza, ovviamente, ragioni di tempo, entrare nel merito di ciascuno di essi:
la sua attività, per dirla con Cambi, polimorfa;
il suo valore di giornalista dal piglio molto moderno;
la sua capacità bozzettistica, che si riallaccia a tradizioni toscane di novellistica e di poesia vernacolare (come può un lettore, specie se toscano, non ricordare, ad esempio, il suo contemporaneo e conterraneo Renato Fucini?) e che valorizza la sua prosa spigliata e accattivante;
il suo interesse costante per la scuola ed i ragazzi, con particolare attenzione alle giovanette, come sottolinea la Bloom, e con un atteggiamento in gran parte innovatore, come mette in luce la Betti;
la sua capacità di trattare con garbata leggerezza ogni argomento;
la sua scelta per una "pedagogia dei sentimenti", per usare la definizione efficace della Bacchetti, che enfatizza, in ogni problema trattato ed in ogni situazione narrata, i temi della compassione ed il valore morale, ma anche esistenziale del buon cuore.
Se ne può concludere - e lo faccio con le parole di alcuni degli autori del saggio - che, grazie alla Baccini, l'infanzia viene "liberata dagli orpelli precettistici, dal pedagogismo idealistico denso di messaggi didascalici" (Bacchetti, p. 75) e che con lei si avverte chiara l'idea della scrittura come "esercizio spirituale" e come strumento per il controllo di sé tanto che il diario assume, nella sua prospettiva, il valore e la funzione di "un metodo di educazione" (Bloom, p. 152).
Tuttavia, questi rilievi sono solo una parte dell'interesse che la Baccini può ancora suscitare. Non si tratta soltanto di dedicarsi ad approfondire aspetti della sua produzione, fin qui, rimasti ingiustamente in ombra: è il caso, a mio avviso, molto significativo della manualistica scolastica, su cui, giustamente, Carmen Betti richiama l'attenzione. Si tratta di leggere la Baccini, in qualche modo, come testimonianza esemplare dell'epoca in cui visse ed operò, collocata a cavallo tra due momenti clou della vita nazionale: il periodo immediatamente post-unitario, con tutto il suo carico di problemi irrisolti e con l'involuzione illiberale culminata con Crispi e la carica di Bava Beccaris, da un lato; l'età giolittiana, dall'altro, con le sue spinti innovatrici e liberal-progressiste ed il suo interesse per l'emancipazione popolare in vista di una più ampia partecipazione alla vita politica.
A cavallo tra questi due periodi, la Baccini ne vive e ne soffre tutte le contraddizioni e i dissidi. Tutti i contributi di questo volume non tralasciano di sottolineare come la cifra più significativa degli scritti e dell'azione di questa donna impegnata a farsi strada nella vita, senza, tuttavia, negare i compiti ed i doveri principali della donna (ossia la maternità e la famiglia), sia, in qualche modo l'ambiguità. Ad ogni livello, a partire cioè dalle sue scelte di vita personale. Passiamo, dunque, in rassegna, una per una tali ambiguità, anche se, ovviamente, esse sono tutte radicate in un approccio unitario all'esistenza, che sta a monte di tutte le scelte dell'autrice.
La Baccini, che difende il primato del matrimonio e della famiglia, ciò nonostante, si separa ben presto dal marito legittimo, concepisce un figlio, l'adorato Manfredo, con un giovane di dubbia moralità che sposerà solo nei suoi ultimi anni e da cui vivrà sempre separata, visto che egli ha un'altra donna e un altro figlio, al solo scopo di dare un cognome al figlio che fino a quel momento non ha avuto, all'anagrafe, riconoscimento né di paternità né di maternità; nelle sua autobiografia, uscita però dopo la morte del primo marito, cercherà di attribuire a quest'ultimo, in virtù di un incontro fortuito avvenuto dopo la separazione, la paternità di Manfredo per rientrare nei canoni della convenzione sociale.
A livello pubblico, nella sua professione di "letterata" le ambiguità e le contraddizioni emergono ancora di più. Amica dei letterati del suo tempo, con cui intrattiene rapporti epistolari stretti, sarà però ostracizzata dalla cultura "alta" a lei contemporanea - come, in Francia, accade peraltro anche ad uno scrittore del calibro di Verne -, proprio perché ha scelto un campo d'azione paraletterario, quello del romanzo per i bambini e per il popolo, guardato da sempre con sufficienza dalla cultura accademica. Inoltre, mentre si ritaglia con tenacia ed applicazione una carriera da intellettuale, raccomanda alle sue lettrici giovanette di essere buone madri e buone mogli e di evitare di farsi letterate, dottoresse e saputelle.
Vive nel mondo del giornalismo e dell'editoria con piglio ed atteggiamento moderno, che fiuta le piste più opportune, che inventa perfino strategie che oggi definiremmo di marketing. Si rivela, insomma, anche acuta ed attenta imprenditrice; eppure finisce povera, o quasi. Colpa solo della sua generosità, che raccomanda, praticandola essa stessa con coerenza e costanza? Forse, ma in parte. In parte, le sue condizioni economiche dipendono dal fatto che gli editori non la ricompensano come dovrebbero e guardano solo al loro tornaconto. Tocca alla Baccini la stessa sorte che tocca alla Invernizio: galline dalle uova d'oro per gli editori, le due scrittrici (tutte e due autrici di best e long-sellers, nonché molto prolifiche) vissero una vita di poco sopra la soglia di una dignitosa povertà.
Sul piano letterario, la Baccini scrive bene, con leggerezza e brio, ma scrive decisamente troppo, come riconosce lei stessa in maniera onesta: non ama il labor limae, come ricorda la Salvati; ama le convenzioni e le liete conclusioni delle storie, ma non esita a difendere un sano realismo per i contenuti da offrire ai lettori. E realista è certo, quando, con molta severità e senza mezzi termini, invita le aspiranti scrittrici (che inviano racconti a "Cordelia" nella speranza di vederli pubblicati) a cambiare mestiere ed a studiare la grammatica o quando critica i libri di lettura in voga nelle scuole elementari.
E ancora: la Baccini è profondamente toscana, anzi è figlia di quella Toscanina "paternalistica, equilibrata e conservatrice", in cui nasce e si forma; ne ama la cultura rurale, ma al tempo stesso, come sottolinea Flavia Bacchetti, si proietta (e proietta i messaggi dei suoi scritti) verso una coscienza nazionale, che oltrepassi i confini regionali. Di qui la sua adesione al mondo piccolo borghese dell'Italietta post-unitaria: esso le appare approdo sicuro e modello ideale per una vita senza sobbalzi, dominata dai buoni sentimenti, dal calore degli affetti familiari, da un ordine sociale senza timori di sovvertimenti. Non a caso nel saggio che stiamo esaminando, si evoca il nome di Gozzano per le piccole cose "di pessimo gusto", di cui la Baccini ama circondarsi e per ambienti permeati da perbenismo e da conformismo piccolo-borghese.
E in questo si annida la ambiguità più forte e notevole della Baccini: moderata, convenzionale, ma anche trasgressiva. Lo dimostra il suo femminismo all'acqua di rose, di cui, però, si fa portavoce in maniera continua e costante. All'inizio, forte delle sue idee con una autostima altissima (che la fa sentire in assoluto la migliore scrittrice del suo tempo), essa nega qualunque emancipazione dal ruolo di moglie e di madre. Con il tempo, mentre ridimensiona (anche se cum grano salis) l'opinione che ha di se stessa, comincia ad aprirsi alle istanze dell'emancipazione della donna. Sempre però con cautela e senza il fuoco della passione, che si troveranno in Italia, ad esempio, in Amalia Guglielminetti o in Sibilla Aleramo, tanto per restare al mondo letterario e senza bisogno di scomodare Anna Maria Mozzoni. Si tratta di un femminismo "adelante, con juicio", che cerca di coniugare la tradizione con il futuro che batte alle porte e che, certo, non si può arrestare.
La fanciulla massaia, che deve leggere poco, avere un'istruzione generale senza troppi approfondimenti, ma, in compenso, deve essere piena di buoni sentimenti, deve conoscere lo slancio del sacrificio e donarsi alla famiglia, tuttavia, non è mai superata: resta sullo sfondo a ricordare sempre che, per quanto colta, indipendente economicamente e capace di lavorare a fianco degli uomini, la donna è e resta una creatura naturalmente destinata a "servire", a donare affetto e sicurezza. In una parola ad essere madre. Ma in questo moderatismo, la Baccini non è sola: le educatrici, le maestre e le insegnanti di quegli anni, con poche e note eccezioni, danno le stesse raccomandazioni. Basterebbe pensare a Bice Miraglia che, nel suo Le pedagogiste italiane, nel 1894, esprime sentimenti ed opinioni assonanti con quelle della Baccini ed è in buona e numerosa compagnia, come si evince dai vari "galatei" destinati alle fanciulle ed alle giovinette, in quello stesso periodo e tutti allineati su queste posizioni, per così dire cerchiobottiste.
Con questo non possiamo però chiudere il discorso sulla Baccini o cancellarla dall'orizzonte dell'interesse degli storici dell'educazione e della letteratura per l'infanzia. Resta, infatti, il suo lavoro di scrittrice e di educatrice, volta alla ricerca di un linguaggio e di attività gioiose per i bambini; resta un suo richiamo ad un "socialismo cristiano", che difende in molte sue pagine; resta la sua attività editoriale, quale spazio per dare alla donna una identità anche al di fuori della casa.
Tutto ciò - per finire con le parole di Cambi - la rende figura esemplare di un mutamento letterario e di una metamorfosi educativa. Il che non è affatto poco" (p. 65). Forse, potremmo aggiungere, la strada del mutamento fu additata talora implicitamente o addirittura in intenzionalmente; ma fu, tuttavia, un'indicazione destinata a dare i suoi frutti, anche se con il tempo e dopo molte vicissitudini politiche e sociali per il nostro Paese.
Come non essere d'accordo, dunque, a riaprire un discorso su Ida Baccini, ad approfondire zone del suo lavoro finora meno studiate ed a tenerne viva la memoria?
Luciana Bellatalla
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