I temi della emarginazione e dell'integrazione sociale sono affrontati qui con alcune considerazioni cliniche. Ciò che si sostiene, in analogia con quanto argomentato ad esempio da Rustin (1991), è che la prospettiva clinica della psicoanalisi possa dare un notevole contributo alla comprensione di taluni fenomeni sociali, chiarendone in profondità determinati aspetti, meccanismi e caratteri, sia pure in modo parziale e pur non esaurendo il vasto campo delle questioni inerenti a tali oggetti d'indagine.
Il rapporto della psicoanalisi con il concetto di adattamento sociale è sempre stato di per sé problematico. La centralità assegnata al mondo interno spinge a guardare oltre la facciata e l'apparenza dei comportamenti osservabili e degli standard di funzionamento sociale accettabili, per cogliere i fenomeni di disagio alla luce del significato profondo che assumono le esperienze emotive. La realtà psichica, ciò che è affettivamente vero per l'individuo indipendentemente dalla realtà materiale e dai canoni dei rapporti sociali contrattuali, sposta il vertice di osservazione verso un'interiorità che reclama chiavi di lettura soggettive le quali in larga parte esulano dai criteri di valutazione quantitativi e oggettivabili del funzionamento sociale.
In questo senso non necessariamente un individuo è più sano o più normale quando appare meglio adattato, nel senso di meglio funzionante sul piano sociale. Per assumere rilievo autentico i comportamenti sociali devono essere riletti per il vero significato profondo che hanno nella realtà interna i legami emotivi e le relazioni affettive intime degli individui. Quante volte nel contesto di certe dinamiche di rapporto superficiale le persone si meravigliano nei confronti di qualcuno, che dall'esterno sembrava stare così bene ed essere così felice e solare, come oggi si suol dire, e che poi sembra crollato improvvisamente e inspiegabilmente, tutto a un tratto, apparentemente senza una ragione, nel black out psichico e nel baratro della depressione più cupa. Ma paradossalmente è proprio a quel punto, laddove può apparire confuso, disadattato o momentaneamente non più in grado di funzionare nel lavoro e nella routine quotidiana, che quell'individuo può giocarsi davvero la sua partita, nella possibilità di un cambiamento attraverso la capacità di elaborare la depressione che prima era coperta dall'adesione ai canoni conformistici dell'adattamento sociale.
Capacità di essere solo e integrazione sociale
Seguendo la linea di pensiero della psicoanalisi, e in particolare di autori come Melanie Klein, Wilfred Bion e Donald Meltzer, possiamo stabilire un parallelo tra i concetti di integrazione psichica e di integrazione sociale.
È possibile sostenere che un fondamentale indicatore dell'integrazione sociale sia certo dato dalla possibilità di autentica condivisione affettiva. In circostanze naturali cioè, ciò che costituisce l'essenza del normale processo d'integrazione sociale dovrebbe sostanziarsi nella capacità di un individuo di interagire con altri condividendo significati simbolici ed esperienze emotive in maniera profonda e autentica. Sono questi sostanzialmente la base e il prerequisito perché, a partire da cicli ripetuti di condivisione, si creino le condizioni per un senso di appartenenza a un gruppo, a una comunità e a un consorzio sociale, ai quali si può essere legati da sentimenti di amore e gratitudine di cui ci si può sentire ricambiati.
L'emarginazione sociale invece, come controparte patologica del processo di sana integrazione, si può presupporre che sia data essenzialmente da un fallimento nella possibilità di condividere; ciò che può indurre a un moto di chiusura e di isolamento, a un vissuto di esclusione ed estraneamento dell'individuo o di un gruppo nei confronti di un altro gruppo più vasto o consorzio sociale.
La questione si complica nel momento in cui ci interroghiamo sulla vera natura di un processo di condivisione. Ragionando clinicamente emerge di fatto come la condivisione possa esprimersi a diversi livelli e su diversi piani, a seconda del registro e del binario della comunicazione. Così come la clinica mette in luce diversi tipi e modalità di funzionamento psichico individuale, allo stesso modo i gruppi sociali possono funzionare su registri mentali differenti. Una modalità di condivisione può esprimersi a un livello più o meno concreto o immaginativo, presimbolico o simbolico, intellettualizzato, controllato sul piano dell'espressione emotiva o viceversa coinvolto sul piano affettivo. È dunque possibile assumere che esistano modalità di condivisione, o più semplicemente d'interazione affettiva nei gruppi sociali di vario tipo, più o meno sane o patologiche.
A questo punto il concetto stesso d'integrazione sociale si rende più problematico, se andiamo oltre il pregiudizio che la maggioranza di un gruppo o di una comunità di persone in quanto tale debba condividere una modalità d'interazione normale e non patologica. Colui che rimane ai margini di un gruppo in altre parole, perché impossibilitato a condividere, è da ritenersi per principio come più disturbato nel suo funzionamento rispetto al gruppo stesso, o invece possiamo pensare che proprio perché individuo a volte più sano, rispetto alla modalità di funzionamento e di interazione patologica del gruppo nel suo insieme e degli altri membri che lo compongono, abbia difficoltà a integrarsi con loro?
Per sviluppare ulteriormente la questione è utile fare un passo indietro e risalire al concetto di integrazione della personalità secondo un punto di vista intrapsichico, inerente al funzionamento individuale.
La psicoanalisi ci ha consegnato interessanti metafore del sano funzionamento dell'individuo. Secondo la metafora del modello kleiniano, l'individuo sano è colui che riesce a elaborare la posizione depressiva raggiungendo in tal modo una sufficiente e più armonica integrazione dei vari aspetti in precedenza scissi della personalità. A ciò consegue il costituirsi nel mondo interno di rappresentazioni di sé integrate, a cui corrispondono altrettante rappresentazioni degli oggetti, degli altri significativi, buone e cattive, integrate. L'esito di questo processo è sia un prevalere dei meccanismi introiettivi su quelli proiettivi, sia un senso di sé come maggiormente autonomo, perché le immagini di sé sono sufficientemente differenziate e separate e non fuse o confuse nel proprio mondo interno con le immagini degli altri. Ciò è realizzato a monte dal fatto che, laddove è possibile accettare le perdite ed elaborare i lutti, è possibile anche riscoprire i sentimenti buoni dentro di sé; un movimento che porta ad aprirsi al mondo dei rapporti con gli altri, favorendo i moti di introiezione, la possibilità di prendere da un altro (Williams Polacco, 1997), con amore e gratitudine (Melanie Klein, 1957), interiorizzando una relazione di dipendenza.
Questa capacità di prendere da un altro è alla base del sentimento di autentica condivisione, e paradossalmente, nel momento in cui nell'individuo si realizza una maggiore apertura verso il mondo dei rapporti affettivi, a ciò consegue non un senso di fusione con l'altro e un allentamento dei confini, ma un senso di maggiore separatezza interna del Sé dall'oggetto, delle rappresentazioni di sé da quelle oggettuali. Secondo la visione kleiniana, nella misura in cui i meccanismi proiettivi tipici del funzionamento dell'identificazione proiettiva patologica non sono più predominanti, con la loro tendenza a collocare parti di sé dentro alla rappresentazione fantasmatica degli oggetti, ciò produce l'effetto di un maggiore senso di coesione e integrazione del Sé: il senso di essere se stessi senza fare confusione tra ciò che è proprio e ciò che è dell'altro (Imbasciati, 1986). È questa, secondo un altro linguaggio e un'altra visione dello sviluppo emotivo, una componente fondamentale del vero Sé teorizzato da Winnicott, in antitesi al falso Sé.
Un corollario di questo concetto è che la capacità di condividere, alla base di un processo complesso come l'empatia, non comporta una perdita o un allentamento dei confini, ma piuttosto presuppone ben saldo un senso di separatezza dall'altro. Bion (1962) condensò tutto ciò nel concetto di rêverie, laddove intese con questo termine la capacità empatica di una madre di essere ricettiva verso le proiezioni del neonato, mantenendo quella di non perdere il proprio equilibrio emotivo (Vallino, Macciò, 2006), come prerequisito per l'attitudine materna a lasciare soggiornare tali proiezioni dentro di sé (Ferro, 2002), così da poterle restituire al bambino mitigate e più tollerabili.
La rêverie si collega al concetto di capacità negativa, come capacità della mente di sostare in uno stato di incertezze e dubbi senza ricorrere anzitempo a false spiegazioni (Keats, 1817). La rêverie è in altre parole, come sostengono ancora Vallino e Macciò (2006), spesso un duro lavoro psichico, che richiede esercizio del pensiero, capacità di attesa, di tenere duro e di aspettare che i frammenti dell'esperienza possano gradualmente condensarsi in una gestalt di significato. A ciò corrisponde un senso separato, per usare un'espressione di Bollas (1995), una sensazione di distanziamento dall'oggetto, che consegue all'emergere del significato. Come a dire che solo quando l'esperienza è stata realmente vissuta, nel senso che è stata patita, e l'individuo ora se ne sente arricchito e trasformato, diventa possibile poi riflettere compiutamente sul suo significato a posteriori, con un movimento mentale che consente di portarsela alle spalle.
Il concetto di capacità negativa di Bion ha analogie, come ha osservato Bonaminio (2002), con quello di capacità di essere solo di Winnicott (1958). La capacità di essere solo è letteralmente per Winnicott quella del bambino di essere solo in presenza della madre. Il bambino che ha ricevuto cure materne sufficientemente buone, e che ha sviluppato la capacità di dipendere dalla madre, è ora in grado, dopo lo svezzamento, di cominciare a tollerare maggiormente l'assenza della madre pur in sua presenza; vale a dire che è in grado di tollerare la distanza, il silenzio, la separatezza, la diversità e l'ambivalenza, pur mantenendo il legame con l'oggetto. Al contrario, il bambino che non ha potuto godere di un buon rapporto con l'oggetto ab origine, che non ha potuto sviluppare un buon senso di dipendenza, paradossalmente, così come non può tollerare la dipendenza, non può nemmeno sopportare il senso dell'assenza e della lontananza, in una parola la separazione dalla madre.
In quest'ottica condividere ed essere separati dall'oggetto vanno di pari passo. Non è possibile una matura condivisione affettiva quando non si è davvero realizzato un reale senso di separatezza dall'oggetto dentro di sé, che presuppone a monte quel lavoro del lutto per la perdita e la separazione alla base del raggiungimento dell'integrazione. In questo senso, paradossalmente, colui che non è in grado di condividere non è in grado neppure di essere solo, e neppure di avere un concetto di sé integrato, possiamo ora aggiungere.
Riformulando il concetto in altri termini, l'individuo che ha realizzato il processo che porta a un senso di sé e dell'altro integrati è in grado di tollerare l'esperienza della separazione e della solitudine, perché paradossalmente non è solo dentro di sé nel rapporto con il proprio mondo interno popolato da oggetti prevalentemente benevoli. Per colui nel quale a livello interno vi è stato un fallimento in questo processo d'integrazione dell'amore con l'odio, non è possibile tollerare compiutamente l'esperienza della solitudine, perché essa si colorerà di contenuti troppo angoscianti, alle prese con vissuti interni di rapporto con gli oggetti prevalentemente negativi e persecutori. Il risultato finale sarà, per esito del proliferare dei meccanismi proiettivi, che portano ad attribuire per la maggior parte all'esterno l'odio e la distruttività, un'incapacità essenziale di condividere con gli altri. Ciò comporterà in ultima analisi un ripiegamento in una condizione di isolamento, di rifugio difensivo su stessi in uno stato di chiusura, come protezione da un volgersi verso gli altri e verso il mondo degli oggetti avvertito come troppo pericoloso e minaccioso, a causa di un proprio instabile senso di integrazione psichica legato alle angosce persecutorie di sentirsi invasi e confusi con gli oggetti.
Considerazioni cliniche
Ora si delinea come la condizione di emarginato possa configurarsi in uno dei suoi casi emblematici come la conseguenza sia di un processo di esclusione operato dal gruppo, sia di una mancanza e di una perdita di integrazione psichica nel singolo. La carenza nella capacità di essere solo nel senso di Winnicott, di tollerare la separatezza e la differenziazione alla base della normale condivisione, spesso non basta a rendere conto dell'emarginazione. Sono la dinamica e il vissuto dell'umiliazione che in molti casi subentrano a complicare il quadro. L'emarginato è anche colui che, dopo avere vissuto l'esperienza traumatica di ripetuti episodi di umiliazione e di esclusione all'interno del gruppo, sceglie la direzione di un isolamento difensivo, che alimenta un vissuto persecutorio di rancore, finendo per indurre un allentamento del senso di realtà.
Nella loro profonda analisi dei vissuti che caratterizzano la condizione di coloro che emigrano, Leon e Rebeca Grinberg (1990) si soffermano sul processo di sana integrazione dell'immigrato all'interno della nuova comunità ospitante. Tale processo non è mai facile, e comporta inevitabilmente sentimenti di persecuzione, diffidenza e dolore da ambo le parti in gioco. Entrambi, sia il gruppo che accoglie, sia lo straniero che chiede di essere accolto, devono confrontarsi con il riattivarsi dell'angoscia catastrofica derivante dall'impatto con il nuovo, alla base dell'incontro con chi appare diverso, estraneo o sconosciuto. L'integrazione sociale, quando riesce, si affianca e risulta la conseguenza di un processo di reintegrazione psichica, come passaggio successivo a una precedente, necessaria e più o meno temporanea regressione e perdita di integrazione. Questo processo è sancito dall'assimilazione dell'esperienza nuova nel quadro di coordinate precedentemente possedute.
Così come il nuovo venuto deve confrontarsi inizialmente con la confusione, il caos, la paura di perdere le proprie radici e quella dell'ignoto, l'inadeguatezza e la mortificazione di sentirsi non voluto e ai margini del nuovo gruppo sociale, anche quest'ultimo a sua volta deve venire a patti in un certo grado con la perdita della sicurezza che il contatto con l'esperienza della diversità induce. Ogni processo di integrazione comporta cioè la perdita di una condizione originaria, con i vantaggi del senso di stabilità e di protezione che essa garantiva, per aprirsi a una nuova esperienza di cambiamento che se elaborata potrà contrassegnare un'ulteriore salto di crescita sia per il singolo che chiede accoglienza, sia per il gruppo o la comunità che lo riceve. Quando questo processo può realizzarsi compiutamente, allo scombussolamento, al dolore e allo sforzo, da ambo le parti in gioco, di lottare con le angosce persecutorie, confusionali e depressive che si riattivano, consegue gradualmente un senso di amore ritrovato, che segna un avvenuto processo di fecondazione e di arricchimento reciproco. La comunità si sentirà arricchita dall'incontro con il nuovo venuto, così come questi, dal canto suo, si sentirà grato di sentirsi accettato e accolto dal gruppo stesso. Contenitore e contenuto potranno fecondarsi reciprocamente dando luogo a un'esperienza generativa di crescita per entrambi; ciò che in sintesi è il risultato dell'integrazione.
Quando viceversa le tendenze persecutorie dominano il campo, prevarranno le difese patologiche in risposta a un'angoscia catastrofica troppo forte per potersi esprimere con uno stato di dubbio senza persecuzione (Ferro, 2007), alla base della capacità di avere curiosità per ciò che è nuovo o diverso, della possibilità di tollerare l'attesa e l'incertezza in uno stato di temporanea sospensione dal giudizio. Il gruppo potrà manifestare preventivamente un senso di chiusura verso lo straniero o il diverso, a protezione dell'angoscia da esso scatenata e riattivata, così come il singolo potrà rifiutarsi a sua volta di compiere il necessario sforzo insito nell'esperienza inevitabile di perdere taluni aspetti di sé necessaria all'integrazione con il gruppo. Oppure, viceversa, egli potrà reagire con un maniacale senso di identificazione grandiosa e superficiale con la cultura del gruppo, coprendo con il diniego il dolore per la perdita di quelle parti di sé legate all'investimento e al mantenimento delle proprie radici.
In sintesi, l'esperienza dell'integrazione comporta per entrambe le parti in gioco un vissuto di rinuncia e il dovere lottare con le angosce scatenate dall'ignoto e i sentimenti di ambivalenza, rabbia, rifiuto e avversione che possono scaturire come intolleranza della frustrazione.
Una condizione tipicamente dolorosa è quella in cui il gruppo si sente minacciato a tal punto dall'incontro con il diverso da vendicarsi su di lui usandolo come un ricettacolo (Williams Polacco, 1997) di aspetti di sé sgraditi, evacuati e non riconosciuti in se stessi dai membri del gruppo stesso. Secondo me questo è il modo di funzionare che è sempre stato tipico di molti gruppi adolescenziali, gruppi che si organizzano in senso maniacale in modo da fare sentire esclusi tutti quelli che non ne fanno parte. Il moto di esclusione può riguardare gli adulti, tipicamente messi al bando dai gruppi di adolescenti impegnati a negare la dipendenza dai genitori allo scopo di separarsi e rendersi autonomi, ma anche dolorosamente quei coetanei che con i loro problemi o i loro sentimenti possono evocare il sentore di pericolosi vissuti di fragilità che il gruppo deve in ogni modo fuggire e sviare. Allora il membro escluso viene ad essere identificato con la peste o la Cassandra del gruppo, e deve essere umiliato prima di essere respinto o relegato ai suoi margini, colpevole di avere intaccato con il vissuto di dolore che è in grado di evocare la condizione di onnipotenza del gruppo stesso.
Forse il caso più drammatico ed emblematico in questa direzione può essere quello che vede coinvolto un ragazzino che in virtù di un forte senso di fragilità interiore, che deriva da una storia di rapporti interni non sufficientemente buoni e da un certo tipo di dinamica interiorizzata, non ha potuto maturare un senso di sufficiente autonomia dall'approvazione degli altri e del gruppo verso cui è attratto. Egli sente come una calamita l'attrazione verso un gruppo di coetanei di cui percepisce il richiamo e la fascinazione, perché ammira il potere che è emanato da certi suoi membri, ma vi è in lui, per contro, anche un bisogno sincero di amore ricambiato, di conferma, riconoscimento, approvazione e accettazione per il proprio fragile sentimento d'identità.
Il gruppo al contrario, organizzato in senso maniacale intorno all'illusione gruppale (Anzieu, 1971) dell'onnipotenza e alla negazione della dipendenza affettiva, assume l'assetto narcisistico della ricerca dell'ideale del successo, della competizione nell'inseguimento del potere, del bisogno di essere ammirati. La segregazione dell'oggetto è un modo di tenere scissa e lontana l'esperienza della fragilità, umiliando l'oggetto per ottenere una rivalsa vendicativa. Il membro più fragile viene reso oggetto di dileggio e inferiorizzazione ancor prima che di segregazione, perché non realizza l'ideale del potere, non possiede le doti per incarnarlo, e nello stesso tempo rammenta al gruppo quei pericolosi sentimenti di pena e di dolore che il gruppo sta accuratamente evitando. In più vi è un senso di invidia a complicare il quadro, l'invidia per chi nella sua vulnerabilità ancora è in grado di dipendere dagli altri, e non ha dunque smarrito la via della dipendenza dai bisogni affettivi sinceri e dai sentimenti buoni.
Credo che sia proprio questa esperienza traumatica di umiliazione e di spoliazione, che segue a una precedente modalità di rapporto familiare in cui il bambino non ha maturato la capacità di essere solo, nel senso di una autonomia che gli consenta di avvicinare un gruppo sociale con cui possa riuscire a entrare in rapporto di condivisione, ad aprire le porte per chi ne è sventuratamente vittima all'esperienza dell'emarginazione, come ritiro schizoide e ripiegamento difensivo in una direzione di isolamento, alimentati dal rancore e dal vissuto paranoico di sentirsi esclusi e umiliati. È questa anche la condizione che ci viene descritta tanto bene in quell'importante opera della narrativa dell'Ottocento che è Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. In questo romanzo il protagonista, sempre più solo e isolato, rievoca quando nel suo passato ricercava attivamente lo scherno e l'umiliazione da parte di un gruppo di compagni di gioventù, che egli sfidava a rivaleggiare con lui, e dai quali si percepiva sempre più attratto e meno separato, nella misura in cui la rabbia lo portava ad invidiarli e ad ammirarli sempre di più, allentando il suo senso di separatezza e impedendogli dunque di prendere le distanze da quella esperienza di mortificazione avidamente ricercata e perpetrata in una coazione a ripetere.
Il processo di integrazione psichica nel singolo e nel gruppo, così come è stato prima descritto, ci appare dunque come un prerequisito fondamentale e un componente costitutivo che accompagna il processo di integrazione sociale. La vera esperienza dell'integrazione sociale vale a dire implica per tutte le parti chiamate in causa l'elaborazione di un lutto, che include sentimenti di dolore per ciò che si perde, senso di colpa per i propri sentimenti negativi, bisogno sincero di riparare, senso di responsabilità per se stessi e la comunità nel suo insieme. L'integrazione è legata al riconoscimento della verità, intendendo in questo senso la verità soggettiva circa i propri sentimenti, motivazioni e responsabilità.
Nei processi di incontro e di conflitto tra culture, etnie e popoli diversi1, che possono vedere coinvolti addirittura stati nazionali e seguire a gravi conflagrazioni sociali, atti di terrorismo, fino a veri conflitti armati, l'esperienza di verità è un inestimabile suggello, dal profondo valore simbolico, per la piena integrazione. È per questo che i processi di riparazione e integrazione in questi casi richiedono molto tempo, perché è il processo stesso di elaborazione di un lutto nella sua dimensione individuale e collettiva che lo richiede.
Proprio in un viaggio in Irlanda del Nord, alcuni anni fa, rimasi colpito dall'atmosfera di profondo lutto e cordoglio, ma anche di segregazione, abbandono e mortificazione della comunità irlandese di Belfast, afflitta e schiacciata in uno stato di isolamento e insieme di ristrettezze e privazioni nel contesto geografico di una regione che altrimenti avrebbe potuto essere ricca e prospera.
Il tempo che appare essersi fermato, il tempo morto del rancore (Kancyper, 2003), nel ripiegamento ossessivo su un passato legato a un danno che si è subito e che non si riesce a dimenticare, a una ferita che è stata inferta e non si può rimarginare, esacerba il dolore e la pretesa di risarcimento che alimentano il circolo vizioso dell'esclusione nella condizione di emarginati. In altre parole, di fronte a questi casi, sembra che sia impossibile che possa emergere la verità della posizione depressiva, con il suo accento altruistico sulla comprensione del dolore dell'altro e la volontà di ricostruire e riparare, quando la verità della posizione schizoparanoide che chiede giusitizia per il danno e l'oltraggio subiti non ha incontrato adeguato riconoscimento ed è stata invece troppo a lungo negata, passata sotto silenzio, distorta o manipolata.
Un elemento da non trascurare è che le comunità si caratterizzano per gradi diversi di capacità di integrare e tollerare le diversità (Di Chiara, 1999), attitudine che anch'essa dipende dal loro livello di funzionamento e dal grado di integrazione psichica dei loro membri. Come ebbe a dire in un importante saggio Roberto Tagliacozzo (1995), la tolleranza quale presupposto per la vera integrazione sociale riflette i caratteri di uno stato mentale depressivo, come in precedenza è stato chiarito. È nello stato mentale depressivo che, dando voce alle parti doloranti, sofferenti e bisognose di sé, si può arrivare a capire le ragioni degli altri, a integrare le ambivalenze, a tollerare le diversità e ad assumere una posizione lungimirante di responsabilità sociale aperta alla complessità della vita, dei caratteri umani e della società, a partire dalla consapevolezza della comune esperienza universale della sofferenza.
Viceversa, una comunità o un gruppo sociale in cui prevalgono la scissione e la negazione delle componenti dolorose sarà un gruppo meno aperto o meno tollerante delle diversità. Un gruppo siffatto, nel quale domina la chiusura e l'autoidealizzazione dei propri aspetti onnipotenti, la difesa dei propri privilegi, sarà portato a scindere gli aspetti di sé sgraditi e a proiettarli su altri individui o gruppi sociali nei confronti dei quali si organizzerà con una posizione di avversione, scegliendo la via dell'attacco-fuga o della svalutazione e denigrazione. È questa la direzione sostanziale che porta a mettere in atto strategie di marginalizzazione e inferiorizzazione, causa di dolore psichico per il singolo o il gruppo svantaggiato oggetto e ricettacolo, proprio malgrado, di tali moti affettivi malevoli.
Sull'adattamento sociale
Al termine del discorso fin qui sviluppato possiamo ritornare alla posizione psicoanalitica sull'adattamento sociale. Il gruppo maniacale non è un gruppo nel quale si realizzano modalità di comunicazione fondate su una condivisione sincera. Il gruppo organizzato in senso maniacale offre solo l'illusione di una vera condivisione affettiva. In realtà quello che emerge al proprio interno è piuttosto un vuoto di condivisione, derivante dal deserto di relazioni umane autenticamente significative. Le caratteristiche proprie del funzionamento di molti gruppi sociali nella nostra società di oggi, come ad esempio di una parte consistente dei gruppi adolescenziali, inducono perplessità sul valore e il significato profondo delle relazioni e delle dinamiche affettive che circolano al loro interno. In un'era in cui la socialità e la socializzazione si estendono sempre di più e sempre più rapidamente, paradossalmente sembra venir meno il livello di profondità nelle relazioni affettive intime. In questo senso, come già faceva notare Freud (1921), e più recentemente Kernberg (1998), la trasformazione di un gruppo in massa è un segnale preciso e allarmante di un incremento della maniacalità, all'interno di rapporti sempre più impersonali e a scapito di relazioni umane realmente intime e profonde.
Il gruppo giovanile che aderisce ai canoni della società narcisistica basata sul consumo, l'euforia, il culto dell'esteriorità e dell'aspetto fisico, l'avidità nei rapporti sessuali, evacua attraverso il pensiero concreto e il piacere maniacale tutta la pena e il dolore psichico legati all'incapacità di condividere a livello profondo. È questa una condizione diffusa nella società di oggi, in cui, secondo l'analisi di Recalcati (2010), ispirata al pensiero di Lacan, il godimento sembra avere scalzato il posto del desiderio, il quale nel senso nobile della sua accezione indica una finalità e una intenzionalità che presuppongono saldo il senso del limite, da cui dipendono l'assunzione della responsabilità e la tolleranza della frustrazione, alla base di un vissuto della prospettiva temporale in grado di abbracciare passato, presente e futuro. Il godimento riflette piuttosto una condizione di assenza di tempo (Meltzer, Harris, 1983) e di coazione a ripetere, nella quale viene meno l'investimento dell'oggetto all'interno di un rapporto significativo. Il desiderio edipico è in questo senso sostituito da un bisogno di appropriazione avida e narcisistica.
Relegato ai margini di questo tipo di consorzio sociale si trova tanto colui che viene escluso dalla dinamica narcisistica perché non incarna l'ideale del potere e non si rende oggetto appetibile di tale bisogno di appropriazione, quanto colui che si sforza di mantenere contatto con la realtà psichica e i sentimenti depressivi alla ricerca di più salutari canali di condivisione.
Appare chiaro in quest'ottica come la stessa terapia psicoanalitica, secondo questa impostazione, si batta per un atteggiamento più critico verso le diffuse patologie sociali e collettive della nostra società. La psicoanalisi, come fa notare Di Chiara nel suo saggio sulle sindromi psicosociali, ha sempre lottato contro la normalizzazione della malattia. Un fine terapeutico della psicoanalisi in questo senso è oggi quello di operare per restituire il paziente al termine del trattamento più autonomo dalle pressioni del conformismo, dall'approvazione degli altri, e meno compiacente verso le patologie sociali diffuse che innervano, sotto l'egida della patologia narcisistica, la nostra società.
Come scrive Di Chiara (1999, p. 3):
si assiste a una peculiare e oggi non più inaspettata conseguenza dell'analisi: il paziente proprio perché trasformato e migliorato non riesce a trovare facilmente il proprio posto nel grande gruppo di appartenenza originario. Cerca un'intesa, una condivisione di punti di vista e di interessi che non trova più. Si sente isolato e disadattato dai modi conformistici praticati da quello che dovrebbe essere il suo gruppo sociale di appartenenza. Aspira a un gruppo ideale che però non identifica facilmente. Inizia una ricerca che durerà a lungo. È in tali circostanze, quelle delle analisi meglio riuscite, che dal punto di vista clinico si osserva il confronto tra un buon equilibrio interiore e la conseguente ricerca di corrispondenti migliori rapporti sociali e la difficoltà sociale a offrirne, il confronto e la contrapposizione tra la salute mentale del singolo e la patologia del gruppo.
Drawing on the psychoanalytic theory of object-relations, in particular according to the post-Kleinian model, the foundation of social integration is taken in relation to the ability to share authentic relationships with others, alongside the individual task of building a sufficient integration of personality. The marginalization is attributed instead to a failure in the ability to share, which is associated with schizoid withdrawal and operated processes of social exclusion by the social community and by the affiliated group.
1 Sull'emarginazione tra cultura, etnia e razza, e sull'intercultura come progetto e intervento pedagogico si veda in particolare Cambi (1997, 2001).
Riferimenti bibliografici
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Tommaso Fratini
Docente a contratto, Università di Firenze
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Copyright Firenze University Press 2011
Abstract
Drawing on the psychoanalytic theory of object-relations, in particular according to the post-Kleinian model, the foundation of social integration is taken in relation to the ability to share authentic relationships with others, alongside the individual task of building a sufficient integration of personality. The marginalization is attributed instead to a failure in the ability to share, which is associated with schizoid withdrawal and operated processes of social exclusion by the social community and by the affiliated group. [PUBLICATION ABSTRACT]
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