Già dal 1945 alcuni intellettuali del Pci cominciarono, sulle pagine di «Rinascita » ma non solo, ad interrogarsi sulle possibili articolazioni della scuola del dopoguerra, dando vita ad un dibattito significativo anche perché rivelatore di posizioni difformi tra gli stessi comunisti. I protagonisti furono studiosi del calibro di Marchesi, L. Lombardo Radice, Banfi, mentre le tematiche principali vertevano intorno all'allargamento dell'istruzione per i ceti popolari, investendo le problematiche connesse al tradizionale tema degli spostati, quei giovani alla ricerca dell'ascesa sociale a mezzo dell'istruzione e perciò potenzialmente destabilizzanti di cui si occupa, tra gli altri, Lombardo Radice. Si discuteva, inoltre, dell'opportunità di conformare la scuola postelementare al modello della cultura umanistica classica oppure di adeguarla alle esigenze tecniche del mondo della produzione. Su questa alternativa le diatribe furono accese sia per la formazione dissimile di un Banfi o un Marchesi, sia perché la scelta di un orizzonte culturale piuttosto che di un altro coinvolgeva l'indirizzo complessivo dell'attività egemonica del partito. La questione della scuola s'inquadrava, infatti, nella più vasta strategia dei comunisti su temi quali il potere operaio, il rapporto con l'ideologia sovietista, l'assimilazione critica di motivi laico-democratici, la scelta del soggetto sociale cui rivolgersi per guadagnarne il consenso. Solo nel '55 una risoluzione del Comitato Centrale espliciterà una posizione chiara ed unitaria, formalizzando delle inequivocabili parole d'ordine. Il '55 è da considerarsi anno-chiave in quanto segna un nuovo corso della politica scolastica del partito di Togliatti, con l'avvio di una specifica rivista («Riforma della scuola»).
L'elemento non trascurabile del confronto è, sia prima che dopo il '55, l'ombra di Gramsci. Questi non poteva del resto non essere tirato in ballo quale fonte di ispirazione di proposte anche tra loro eterogenee. Non che dentro il Pci avvennero nel suo nome conflitti laceranti, ritengo tuttavia utile partire proprio da Gramsci per cogliere le sfumature e gli umori differenti che sino al '55 bloccarono un'organica prospettiva comunista di riforma della scuola. Sfumature che a distanza di molti anni rivelano quanto non corrispondesse del tutto a verità l'immagine del Pci quale monolite stalinizzato, e anzi si avesse a che fare con un organismo che si abbeverava a fonti ideologiche differenti fra loro, in ciò non tradendo la lettera gramsciana. D'altronde, Gramsci era sì convinto (come Labriola) dell'autonomia teorica del materialismo storico, e però rimaneva attento alle elaborazioni degli altri fronti socio-politici anche perché persuaso della necessità di attrarre al moderno Principe intellettuali tradizionali. Ciò che ritengo rilevante è che nelle discussioni che si svolsero sulle colonne di «Rinascita» negli anni '40 e '50 le diverse posizioni, persino quando esprimono punti di vista laico-socialisti, sembrano godere della pezza d'appoggio dello scrittore dei Quaderni. In quegli anni, d'altronde, traspare l'adesione a volte di maniera al mito del sardo più che alla sua filosofia della praxis. E fa problema l'effettiva conoscenza del suo pensiero in un periodo in cui era in corso o doveva ancora avere inizio la pubblicazione delle antologie tematiche (1948-1951). Se per Togliatti la questione non si pone, e se verosimilmente il suo strettissimo entourage era esperto di gramscismo, questo non vale, ad esempio, per gli eretici del «Politecnico»; e ciò nonostante il pastiche culturale vittoriniano riservasse a Gramsci un ruolo di primo ordine, dandogli «l'ultima parola»1. Custoditi da Togliatti prima, in seguito inscatolati in un intelligente quanto criticabile criterio editoriale sino al 19752, i Quaderni diventarono patrimonio degli intellettuali del Pci solo a seguito della pubblicazione delle antologie. E sulla deficitaria diffusione delle idee di Gramsci tra gli intellettuali organici insiste Pruneri nella sua monografia sulla politica scolastica del Pci3. È a partire da ciò che credo vadano interpretati interventi inclini a posizioni attivistiche o a celebrazioni dell'umanismo classico, ossia lontani dalla sostanza della pedagogia gramsciana. Una limpida posizione sulla scuola maturò in corrispondenza con l'impegno a studiare Gramsci e non solo a santificarne la figura di martire. Ed è significativo che la prima testimonianza dei Quaderni, divulgata su «Rinascita» nel '45, sia un passo del Q. 12 in cui si condanna la Riforma Gentile, si critica la separazione dell'istruzione in rami che sanciscono una precoce selezione sociale, si discute del ruolo del latino, insegnamento che educa ed istruisce, veicolo del transfer di apprendimento4. Non sono le uniche pagine dei Quaderni di interesse pedagogico, dato che è possibile dislocare tutto il testo carcerario su quel terreno etico-politico dell'egemonia che è eminentemente educativo.
Posta la centralità del pedagogico nei Quaderni5, non credo di esagerare sostenendo come del Gramsci proponente una riforma della scuola siano state date letture relativamente unilaterali o strumentali. Era del resto problematico tenere insieme: a) gli appelli gramsciani a mantenere viva nelle scuole una cultura disinteressata intrinsecamente formativa; b) il suo giudizio sull'opportunità di curvare l'istruzione verso il «massimo utilitarismo», in direzione di una accettazione dialettica del fordismo ma non esplicitamente di una compartecipazione dei comunisti allo sviluppo del capitalismo italiano; c) la persistente necessità del moderno Principe di esperire un'intensa opera educativa, che il pensatore sardo riteneva fondamentale. Si trattava di vettori che nei Quaderni non sono reciprocamente contraddittori, ma che potevano, come accadde, produrre posizioni che approfondivano una sola tra queste opzioni, magari contrapponendola alle altre. Così, a questi tre corni del ragionamento carcerario si appoggiarono tanto quelli che desideravano mantenere la centralità della cultura umanistica e del latino, temperandone la tradizionale funzione di selezione di classe, quanto chi auspicava un progresso dell'istruzione di tipo tecnico-scientifico, in modo da ottimizzare l'interfaccia tra scuola e lavoro (a guadagno dei ceti subalterni, ma anche a beneficio della potenza economico-produttiva del Paese), quanto, infine, coloro i quali insistevano sull'ineludibilità dell'organizzazione di un partito di massa in grado di formare quadri dirigenti. A proposito di quest'ultima istanza si ricordi come per Gramsci tutti gli aderenti al partito dovessero trasformarsi in intellettuali dirigenti, giacché il partito impersonava il passaggio dalla fase dell'economicocorporativo a quella, superiore, del momento etico-politico dove la «necessità è già diventata libertà» [Q. 7, p. 920], dal particolare all'universale6. Tuttavia, la costruzione di un partito educatore in Gramsci non implicava l'abbandono del terreno scolastico, quasi che la formazione dei quadri esaurisse l'educazio- ne delle masse. Eppure è probabile che un simile fraintendimento influenzò alcune scelte importanti.
Il punto critico del dibattito era, comunque, rappresentato dalla scelta di optare per un modello scolastico classico-umanista piuttosto che tecnicoscientifico, e di tale travaglio le prime annate di «Rinascita» sono una preziosa testimonianza. Sto parlando di due punti di vista non per forza antitetici. Antitetici non sono nei Quaderni, laddove la dialettica tra cultura umanistica disinteressata e necessità tecniche del fordismo è risolta nel nesso tra americanismo e conformismo7, nel senso che Gramsci auspicava una scuola unitaria innervata da un umanesimo moderno che non sottodimensionasse l'insegnamento delle scienze né rinunciasse ad una formazione disinteressata. Talvolta appaiono antitetiche, invece, nelle pagine di «Rinascita».
II
Della posizione sostenitrice dell'importanza, se non dell'insostituibilità, della cultura classico-umanistica, il rappresentante più autorevole fu Marchesi. Per il latinista si trattava di un'esigenza che doveva interessare trasversalmente l'intero corpo sociale. La biografia e la passione ideologica di Marchesi sono note, ma in generale l'adesione al Pci da parte di intellettuali del suo peso s'inquadrava nella strategia non settaria ma espansiva (egemonica) di attrazione ad un progetto politico-culturale di stampo nazional-popolare8. Se Gramsci, dirà Togliatti, era di tutti9, anche il partito da questi fondato e a questi ispirato doveva raccogliere le migliori energie intellettuali del paese. Un liberale conseguente, scriverà Lombardo Radice, non aveva altra scelta che aderire e votare per un partito della sinistra10. Sulla falsariga della necessità di porsi sul piano della volontà e dell'interesse generali, nelle prime fasi del dibattito emerge la volontà, esemplificata dalle parole di Marchesi, di disegnare un modello di scuola auspicabile e sostenibile dalla maggioranza delle forze progressiste. Ragioni di strategia politica coerenti con il teorema togliattiano della democrazia progressiva condizionavano comportamenti collaborativi e obiettivi di medio termine all'insegna di un rinnovamento in chiave moderata, funzionale ad accreditare l'immagine di un partito che, pur legato all'URSS, voleva rappresentare un credibile interlocutore democratico. Si trattava di foraggiare una «trasfusione di sangue nuovo», metafora con cui Marchesi voleva rappresentare l'ingresso nelle scuole delle classi popolari, con il loro portato di capacità ed energie11. Rispetto alla scolarità superiore, quello augurato era tuttavia un accesso riservato ai meritevoli, il che invita a riflettere sulla difficoltà di coniugare scuola di massa e meritocrazia.
Nel suo primo intervento su «Rinascita» il latinista elaborerà il punto di vista dell'intellettuale legato all'universo degli studi umanistici e certo che essi fossero irrinunciabili, ma persuaso al tempo stesso dell'inefficacia di una loro estensione alla maggioranza degli «Istituti superiori»:
La cultura umanistica giova a tutti; il giorno in cui decadesse, sarebbe notte nel mondo. [] c'è nell'uomo qualcosa che non sazia né stanca [e] che [] ci porta in su a ricevere una luce misteriosa che illumina dentro e ci assicura, [] nella tristezza, la felicità. Questo si deve [] alla cultura umanistica che fuori della scuola deve dilatarsi [] più che può; e nella scuola si deve raccogliere e profondamente operare. Un quarto degli Istituti superiori basterà a quest'ufficio. Molti aspiranti filologi, giuristi, storici [] dovranno essere convogliati verso gli studi della tecnica [] Così potrà [] avere un pregio la loro fatica: e l'aria dell'Università sarà meno rarefatta12.
Marchesi partiva dalla condanna dell'Università del fascismo. La critica muoveva dalla constatazione che in essa l'insegnamento si fosse ridotto ad una «ricerca interessata» per un verso, ad un'erudizione fine a se stessa per l'altro. Per lui bisognava, cioè, porre sotto tiro l'erudizione nozionistica che, nel contesto di una «orgogliosa clausura», si estranea dalla «vita popolare e nazionale», dimenticando come l'autentico fine della scienza sia la «perpetua ricerca di un bene comune». A suo parere, la cultura umanistica non implicava il distacco tra la scuola e la vita, ed era scorretto declinarne la diffusione come se essa fosse la chiave di accesso per entrare a far parte di una casta chiusa, moralmente indifferente alla maniera in cui lo furono gli intellettuali tradizionali. Proprio la cultura disinteressata, in quanto educativa e formativa, sarebbe per Marchesi funzionale alla formazione di intellettualità attive. Ma c'è un'allusione che nel testo è centrale. Essa concerne la questione degli spostati ed accompagnerà gli iniziali interventi di «Rinascita», dimostrandosi sintomatica di una ritrosia ad accettare le sfide della scolarizzazione di massa. Gli spostati equivalgono a quelle figure, per citare il Sella menzionato da Marchesi, che «attendono ad un ufficio intellettuale mentre non ne hanno attitudine». Nell'ottica del latinista il problema non investe esclusivamente una «crisi di eccedenza», ma anche di «carestia»13. Spostati sono pure coloro i quali, non disponendo di «istruzione o capitali, sono costretti a lavori manuali, mentre in essi la potenza intellettuale è di gran lunga maggiore della forza materiale». Le cose, insomma, «andrebbero assai meglio se tutti fossero al loro posto». Come Marchesi amava ripetere, le porte delle Università non andavano spalancate, ma socchiuse. Affinché esse non si trasformassero in «uffici di collocamento»14, andava limitata «l'esigenza della laurea» ove fosse stato sufficiente un diploma. Il tema degli spostati si lega inoltre alla discussione sul latino nella scuola dell'obbligo, facendo insorgere problemi circa il rapporto scuola/società: se la prima possa licenziare soggetti capaci non semplicemente di riempire posizioni prevedibili all'interno del sistema sociale funzionalmente differenziato ma di produrne di nuove, o se al contrario non vi siano per ciascun ramo professionale una serie di posti oltrepassata la cui misura scatta un fenomeno di sovraffollamento che è elemento di «disfacimento»15 della società tutta. La questione-spostati aggancia, dunque, quella della mobilità sociale, richiamando motivi che nel '55 la relazione di Alicata al C. C. rivoluzionerà non poco. Ma gli antefatti di un mutato atteggiamento li si può rintracciare in un articolo di Bianchi Bandinelli del '5116 o in interventi degli anni '40 di Banfi, il quale appare il vero interlocutore critico di Marchesi. Il loro dibattito ripropone lo scontro tra due anime del Pci che si erano già manifestate durante la Resistenza17.
Tematizzando preoccupazioni circa il surplus di figure licenziate dal sistema educativo ma non assorbibili nel mercato del lavoro, si rischiava di rilasciare l'immagine di un'eccessiva fissità dell'universo lavorativo, che anche allora non mi sembra fosse del tutto acclarabile. Che questo problema assillasse i migliori cervelli del Pci non deve stupire. Che essi sottovalutassero l'imprevedibile fluidità delle interrelazioni tra mondo della formazione e della produzione è rimarchevole. Ma poi, è davvero possibile parlare di attitudini in ragione delle quali sarebbe meglio che tutti restino al proprio posto? Non aveva Gramsci messo fuori gioco i tentativi di discutere di doti naturali sulla cui base orientare lavoro e formazione? E non dovevano essere proprio i comunisti a rovesciare il punto di vista sugli spostati per fare del fenomeno della disoccupazione intellettuale18 materia di conflitto politico? Così è in alcuni interventi di Banfi, laddove questi sottolinea problemi di sistema più che di scelte individuali19, non in quelli di Marchesi. D'altra parte, la querelle sugli spostati interroga le ideologie progressiste comunemente accostate al miraggio dell'istruzione. Per dirla con Luhmann e Schorr, mette il fronte (della pedagogia) progressista di fronte all'esigenza della selezione e della razionalizzazione del dispositivo degli esami (di cui Marchesi è consapevole20), al pericolo che le misure anti-spostati colpiscano chi è in possesso di deficit culturali di partenza e producano fenomeni di riproduzione (mascherata democraticamente) dell'esistente. Comunque, Marchesi non intende risolvere la selezione dei meritevoli nell'esclusione delle classi popolari dall'istruzione d'élite. Selezionare, dirà, «non vuol dire costituire la folla dei reietti e degli umiliati, ma disperdere quella degli spostati»21.
In un intervento del Novembre del '45, che Pruneri considera emblematico della ricorrenza tra gli intellettuali del Pci di motivi laico-socialisti in ragione dell'indiretta conoscenza di Gramsci22, Marchesi riproporrà i temi del precedente scritto, facendo però riferimento alla scuola nei suoi «primi gradini». Raffigurerà così un'istituzione sì aperta a tutti, ma caratterizzata da grande rigidità ed aliena dal facilismo, «nello stesso tempo educatrice e severa selezionatrice dei valori individuali». Era abbozzato un modello di scuola che, dandosi il fine della realizzazione dell'emancipazione attraverso l'accoglimento dei figli delle classi subalterne ed il prolungamento dell'obbligo, non doveva per questo trasformarsi in un organismo culturalmente squalificato. Ancora il cortocircuito che l'ingresso delle masse avrebbe prodotto nel sistema educativo non era assunto nelle sue caratteristiche strutturali. In questa occasione l'obiettivo di Marchesi è configurare una scuola media unica. È su questo piano che il latinista si aggrappa indirettamente alle critiche gramsciane al facilismo, che non si comprendono solo per l'astio del sardo verso le pedagogie libertarie. Le facilitazioni, che all'apparenza vanno incontro a rivendicazioni dei ceti popolari, per Gramsci non fanno che assecondarne il primitivo senso comune. Non è per lui casuale che i gruppi subalterni, abituati al solo lavoro manuale, considerino le difficoltà scolastiche alla stregua di trucchi. Ma proprio le facilitazioni, svalutando i titoli di studio e consegnando il risultato del conflitto per la vita e per la morte alla naturalità del mercato del lavoro, oppure rimandandolo a un ulteriore stadio della formazione, finiscono per favorire coloro i quali non ne avrebbero avuto bisogno, danneggiando i richiedenti. Già il Gramsci giovane auspicava per il proletariato robuste misure di rinforzo culturale; altrettanto nota è la sua contrarietà verso le soluzioni scolastiche professionalizzanti che ratificano l'eternità della divisione asimmetrica del lavoro. E sembra chiaro come questi argomenti possano fungere da punto di appoggio per una difesa del latino e una sua riconsiderazione non quale strumento di selezione sociale. Marchesi, dissentendo con i sostenitori di una precoce biforcazione che aggirava il problema di una vera scuola media unica, proponeva così una postelementare che non lasciasse fuori il latino. Il suo studio si configurava per lui quale faccenda emancipativa, se è vero, come dichiarò nella relazione alla prima Sottocommissione dell'Assemblea Costituente, che l'«alfabeto» è «potente nemico della miseria economica»23. Ma dietro l'affermazione si celava una concezione della cultura quale veicolo di elevazione dei più meritevoli tra i ceti popolari, ed è istruttivo controllare quale distanza vi sia con le coeve prese di posizione di Casagrande, che nel '47 dava forma ad un'impostazione più rivoluzionaria, tale per cui la borghesia esercitava la lotta di classe dentro gli stabilimenti scolastici, usando per gli obiettivi di conservazione del privilegio la cultura classica, ed il proletariato, il cui fine era il rovesciamento dei rapporti capitalistici, avrebbe dovuto fare altrettanto servendosi di altri modelli. Per Casagrande, la cultura è e deve essere strumento di lotta politica, per Marchesi di elevazione spirituale dell'«umanità» come dichiarò in un'intervista per il «Politecnico». Non intendo soffermarmi sui motivi casagrandiani, essi sono tuttavia paradigmatici delle posizioni che da lì a pochi anni la nuova sinistra avrebbe sviluppato. Questi motivi tracciano, secondo me, un solco profondo non rispetto a Gramsci, ma a Marchesi e Togliatti. Da un lato, ed in un'ottica di classe, l'acquisizione del dato culturale ha un'immediata ricaduta politica; dall'altro la cultura è fonte di emancipazione dei singoli più meritevoli provenienti dai ceti subalterni. Per un verso ci troviamo di fronte ad una versione sovversiva della mobilità sociale (positiva perché destabilizza l'esistente, ne fa maturare le contraddizioni), per l'altro ad una versione debole, in parte ancora elitaria. Da una parte la configurazione, seppur nebulosa, di una cultura alternativa e operaia, dall'altra il mantenimento, a tratti la difesa, dei valori culturali della borghesia spacciati come prerogative dell'uomo di ieri, di oggi e di domani, di un modello di humanitas ammantato del vello dell'eternità. La polemica di Banfi o anche di Preti24 nei confronti di Marchesi in fondo si concentrava proprio su questa «astratta idea dell'Uomo»25. Al contrario di Marchesi, Banfi ravvisava, infatti, i rischi insiti in un «ideale di humanitas » che trascendeva la vita e tradiva la funzione sociale della scuola. Perciò rivendicava un umanismo che penetrasse l'esistente con «esperta tecnicità», un umanismo «critico e storicamente esperto», un nuovo «illuminismo umanistico », moderno e «realistico»26.
Marchesi rivendicava l'utilità morale dello studio delle lingue morte ribadendo la necessità, negli anni che precedono la scelta di una scuola che instraderà ad una professione, di un insegnamento che, non giovando in modo diretto a nulla, «può giovare alla persona umana nel rivelarla a se medesima e agli altri e nell'orientarla pei sentieri della vita». È allora il mito dell'immediata utilità che va messo in discussione. Ciò che per Marchesi andava rifiutato era un modo di pensare la separazione dell'istruzione e dell'educazione tale per cui, una volta veicolato un qualche banale insegnamento educativo sufficiente alla formazione del buon cittadino, si doveva insistere con rapidità nel dispensare un'istruzione utile, alla resa dei conti composta di nozioni destinate ad essere altrettanto rapidamente dimenticate. Per Marchesi, l'«arma della nozione utile, nelle scuole che dovrebbero essere educative e formative, è facilmente spuntata quando si» consideri «ciò che si è scordato e ciò che è rimasto degli anni del tirocinio scolastico». Il cancro della scuola del fascismo, ossia la priorità assegnata ai fini della «utilità» (portato dell'irrazionale «fascino della tecnica moderna»), si risolveva infine nell'anteposizione dei « valori materiali a quelli del pensiero», di «ciò che serve alla prepotenza dell'uomo a ciò che serve alla sua elevazione», ma lo studio del latino possedeva i requisiti per fungere da cura efficace a questo impoverimento spirituale. Il latino si presentava, nelle sue parole, come una favola riecheggiante il «mito» della storia, capace di parlare allo «spirito» dei giovani scolari. E «se la conoscenza della lingua latina dovesse decadere», scriveva, «sentiremmo spezzato il filo ideale che ci congiunge al passato»27. Per di più, lo studio del latino poteva, per Marchesi, aiutare a parlare e scrivere meglio in italiano. Tesi messa in discussione da Banfi28, ma che ebbe un peso al momento di varare l'articolazione curriculare della scuola media unica nel '63. Questa prevedeva, al II anno, che una «parte incidentale» dell'insegnamento dell'italiano fosse costituita da pochi elementi di latino, sì da illuminare le affinità con la lingua moderna e potenziarne l'apprendimento. Ciò, ricorda Santoni Rugiu, era visto come un «invito [] a ripristinare il latino per tutti» e «non pochi professori nostalgici profittarono per riattivare l'insegnamento di rosa rosae quasi come prima»29.
Gli argomenti di Marchesi richiamano quelli del Q. 12. Lì si sottolineavano le funzionalità pedagogiche del latino: l'averlo studiato in gioventù avrebbe prodotto giovamento anche in occupazioni intellettuali estranee ad esso. Sennonché, nella preconizzazione della scuola unitaria Gramsci fu propenso all'abbandono del latino ed alla ricerca di un suo equivalente funzionale. Nel mondo fordista era lo studio del latino a rivelarsi un'arma spuntata. Il presupposto qui è che la validità di uno strumento vada giudicata sulla base di determinazioni di ordine storico-sociale. Era il Valentino il Principe utile ad unificare e fortificare una volontà nazional-popolare, il suo posto deve oggi (l'oggi di Gramsci) essere preso dal partito politico; sbagliava Bucharin a ritenere le filosofie passate come puro delirio, giacché esse, in quanto affermatesi, avevano svolto una qualche funzione storica, ma oggi (l'oggi di Gramsci) è la filosofia della praxis a rappresentare la filosofia progressiva. Per di più, nulla assicura circa la durevolezza dello stesso materialismo storico, in quanto anch'esso è storicamente a termine. Se un comunista pensava alla propria ideologia come transitoria, figuriamoci se il medesimo dispositivo non dovesse valere per lo studio precoce della lingua latina. Gli argomenti del Q. 12 sono, per altro, identici a quelli che dalle colonne dell'«Avanti» si ergevano a difesa dello Schultz, la grammatica latina su cui Gramsci aveva studiato30. Sono le conclusioni a cambiare. Il Gramsci maturo non è più solo l'appassionato della cultura classica, ma l'osservatore di tendenze che implicano la modernizzazione dell'impianto culturale e scolastico. Come per Marx l'uragano del capitalismo industriale non poteva esser combattuto a mezzo di un'utopica restaurazione dell'artigianato, così la marea fordista non appare a Gramsci avversabile mediante la riproposizione di modelli di vita e di individualità antecedenti alla meccanizzazione dell'esistenza. Allora spesso si sovrappongono posizioni non sovrapponibili: quella giovanile (la difesa dello Schultz) e quella matura. Marchesi, schierandosi a favore del latino, lo farà più sulla scorta della prima che della seconda, che pure non manca di citare.
Non voglio dire che questi trascurasse le esigenze tecniche della produzione. Per Marchesi non era vantaggioso ampliare le scuole dispensatrici di cultura umanistica, tutt'altro. Così, in un intervento del '48 si dirà favorevole ad un approfondimento e ad una contrazione delle scuole classiche, che dovevano essere «poche e buone»31. Di nuovo si trattava di tematizzare il problema degli spostati, di porre rimedio alla «obesità universitaria», alla moltiplicazione spropositata di laureati e diplomati cui corrispondeva una mancanza di tecnici o di operai qualificati. Come sosterrà nel '49, andava ridimensionata la scuola classica, ottimizzata l'istruzione tecnica superiore e ridotto e concentrato «per i suoi fini umanistici» lo studio del latino. Questo testo potrebbe esser considerato, non dico una rettifica, ma un allineamento con le posizioni che si affermavano all'interno del Pci. Si può ipotizzare che il fronte comunista andasse avvertendo l'intimo legame tattico tra la difesa del latino e le forze conservatrici, come se l'aspirazione ad una scuola media unica e l'auspicio del mantenimento dell'insegnamento del latino per tutti cozzassero inesorabilmente32. Nella fase che accoglie i primi interventi di Marchesi su «Rinascita», rispecchianti il punto di vista del Togliatti uomo di cultura, la difesa del latino sembra ancora possibile. Erano, forse, le condizioni di fatto a permettere di rivendicare la funzione del latino quale veicolo di elevazione intellettuale dei subalterni. Ma nel '49 Marchesi è costretto ad ammettere la difficoltà per i comunisti di sostenerne la difesa a tutti i costi. Così va compiendosi l'avvicinamento ufficiale a posizioni come quella di Lombardo Radice che, già nel '45, nello studio delle lingue morte denunciava l'«inflazione»33. Le parole del Marchesi del '49 mi paiono poco equivocabili:
Il latino ha un gran posto nella storia della civiltà e nella educazione dello spirito; ma non è ingrediente che si debba somministrare per forza e in fretta; e bisogna aspettare ancora un poco per farlo entrare, se deve entrare, nel circolo della cultura scolastica nazionale. Per tante cose dovremo attendere. []. E se ci sarà qualche ingegnere che [] non abbia da dimenticare [] il latino, non sarà, almeno per oggi, grave danno34.
III
La figura di Lombardo Radice nel dibattito preso in considerazione è importante quanto quella di Marchesi, se si vuole gli è speculare. Ne rappresenta non tanto l'antagonista quanto il moderato critico che riconduce il Pci sul terreno della modernizzazione del Paese e del suo impianto scolastico, insistendo sulla necessità di far fermentare una classe operaia in possesso di strumenti tecnico-scientifici tali da migliorarne le condizioni di vita. Ciò all'insegna dello slogan: «fine del privilegio scolastico, scuola per tutti e uguali possibilità per tutti nella scuola»35. Il suo punto di vista del '44, sottolinea Pruneri commentandone un articolo sull'«Unità», s'aggancia al modello politecnico esibendo una radicale critica dell'impianto scolastico tradizionale ed una predilezione verso esempi quali erano quelli delle esperienze di auto-formazione operaia vissute nel corso della lotta partigiana. Il che sfociava nella configurazione di una scuola che, occupata in quantità sempre più significative dai ceti popolari, doveva assomigliare ad una «fervida officina»36. Nel II numero di «Rinascita » del '45, questi imposta il discorso sulla scuola mettendo in relazione «la questione particolare della immissione di energie nuove, tratte dalle classi lavoratrici» con il «problema generale dei compiti [] della scuola nell'opera di ricostruzione nazionale». Egli pone, cioè, il «rinsanguamento» proletario dell'istituzione scolastica quale presupposto della ripresa italiana. Il suo ragionamento, tuttavia, non mi pare nella sostanza in continuità con l'articolo del '44. Qui non solo Lombardo Radice fa proprio l'imprinting togliattiano a ragionare in termini nazionali di ricostruzione, ma rimanda al fenomeno degli spostati. Sebbene toni e prospettive assomiglino a quelli di Marchesi, la soluzione disegnata è difforme. Secondo Lombardo Radice, la spostatezza coinvolgeva i ceti popolari non solo nella misura in cui ne segregava le energie intellettuali nel lavoro manuale, bensì soprattutto perché li strappava dai campi, dalle botteghe, dalle fabbriche «non per farveli rientrare con più alta qualifica o capacità direttive, ma per trasformarli in elementi improduttivi che cercano il posto». Proprio la gravità del fenomeno avrebbe dovuto disincentivare una scuola di massa incentrata sulla cultura classico-umanista. Chiudere, «soprattutto nelle cittadine rurali», licei, ginnasi, magistrali gli appariva dirimente giacché diversamente si sarebbe alimentata una versione pericolosa del mito della mobilità sociale, come se il latino per tutti costituisse l'ascesa sociale possibile dentro una cornice che restava capitalistica37. Ora, il punto di vista a partire dal quale vanno analizzati interventi di tal fatta è quello dell'orizzonte sociale entro cui si ritiene possibile articolare determinate proposte. Scommettendo sul ruolo nazionale, popolare più che di classe, del Pci, è consequenziale rimandare la modifica radicale del sistema educativo in un futuro in cui le condizioni la permetteranno. Non deve stupire, perciò, che anche Lombardo Radice declini il rapporto scuola/società attraverso modi che non danno particolare risalto alla capacità della prima di produrre energie tali da scompaginare l'articolazione dell'universo produttivo. Eppure egli dimostra di essere al corrente di ciò che oltreoceano s'era sviluppato in termini di elaborazione pedagogica. Penso al Dewey di Democrazia e educazione che, riprendendo il quesito circa il rapporto scuola/società, attribuiva alla prima un ruolo non passivo38. Per certi versi vi era un'identità di vedute tra Marchesi e Lombardo Radice sfociante in conclusioni differenti: posto un quadro sociale capitalistico, inteso il comunismo quale fase successiva al socialismo anziché quale mezzo che abolisce lo stato di cose esistenti, accolto da diverse angolature il disegno della democrazia progressiva, si sceglieva un riformismo debitore di Salvemini o un rivoluzionarismo in odor di sovietismo. Si trattava, in entrambe le versioni, di un punto di vista non sempre aderente all'insegnamento gramsciano, che configurava la plastica duttilità delle relazioni tra base e sovrastruttura e approfondiva la circolarità dell'azione reciproca. Se è vero, come aveva scritto Gramsci, che la riforma morale e intellettuale è anche una riforma economica, ciò non significava riprodurre visioni dialettiche della totalità sociale occupate da elementi condizionati ed elementi condizionanti, ma cogliere la circolarità di un rapporto.
È importante rimarcare come Lombardo Radice si concentrasse sull'ottimizzazione della relazione formazione/lavoro. Dal suo punto di vista risultava astratto discutere «della frequenza a sette-otto anni di scuola media, più o meno umanistica, [] dei figli del popolo». La vera urgenza era perfezionare funzionalmente la loro scolarizzazione. L'istruzione professionale, separata dalla produzione e condannata a riprodurre una libresca «mezza cultura di tipo umanistico», era da riformare e a tal proposito egli non escludeva il «concorso delle iniziative degli organismi industriali e delle grandi organizzazioni sindacali », auspicando l'insorgenza di «scuole di fabbrica, di cantiere, di fattoria un po' dovunque, con quel minimo di controllo statale indispensabile per evitare la superficialità»39. Proponeva, perciò, di istituire corsi speciali in parte finanziati dalle aziende e riservati a giovani studenti-lavoratori (magari selezionati dai sindacati). Ancora si trattava di un differente modo di affrontare la questionespostati senza che si desse un mutamento di sostanza dell'impostazione. Questi corsi speciali, che trovarono l'avallo di Bianchi Bandinelli40 e di cui Lombardo Radice lodava la funzionalità e la capacità di essere veicoli di emancipazione, non rischiavano di essere un canale privilegiato in negativo per settori che non avrebbero avuto accesso all'istruzione dalle élites? E non era proprio Gramsci a biasimare le proposte di scuole popolari animate da intenti meritevoli e tuttavia foraggianti la riproduzione di una doppia cultura? Gramsci guardò con attenzione all'istruzione tecnica casatiana, ma ciò non implicava che le scuole popolari diventassero il principale terreno della battaglia scolastica dei comunisti.
In ogni modo, già nel '48 Lombardo Radice fa sua la posizione del Gramsci che lamentava la cristallizzazione in forme cinesi delle differenze sociali connesse alle scuole professionali. Sempre in quella occasione recupera il punto di vista del pensatore sardo sull'importanza che lo studio dei giovani si strutturi intorno a contenuti culturali disinteressati41, senza per forza identificarli con il latino. Come aveva scritto nel '46, il latino nella scuola media non andava considerato in sé un salutare contrappeso a quel verbalismo della nozione utile che sembrava a molti la cifra distintiva dell'insegnamento scientifico. A tal proposito, sottolineava la consuetudine crociana della cultura italiana a svalutare la scienza quale astrazione funzionale alla classificazione e produttrice di «pseudo-concetti [] empirici o rappresentativi». Tale errata impostazione faceva sì che l'insegnamento della scienza si muovesse lungo i binari di un ari- stotelismo metodologico che non si avvaleva dell'uso dei laboratori, preferendo un approccio mnemonico, senza l'integrazione della conoscenza diretta e riducendo lo studio della scienza, scriveva Giuseppe Lombardo Radice, ad una grammatica astratta della natura. In ragione di un'arretratezza concettuale che perseguiva a separare le scienze della natura da quelle umane, mantenendo discrete la teoria e la pratica, la scuola e l'«industria», i corifei degli insegnamenti scientifici venivano considerati neofiti invasati del culto della tecnica. Ed in fondo rispondevano a verità, secondo Lombardo Radice, le obiezioni di coloro i quali ravvisavano in questa tipologia di studio scientifico i rischi del verbalismo nozionistico e, all'opposto, dell'errata controrisposta praticistica42. Sennonché «il pericolo del verbalismo e del gretto praticismo [] non è [] connaturato all'insegnamento scientifico come non è [] evitato dal latino in sé»43. Verbalismo e praticismo derivano dalla fraintesa assunzione della scienza come studio di «fatti», quando invece essa è studio di «processi» e «rapporti»44. Una volta assunta un'impostazione storicista della materia scientifica, cadrebbero le obiezioni sul nozionismo del suo studio, mentre la scelta di inserire il latino nella scuola per tutti verrebbe vincolata al quesito circa le condizioni in base alle quali esso può sviluppare «l'intelligenza, il gusto, la personalità». Ebbene, sulla scorta di argomenti di marca attivistica (l'Emilio, Dewey, il movimento delle scuole attive e quello italiano della scuola serena) Lombardo Radice afferma l'impossibilità di interessare un dodicenne allo studio della grammatica latina, che può solo essere conformisticamente imposta. Ai fini dello sviluppo psico-fisico del ragazzo, ciò restringerebbe le possibilità di elaborare altre capacità ed interessi. Ecco perché il latino andrebbe studiato «tardi e molto seriamente, non presto e superficialmente»45. Ed è significativo che nella rivista formalmente ispirata dall'insegnamento di Gramsci appaiano argomenti cari a Ferrière qual è quello dell'interesse naturale del fanciullo.
Come Marchesi andò pubblicamente attenuando l'afflato verso l'insegnamento classico, così Lombardo Radice, discutendo nel '51 dell'opera della Montessori, finirà per adeguarsi alle indicazioni gramsciane in merito all'attivismo. Appena un anno dopo, del resto, Dina Bertoni Jovine commenterà il Poema pedagogico di Makarenko in chiave apertamente anti-rousseauiana, approfondendo quello che Pruneri vede come invadente sovietizzazione del Pci46. Tuttavia, più che ad un'aderenza acritica a posizioni sovietiche, l'orientamento anti-attivistico mi pare risponda ad una posizione pedagogica marxista e gramsciana. Per discutere dell'opera della Montessori, Lombardo Radice citerà una lettera gramsciana in cui la teoria degli interessi naturali è polverizzata dall'assunzione dell'uomo quale integrale «formazione storica ottenuta con la coercizione». Sulla scorta dell'insistenza gramsciana sulla funzione del maestro, Lombardo Radice contesta la predeterminazione ambientale del metodo-Montessori e giudica nozionistico il modo spontaneo del bambino di imparare le cose del mondo. Egli ritiene inoltre che l'attività del fanciullo montessoriano sia contraddistinta in un senso monadico, con l'esclusione del livello collaborativo che risulta propedeutico per l'ingresso nella società civile come nella societas rerum. Anche nel caso dell'ambiente ex ante educato della Montessori, la via della sua assimilazione diretta non può sostituire l'intervento dell'insegnante. È l'impianto naturalistico dell'attivismo che viene portato al banco degli imputati, il mito, cioè, del buon selvaggio che non tiene conto del fatto che «la natura dell'uomo è la società». Seguendo il ragionamento di Lombardo Radice, la libertà propugnata dallo spontaneismo della Montessori sfocia in un «assorbimento spontaneo dell'ambiente» ed in un «adattamento spontaneo all'ambiente». Così accade il rovesciamento di un principio che si pretendeva emancipativo, in quanto la spontaneità si risolve in una «tecnica della passività spirituale», nell'assorbimento dell'ambiente e del suo primitivo senso comune. Sennonché, nella Montessori accanto allo spontaneismo naturalista sta, in un accostamento che appare contraddittorio, l'ipostatizzazione della tecnica e della didattica. Queste ultime servono per ottimizzare l'assorbimento dell'artificiale ambiente educativo da parte del fanciullo. Ma proprio il dispositivo entro il quale l'esperienza della libertà dovrebbe avere luogo rende «puramente meccanica»47 l'attività spontanea, come avrebbe detto Gramsci.
IV
Nel '55 alcune circostanze politiche - tra esse la consapevolezza di non avere adeguatamente attenzionato le lotte dei docenti, soprattutto delle scuole medie, lasciandole al fronte cattolico - condiziona il dibattito tra gli intellettuali del Pci. La testimonianza del cambiamento è raccolta nel volume di Alicata che ospita la risoluzione del C. C. e la relazione finale della Commissione sulla riforma istituita presso l'Istituto Gramsci. È in questa occasione che si consuma la presa di distanza dall'ipotesi di sostenere l'insegnamento del latino. La riunione del C. C. recepì fedelmente le indicazioni della Commissione: assumendo come consuetudine il testo costituzionale quale piattaforma strategica, esse rappresentano un'unitaria presa di posizione su temi intorno ai quali ci si era anche scontrati. In alcuni dei loro interventi Preti o Banfi erano, di fatto, andati ad impattare con Marchesi mettendo indirettamente in discussione l'indirizzo culturale di Togliatti, e questi, pur essendone amico, guardava al filosofo del razionalismo critico con prudenza, se non «freddezza»48. Quella del latino non era, insomma, questione di ingegneria scolastica o di scacchistica mentale, concernendo l'articolazione del rapporto tra base e sovrastruttura49.
S'è detto della «freddezza» nei confronti di Banfi, eppure mi pare che Alicata ed il gruppo dirigente del Pci finirono per accoglierne le posizioni, né troppo rivoluzionarie né ancorate ad un tipo di cultura elitaria, inquadrandole in una cornice gramsciana. Sinteticamente, nel '55 si giunse alla conclusione dell'indispensabilità di una postelementare obbligatoria, suddivisa in due tronconi che si sarebbero dovuti riunire, assimilandosi reciprocamente e sfociando in una vera scuola media unica dal carattere formativo ed orientativo. In vista dell'obiettivo del congiungimento, erano proposti percorsi di avvicinamento che obbligavano, nella scuola dell'avviamento al lavoro, un progressivo ridimensionamento dei contenuti specializzanti; nella scuola media unica richiedevano, invece, l'introduzione delle scienze naturali, declinazione curriculare del gramsciano ingresso nella societas rerum. Veniva poi messo fuori gioco il «vecchio equivoco idealista» secondo cui siccome solo un'élite era «capace di elaborare scientificamente gli elementi della verità», allora alla massa andavano dispensati miti o elementi fantasiosi50. Tutti temi banfiani: era stato il filosofo a insistere per sottrarre l'insegnamento scientifico dall'apparenza di un sapere informativo e per restaurare la consapevolezza dell'intimo nesso tra cultura e tecnica. Ne veniva, in Banfi, un'idea di cultura che:
abbraccia e sorregge l'attività dell'uomo nella sua integrità, è coscienza dell'operare umano in tutte le sue forme, che illumina e feconda d'umanità la tecnica come l'arte, la politica come la scienza, l'economia come la filosofia []. Ed è cultura collettiva, non privilegio di un'aristocrazia intellettuale, e neppur cultura popolare diluita e neutralizzata attraverso il filtro di una banale divulgazione. È [] collettiva nel senso che tutti ci cooperano, ch'essa circola per tutto il corpo sociale, ed ognuno v'apporta vita di richieste, di soluzioni, di problemi, di studi, di esigenze, d'opere, di dubbi, di creazioni, d'esperienze. Una cultura non culturistica, ma vivente51.
Soprattutto, la relazione della Commissione prevedeva l'abolizione del latino. Senza ammiccare a propensioni faciliste e liberandosi dall'immagine del Gramsci «latinista», non si rinunciava, nella scuola dell'obbligo, ad un impianto umanistico. Si alludeva però ad un umanesimo moderno; un umanesimo non già «fossile retorico formalistico» ma «vero», basato su una concezione scientifica e non «scientista» del mondo52. Banfianamente e marxianamente, bisognava assumere l'umano non sulla base di un'essenza metafisica quanto piuttosto per ciò che questi fa. Per intenderci, Banfi, lamentando la «sufficienza culturalista» delle «humanae litterae» insegnate alla maniera gesuitica, non voleva passare per un «iconoclasta», ma ribadire quanto poca humanitas fosse rimasta nell'insegnamento di quelle litterae53. A dimostrazione di una concezione che tematizzava senza dogmi meccanicistici relativi al rapporto base/sovrastruttura la relazione tra scuola e società, Banfi non attribuiva allo studio della classicità un ruolo in sé positivo o negativo. Sosteneva solo che la decadenza della cultura borghese, riflesso di una fase capitalistica che non permetteva più alla borghesia le tensioni universalistiche degli inizi, comportava la decadenza dell'insegnamento del latino. Per motivi congiunturali, l'opposizione si dava tra il «cadavere di un umanesimo superato» che assolveva ad una funzione di classe ed il «dinamismo progressivo della civiltà moderna ». E diventava necessario potenziare l'insegnamento scientifico giacché ciò rispondeva ad un obiettivo politico: riconsegnare alla classe operaia un sapere socialmente utile e rivoluzionario. La dialettica tra cultura umanistica e moderna non era risolta a favore di uno dei termini: dal momento che per Banfi scienza era sinonimo di verità esemplificata dalla figura dell'homo sapiens, tecnica sinonimo di «lavoro costruttivo» esemplificato dalla figura dell'homo faber, esse erano solo artatamente in contrapposizione con l'umanesimo, rappresentando «l'atto stesso dell'umanità»54.
In questa fase, un mutamento di rilievo riguarda anche l'interpretazione del fenomeno-spostati. Si assiste all'abbandono di una polemica che era un portato di un dibattito dell'area laico-socialista e costituiva un punto debole della strategia comunista poiché l'ancorava a superate immagini della società. Prima del '55 si potevano riscontrare solo segnali di un cambio di rotta. Le parole di Alicata di fatto quasi ribaltano, invece, le posizioni di Marchesi dei primi numeri di «Rinascita». Alicata discute di disoccupazione intellettuale non di spostati, trasferendo la critica sul terreno dell'arretratezza della struttura economico-produttiva piuttosto che su quello di una perversa psicologia degli italiani propensi alla smaniosa ricerca del posto. Gli esiti turbolenti della scolarità non erano più assunti come negative risultanze dell'incapacità di restare al proprio posto, bensì quali manifestazioni della «spinta dinamica degli strati popolari verso la scuola», che destrutturava l'istruzione elitaria e la so- cietà di classe55. Ed ancora era Banfi, insieme a Gramsci, a fornire i motivi più significativi in ordine ad una valutazione negativa della selezione scolastica, che da indicatore di un'istituzione in salute diventava segnale preoccupante. Indicatore positivo era, al contrario, l'ampliamento della popolazione scolastica, assunto quale realizzazione, scriveva Banfi, di un «diritto civile»56, sebbene ancora nel '51 egli ricorra al termine spostati57.
In questa direzione di rinnovamento si muove, infine, l'allusione a sopprimere l'insegnamento del latino pure negli Istituti Magistrali, liberando così tempo per altre discipline più professionalizzanti e superando la vacuità degli insegnamenti di lingue morte che rappresentavano degli «alibi per l'ignoranza delle cose vive»58. Ciò nell'ottica di una mutata consapevolezza del ruolo dell'insegnante e per l'urgenza di liberarsi dell'antica canzone gentiliana del sapere che significa anche sapere insegnare. Proprio in opposizione all'attualismo, il nuovo indirizzo del Pci intendeva riempire i tempi liberati dal latino con un insegnamento della pedagogia che non doveva più rappresentare un'«appendice trascurabile [] della filosofia». La pedagogia andava, cioè, intesa anche «come didattica e metodica»59, cessando di «far la cenerentola in casa della filosofia».
A fronte dei mutamenti di rotta del Pci, la posizione di Marchesi fu esemplare. Nel I numero di «Riforma della scuola», vi è un suo intervento che sembra un fedele atto d'obbedienza più che un'autocritica, un «atto di contrizione » con cui si ammettevano i fallimenti dell'insegnamento del latino nella scuola media unica60. Riprendendo stralci di precedenti scritti, egli continuava, comunque, a sostenere i benefici intrinseci dell'indirizzo culturale umanistico classico, come se la sconfitta sul piano dell'organizzazione scolastica non dovesse comportare la rinuncia ad imprimere nella vita del partito un argine rispetto alle tendenze operaiste. Marchesi, in fondo, non concordava neppure con l'argomento secondo cui lo studio della lingua latina era dannoso vista la giovane età dei frequentanti la scuola media. Figlio di un punto di vista che sottovalutava le acquisizioni della pedagogia scientifica, egli nel '56, dalle colonne dell'«Unità», attribuiva ai docenti la responsabilità di rendere fecondo piuttosto che dannoso l'insegnamento di una materia. Già in sede costituente, per sostenere una gestione statale anziché decentrata della scuola, egli aveva affermato che quando essa funziona bene è «naturalmente decentrata». Ma questo decentramento dipende dal maestro il quale è il vero protagonista della riuscita dell'insegnamento, più dei tecnicismi didattici o delle tattiche amministrative. La centralità della funzione docente che eccede i pedagogismi sembra essere la schietta ossatura della pedagogia marchesina, che non può accettare alcune delle ragioni dell'esclusione dell'insegnamento del latino dalla politica scolastica dei comunisti:
Oltre e sopra il regolamento [] c'è il maestro. Il fastidio o il gradimento, l'interesse o la noia, l'equilibrio o il disordine dipendono da lui, dall'uomo che insegna. Si può ridurre il pane al maestro, si può levargli anche la libertà, ma non la facoltà di penetrare nell'animo dell'alunno e richiamarlo alla luce e alla gioia della conoscenza. Gli si lasci in mano il catechismo e ne farà uno strumento di scienza e di nobiltà umana se non è un pitocco o un servo. Se [] il latino nella scuola media si insegna male, è da domandarsi quanto si insegnino bene e con quale profitto le altre discipline61.
Parole che richiamano il gramsciano cavar sangue anche dalle rape e testimoniano il rifiuto di una tendenza pedagogica curvata in senso scientifico che allora s'andava affermando. La conclusione di Marchesi è eloquente: è preferibile tornare al vecchio ginnasio ed alle vecchie scuole tecniche piuttosto che togliere il latino dalla scuola media, giacché ciò equivarrebbe ad ucciderlo. Meglio rinviare la decisione. Così, egli finiva per allinearsi con gli intellettuali estranei alla prospettiva comunista che continuarono a difendere le virtù pedagogiche dell'umanesimo tradizionale. Non era la prima volta che il latinista si trovava a difendere posizioni scomode, né sarà l'ultima. Segno di una personalità sui generis, convinta di essere in sintonia col senso comune del proletariato. Così concluderà l'articolo del '56 sull'«Unità» in cui ancora difendeva il latino: «da quanto ho detto non pochi compagni di elevata cultura dissentiranno; ma so che gli operai molto concordano con me: e non me ne stupisco, perché proprio [] dal campo operaio, nasce l'aspirazione verso una maggiore ricchezza nel mondo intiero dello spirito umano». Che ciò nelle intenzioni rispondesse all'appello di Gramsci, fatto agli intellettuali, a sentire e comprendere allo stesso modo in cui sentono e comprendono le masse non è inverosimile.
The author analyzes, from the Second World War, the debate around school reform born on the pages of «Rinascita». The protagonists were scholars of the caliber of Marchesi L. Lombardo Radice, Banfi and enlargement of the main issues focused around education for the working classes as a means of social ascent (and here he became interested Lombardo Radice). They discussed also the opportunity to bring the school post primary the model of classical humanistic culture or adapt to technical requirements of the manufacturing world. On the pages of «Rinascita» these issues were discussed for many years with great interest.
1 E. Vittorini, Presentazione ad alcune Lettere di Gramsci inedite, in «Il Politecnico», 1946, n. 33-34. Sulla ricezione vittoriniana di Gramsci cfr. N. Ajello, Intellettuali e PCI 1944-1958, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 122-125.
2 Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. 5. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino 1970; Id., Gramsci in carcere e il partito, L'Unità, Roma 1988; G. Vacca, Togliatti sconosciuto, Supplemento al n. 204 dell'«Unità» del 31-8-1994; F. Platone, L'eredità letteraria di Gramsci. Relazione sui quaderni del carcere. Per una storia degli intellettuali italiani, in «Rinascita», 1946, n. 4, pp. 81-90; C. Daniele (a cura di), Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Roma 2005; G. Liguori, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1926, Editori Riuniti, Roma 1996; G. D'Anna, La 'scoperta' di Antonio Gramsci. Le Lettere e i Quaderni del carcere nel dibattito italiano 1944-1952, in «Italia Contemporanea», Giugno 1998, n. 211.
3 F. Pruneri, La politica scolastica del partito comunista italiano dalle origini al 1955, La Scuola, Brescia 1999.
4 Cfr. A. Gramsci, Insegnamento classico e riforma Gentile, in «Rinascita», 1945, n. 9-10, pp. 209-212, ora in Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, Q. 12, §2, pp. 1540-1551. Mi permetto inoltre di rimandare al mio Il problema politico come problema pedagogico in Antonio Gramsci, Anicia, Roma 2008.
5 Cfr. A. Broccoli, Antonio Gramsci e l'educazione come egemonia, La Nuova Italia, Firenze 1972; D. Ragazzini, Società industriale e formazione umana nel pensiero di Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1978; F. Cambi, Libertà daL'eredità del marxismo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1994. Il riconoscimento della preminenza del pedagogico nei Quaderni lo si può ritrovare anche in studi non afferenti alle discipline pedagogiche. Cfr. Ch. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1976 (ed. or. 1975); G. Nardone, Il pensiero di Gramsci, De Donato, Bari 1971.
6 Tra gli interventi sul ruolo educatore del partito sulla falsariga gramsciana cfr. M. Spinella, Scuole e corsi di partito: sviluppo e prospettive, in «Rinascita», 1952, n. 11, pp. 632-634; Id., La scuola centrale di partito, in «Rinascita», 1948, n. 8, pp. 324,325; Id., Il problema dei quadri nei 'Quaderni del carcere', in «Rinascita», 1953, n. 3, pp. 162-166; P. Secchia, L'arte dell'organizzazione, in «Rinascita», 1945, n. 12, pp. 267-269, Id., Palmiro Togliatti organizzatore, in «Rinascita», 1948, n. 8, pp. 285-288; F. Platone, L'uomo qualunque, in «Rinascita», 1946, nn. 1-2, pp. 10-12; A. Colombi, Per la preparazione teorica dei quadri del movimento operaio, in «Rinascita», 1950, n. 5, pp. 271-273; G. Manacorda, Il partito e la sua funzione di guida nel campo della cultura, in «Rinascita», 1951, n. 3, pp. 128-131.
7 M. A. Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Armando Armando, Roma 1970.
8 Attività non aliena da frizioni, come testimonia lo scontro di Togliatti con Vittorini ed il «Politecnico», che sfocerà in un intervento al vetriolo del segretario dove egli ribadirà la connessione tra politica e cultura e l'esigenza di educare le masse piuttosto che informarle, come gli pareva accadere al gruppo del «Politecnico». Cfr. M. Alicata, La corrente «Politecnico», in «Rinascita», 1946, nn. 5-6, p. 116; P. Togliatti, Lettera a Elio Vittorini, in «Rinascita», 1946, n. 10, pp. 284, 285; F. Platone, La politica comunista e i problemi della cultura, in «Rinascita», 1947, n. 7, pp. 187-190.
9 P. Togliatti, Antonio Gramsci, in «Rinascita», 1947, n. 4, pp. 73-76.
10 Cfr. L. Lombardo Radice, Intellettuali antifascisti tra l'ideologia e la politica, in «Rinascita », 1947, n. 5, pp. 123, 124. Si veda anche O. Pastore, I liberali del XX secolo, in «L'Unità», 30-4-1948.
11 Cfr. C. Marchesi, Motivi di politica scolastica, in «Rinascita», 1945, n. 11, pp. 244-247.
12 Id., Fascismo e Università, in «Rinascita», 1945, n. 1, pp. 17-19.
13 Id., La cultura e la scuola, in «Rinascita», 1946, n. 9, pp. 217-224.
14 Id., Motivi di politica scolastica, cit.
15 Cfr. L. Lombardo Radice, Studenti nuovi per una nuova scuola, in «Rinascita», 1945, n. 2, pp. 60, 61.
16 Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Il nostro lavoro nella scuola, in «Rinascita», 1951, n. 4, pp. 202- 204.
17 Cfr. F. Pruneri, op. cit., pp. 191, 192. Sulla contrapposizione tra Banfi e Marchesi cfr. inoltre M. Maurri Poggianti, Il dibattito fra i comunisti sulla scuola unica dopo la Liberazione, gli interventi al V Congresso: Lozza, Banfi, Marchesi, Alicata, in «Riforma della scuola», n. 3, 1976, pp. 23-25; G. Bini, Trenta anni per la riforma, in «Riforma della scuola», n. 8-9, 1976, soprattutto p. 15.
18 Cfr. M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino, Bologna 1974, in particolare pp. 307-325.
19 Cfr. A. Banfi, Scuola di ieri, di oggi e di domani, in «Sapere», 15-3-1946 ora in Opere, Vol. XIII, Scritti e discorsi politici. I. Scuola e società, Istituto Antonio Banfi, Bologna 1987.
20 Cfr. C. Marchesi, Panorama della cultura italiana, in «Rinascita», 1949, n. 8-9, pp. 379-382.
21 Id., La cultura e la scuola, cit.
22 Cfr. F. Pruneri, op. cit., p. 148. Lo stesso Pruneri, tuttavia, allude al fatto che nello scritto di Marchesi apparso sul n. 11 del '45 già l'autore sembrasse «conscio di muoversi all'interno della visione gramsciana della scuola» (p. 154).
23 C. Marchesi, La cultura e la scuola, cit.
24 Cfr. G. Preti, La scuola media è al bivio. Scuola di «élite» o scuola di massa?, in «Il Politecnico », 1945, n. 8, p. 1.
25 A. Banfi, Non dev'essere una fabbrica di diplomi, in «Milano-Sera», 15-1-1945, p. 2, ora in Opere, cit., p. 35.
26 Id., Scuola di ieri, di oggi e di domani, in cit., pp. 13-15.
27 C. Marchesi, Motivi di politica scolastica, cit.
28 A. Banfi, Problemi della scuola, in «L'Opinione Pubblica», Magg. 1946, n. 5, ora in Opere, cit., p. 24.
29 A. Santoni Rugiu, La lunga storia della scuola secondaria, Carocci, Roma 2007, p. 129.
30 A. Gramsci, La difesa dello Schultz, in «Avanti», 27-9-1917, ora in Scritti giovanili 1914- 1918, Einaudi, Torino 1975, pp. 133-135.
31 C. Marchesi, Crisi di scuola e di cultura, in «Rinascita», 1948, n. 7, pp. 262-264.
32 Cfr. M. A. Manacorda, La riforma della scuola: sillabario e catechismo, in «Rinascita», 1950, n. 2, pp. 103-106.
33 Cfr. L. Lombardo Radice, Inflazione del latino, in «Rinascita», 1945, n. 12, pp. 274, 275.
34 C. Marchesi, Panorama della cultura italiana, in «Rinascita», 1949, n. 8-9, pp. 379-382.
35 L. Lombardo Radice, Ancora una 'Carta della Scuola'?, in «Rinascita», 1949, n. 6, pp. 289, 290.
36 Cfr. Id., Per una scuola operaia, in «L'Unità», 9-7-1944; inoltre cfr. F. Pruneri, op. cit., p. 141.
37 L. Lombardo Radice, Studenti nuovi per una nuova scuola, in «Rinascita», 1945, n. 2, pp. 60, 61.
38 I comunisti criticavano Dewey per la sua fiducia nelle potenzialità emancipative dell'istruzione. Non sfuggiva a tale consuetudine Banfi che, pur riconoscendo il legame tra progetto della democrazia progressiva e «lotta per l'educazione» (La crisi dell'educazione nell'Occidente, Relazione al Congresso mondiale degli insegnanti, Vienna dal 21 al 24-7-1953, ora in Opere, cit., p. 332) di quest'ultima sottolineava il rischio della contaminazione con la società capitalistica. Giovani più sovietisti tendevano poi ad evidenziare l'interrelazione tra riforma strutturale della società e riforma della scuola, se non a ritenere la prima presupposto della seconda. Cfr. P. D'Abbiero, I veri mali della scuola, in «Rinascita», 1948, n. 6, pp. 222-224. Sul rapporto tra marxismo italiano e pedagogia deweyana cfr. T. Tomasi, Scuola e pedagogia in Italia 1948-1960, Editori Riuniti, Roma 1977, in particolare pp. 74-86.
39 L. Lombardo Radice, Per la libertà della scuola, in «Rinascita», 1946, n. 8, pp. 186-188. Inoltre cfr. A. Roveri, Scuola e lavoro, in «Rinascita», 1948, n. 6, pp. 224, 225.
40 Cfr. R. Bianchi-Bandinelli, La scuola superiore, in «Rinascita», 1945, n. 4, pp. 121, 122.
41 Cfr. L. Lombardo Radice, Scuola preparatoria e scuola unica, in «Rinascita», 1948, n. 6, pp. 222, 223.
42 Id., L'insegnamento della scienza nella scuola italiana, in «Rinascita», 1946, n. 4, pp. 93, 94.
43 Id., Inflazione del latino, cit.
44 Id., L'insegnamento della scienza nella scuola italiana, cit.
45 Id., Inflazione del latino, cit. Del medesimo tono sono, nel '47, le osservazioni di Tozzi su circa l'incapacità di un quattordicenne di comprendere l'utilità dello studio delle lingue morte; l'allusione può significare sia che l'insegnamento precoce del latino è dannoso, sia che l'ossatura cognitiva del giovinetto non può cogliere la fecondità del latino (S. Tozzi, La personalità del giovane durante il fascismo, in «Rinascita», 1947, n. 8, pp. 222-224).
46 D. Bertoni Jovine, Recensione a A. S. Makarenko, Poema pedagogico, in «Rinascita», 1952, n. 4, pp. 250, 251.
47 L. Lombardo Radice, Metodo e miti nella scuola Montessori, in «Rinascita», 1951, n. 1, pp. 32-36.
48 F. Pruneri, op. cit., p. 416. Inoltre cfr. N. Ajello, op. cit., pp. 289-293.
49 Proposte per una riforma della scuola dell'obbligo in M. Alicata, La riforma della scuola, Editori Riuniti, Roma 1956, pp. 69, 70: «Lungi dagli equivoci di chi ritiene che l'insieme dei problemi sociali possa essere risolto dallo sviluppo della scuola e [] di chi [] crede irrilevante [] la battaglia scolastica, noi affermiamo l'esigenza di un solido nesso tra l'uno e l'altro aspetto».
50 Cfr. G. Sotgiu, Confusione e pericoli di una 'riforma' per decreto, in «Rinascita», 1955, n. 9, pp. 573-577.
51 A. Banfi, Cultura nuova, in «L'Illustrazione Italiana», 30-6-1946, ora in Opere, cit., p. 30.
52 M. Alicata, La riforma della scuola, cit., p. 45 e pp. 49, 50.
53 A. Banfi, Insegnare a vivere e a capire, in «Il Calendario del Popolo», Dic. 1952, n. 99, ora in Opere, cit., p. 242.
54 Id., Scienza e umanismo, in «La voce della scuola democratica», 16-9-1954, n. 22, ora in Opere, cit., pp. 408, 409; inoltre cfr. Id., La scuola come guida nella lotta per la pace, in «Rinascita », 1951, n. 5, pp. 265-269.
55 M. Alicata, La riforma della scuola, cit., p. 17.
56 A. Banfi, Scienza e umanismo, cit., p. 410.
57 Id., La scuola come guida nella lotta per la pace, cit., pp. 265-269.
58 Id., Scienza e umanismo, cit., p. 408.
59 Proposte per una riforma della scuola dell'obbligo in M. Alicata, La riforma della scuola, cit., pp. 81-85.
60 Cfr. C. Marchesi, Il latino nella scuola, in «Riforma della scuola», 1955, n. 1.
61 Id., La questione del latino, in «L'Unità», 3-4-1956.
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Copyright Firenze University Press 2009
Abstract
The author analyzes, from the Second World War, the debate around school reform born on the pages of «Rinascita». The protagonists were scholars of the caliber of Marchesi L. Lombardo Radice, Banfi and enlargement of the main issues focused around education for the working classes as a means of social ascent (and here he became interested Lombardo Radice). They discussed also the opportunity to bring the school post primary the model of classical humanistic culture or adapt to technical requirements of the manufacturing world. On the pages of «Rinascita» these issues were discussed for many years with great interest. [PUBLICATION ABSTRACT]
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