Introduzione
Questo lavoro fa tesoro di una prospettiva di tipo antropologico che ri- conosce il linguaggio della medicina come prodotto culturale e costruzione storica. A partiré da questa constatazione, attingendo a delle esperienze di docenza universitaria1 e di ricerca2, mi soffermo intorno ad alcuni concetti sui quali e con i quali gli infermieri hanno strutturato la loro identità pro- fessionale: quello di dolore, di nascita, di morte. Scelgo di usare determinate parole consapevole di operare una scelta estremamente riduzionista, muoven- domi all'interno di un paradigma indiziario guidato più dalla plausibilità di quanto già altrove verificato che non dalloggettivita3. Il sapere infermieristico richiama infatti prepotentemente lessici che spaziano dalle pratiche cliniche ai linguaggi delle organizzazioni sanitarie, dai modelli assistenziali ai diversi modi di conoscere la malattia, arrivando fino ad una serie di problematiche di estrema attualità (l'errore medico, il consenso informato, laccanimento terapéutico, ecc.). Nonostante questa eterogeneità di problematiche peró, è a partiré da una riflessione su questi tre concetti (dolore, nascita, morte) che credo sia possibile metiere a fuoco alcuni dei problemi che 1 esperienza de- gli infermieri (soprattutto studenti alie loro prime esperienze di tirocinio) continuamente chiama in causa quando si incontra/scontra con un paziente migrante4. E' infatti a partiré dall'idea di dolore, nascita e morte, che gli infer- mieri possono iniziare a capire il perché di quelle difficoltà che emergono tra le "nostre" abitudini, credenze o saperi tradizionali e/o scientifici sull'assisten- za e le "loro", per raccontare le difficoltà relazionali e le tensioni emotive che possono accadere neirincontro/scontro con l'altro. In definitiva, per sottoli- neare gli spazi di "malessere" che un'assistenza poco attenta alla dimensione culturale dell'altro puó provocare.
In questa analisi, la prima cosa da fare è sgomberare il campo dall'idea (molto più persistente di quanto si possa pensare) che una professionalità de- putata all'assistenza e al sostegno (soprattutto in ámbito ospedaliero), come è quella dell'infermiere, possa sostenersi principalmente su una preparazione specialistica e técnica. Questa impostazione, non solo ci ripropone una me- dicina che riesce a rispondere alia malattia (e al malato) solo con le certezze (improbabili) di un fisso proceduralismo e con rappresentazioni statistico- epidemiologiche della patología, ma implícitamente, come evidenzia Caneva- ro, fa in modo che "la situazione oggettiva di chi si trova in stato di bisogno viene valutata in base alla concezione culturale di chi presta aiuto, trascuran- do quasi completamente la situazione culturale e personale di colui che si tro- va in condizioni di necessità" (2000:167). Questo limite appare paradossale se si pensa che il Codice di deontologia degli infermieri (febbraio 1999), non solo fornisce numeróse indicazioni di massima su come selezionare e affrontare le conseguenze della complessità che caratterizza il mondo del "prendersi cura", ma adotta in maniera netta una prospettiva particolarmente attenta ai valori culturali, etici, sociali, politici ed economici di individui che provengono da realtà culturali "altre"5.
Se assumiamo quindi "come problema centrale della sfera professionale di competenze - e, dunque, come momento fondativo dell'azione degli in- fermieri e motore della prassi clínica - non tanto la malattia, quanto le sue conseguenze di tipo fisiologico, psicologico e sociale sul vivere quotidiano e suH'autonomia della persona malata, considerata in toto, in una prospettiva di tipo olistico" (Motta 2002, p. 34), diventa prioritario allora sperimentare occasioni per de-costruire e ri-costruire il nostro modo di agiré e di interpre- tare la realtà ogni volta che questa, limitata da una razionalità di tipo técnico, ci appare con delle caratteristiche cosi deformanti da non farci entrare in contatto con l'altro. Da questo punto di vista, per aiutare a trasformare un "técnico" in un professionista con forti competenze relazionali ed educative, e per fare definitivamente nostra l'idea che la malattia deve essere pensata come un fatto da interpretare e non come un oggetto da curare, le Comunità di Pratiche (CdP) appaiono un prezioso aiuto. Esse infatti valorizzano l'idea secondo la quale i processi di costruzione della conoscenza si caratterizzano, sia a livello individúale che collettivo, come prodotto di una co-costruzione e di una negoziazione tra individui, gruppi di ricerca e saperi che sono sto- ricamente e culturalmente collocati6. Ma perché questo avvenga, uno dei re- quisiti strategici fondamentali è il cosiddetto "repertorio condiviso". Quale è dunque tale repertorio, e come questi professionisti lo possono riconoscere? Come anticipato, abbiamo detto che esso puô strutturarsi attorno a tre con- cetti specifici: quello di dolore, di nascita, di morte, ed è dunque a partiré da questi che è possibile erodere i modelli culturali dominanti che hanno reso possibile il paradigma della razionalità técnica, per domandarsi: che cosa ap- prendereper essere infermieri?
Se la teoría, come ci ricorda la Benner (2003, p. 2), è "un potente stru- mento di spiegazione e predizione" perché "dà forma ai quesiti e consente l'esame sistemático di una serie di eventi", è anche vero che la disciplina infermieristica ha costruito se stessa identificando quelle proprie condizio- ni necessarie e sufficienti affinché le situazioni reali si potessero verificare. Che fine abbia fatto, e come recuperare, tutto quello che non rientrava in queste condizioni "necessarie e sufficienti", è in parte materia di indagine del presente lavoro.
Una conoscenza situata e co-costruita
Abitualmente, tendiamo a concepire la conoscenza quasi esclusivamente come conoscenza di leggi e di rególe invarianti, ovvero indipendenti dal con- testo, dagli spazi e dai tempi. Tale visione ha prodotto l'illusione che la cono- scenza sia proceduralizzabile, formalizzabile, del tutto manifesta e a-conte- stuale. Naturalmente non è sempre cosi, e molti studenti, anche aH'inizio del loro percorso di tirocinio, lo evidenziano con convinzione.
Ho concluso il primo tirocinio del C.d.L. in Infermieristica, svolto in A.D.I., sul territorio del quartiere 1 di Firenze. II primo impatto a livello personale è stato piuttosto devastante, psicológicamente e físicamente. Ho avuto una ri- sposta emotiva personale un po' ritardata. Dopo circa una settimana e mezzo di tirocinio ho cominciato ad andaré oltre la memorizzazione delle procedure e a guardare sólidamente chi subiva le procedure che poi avrei eseguito io. La maggior parte delle persone che ho curato e medicato erano in stato vegeta- tivo da anni, da anni non vedevano più il passare del tempo né su di loro né sui propri figli, che giorno dopo giorno condividono con loro la propria vita. Ho terminato il mió primo ciclo di tirocinio e ho capito concretamente quale splendido mestiere è quello dell'infermiere. Non ci dobbiamo limitare a me- dicare una gamba malandata o a infondere una terapia in vena. II vero lavoro dell'infermiere è prendersi cura desequilibrio físico e psicologico e sociale della persona che assistiamo, e con prendersi cura significa cercare di ascolta- re più che parlare, significa sorridere e complimentarsi per un traguardo rag- giunto (sempre con grande fatica), significa comporre un numero e chiamare il figlio o la figlia che non sentono da più di una settimana. Quant'è vero che basta una sola carezza per tranquillizzare un anziano che soffre, che basta un sorriso per farli sorridere a loro volta. La realtà del territorio è quanto di più angosciante abbia immaginato di vedere con questa professione.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2011/12)
La riflessione di questo studente contiene in nuce il problema che qui sto discutendo. Se infatti si comincia ad "andaré oltre la memorizzazione delle procedure", ci accorgiamo che, contrariamente a quanto il modello del- la razionalità técnica ci propone, l'universo delle possibilità nelle quali ci troviamo non è finito e numerabile, per cui per risolvere un problema non è sufficiente selezionare, tra i mezzi e gli strumenti a nostra disposizione, quel- lo che meglio si adatta a determinati fini (medicare una gamba malandata o infondere una terapia in vena), né è possibile pensare che noi, in quanto osservatori che fanno parte di quel medesimo sistema, siamo capaci di cono- scerne limiti e strutture vivendo in una sorta di "tranquillità professionale" (la realtà del territorio è quanto di più angosciante abbia immaginato di ve- dere con questa professione). Ritorno dunque alla mia riflessione di partenza. Se le teorie scientifiche non riescono sempre a contemplare la risoluzione di tutti i problemi emergenti dallesperienza, perché questi si caratterizzano come unici e mutevoli,
Una signora (...) era ossessionata dal suonare il campanello; mi ricordo che io ci sono andato quattro volte ed una mia collega altrettante, ogni volta per motivi futili: una volta che gli arrivava troppa luce, un'altra volta troppo poca, un'altra volta che sentiva caldo e cosi continuando. L'ultima volta avevo capito che voleva parlare cosi mi sono seduto accanto a lei nel letto per una ventina di minuti, ascoltandola, rassicurandola, incorraggiandola di non arrendersi alla malattia (...). Appena sono uscito dalla stanza non ha più suonato il cam- panello per le restanti tre ore.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2009/10)
e se è fondamentale che a decidere su delle ipotesi sia non il teorico, ma prin- cipalmente i professionisti che poi utilizzeranno quelle conoscenze,
Nel mió reparto si è presentato un caso di un signore di nazionalità marocchi- na che non voleva farsi fare l'igiene dalle donne. Su questa cosa ci sono state varie polemiche in reparto, infatti vi erano operatori che cercavano di trovare una soluzione, anche rivolgendosi agli altri reparti, in quanto noi eravamo per la maggior parte donne, altri invece proponevano di lasciarlo stare in modo che quando poi ne avesse avvertito il forte bisogno sarebbe stato disposto a farsi lavare anche dalle donne. Perché obbligare una persona? Perché metterla in imbarazzo quando possiamo trovare delle soluzioni? Per fortuna alla fine ha "vinto" chi diceva di contattare altri reparti.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2010/11)
ecco che il modello delle Comunità di Pratiche, insieme ad altri modelli che oggi si stanno elaborando rispetto alla questione cruciale del comportamento organizzativo, mette in atto -prima ancora che teorizzare- l'idea fondamen- tale che l'apprendimento è prima di tutto esperienza concreta, e come tale si puô certo prefigurare ma non predeterminare o schematizzare troppo rígida- mente. Bastano questi pochi esempi per confermare l'idea che la conoscenza è sempre incarnata in un qui e in un ora, e che quando le gerarchie e le pro- cedure sono troppo formalizzate molti problemi ci possono apparire del tutto irrisolvibili perché le linee che potrebbero portare a una loro risoluzione, più o meno agevole, non si piegano al nostro tipo di formalizzazione7.
Ma credo ci sia di più. Dal momento che in questo continuo processo di ne- goziazione noi non solo costruiamo un sapere che è scientificamente "valido", ma anche maggiormente "riconosciuto" perché condiviso da coloro che ne usu- fruiranno (gli infermieri), le Comunità di Pratiche nel comparare, in azione, dei percorsi di sviluppo alternativi, allargano la nostra comprensione anche intorno ad un altro problema, quello inerente il rapporto infermiere-medico. Non è qui mia intenzione discutere di un problema cosi articolato, ma nel sofFermarsi su quali siano quelle condizioni, e da cosa siano dovute, che limitano o agevolano i vari processi di negoziazione, elaborazione e fruizione dei saperi in una determi- nata comunità professionale, questo rapporto non puö essere taciuto.
Un persistente luogo comune tende infatti a considerare e pensare che l'in- fermiere, non identificando si con gli obiettivi primari dell'organizzazione sa- nitaria di cui fa parte, non avendo molto potere nel fissare il livello formale e la direzione che il lavoro deve avere e, come anticipato, dovendo spesso eseguire compiti che sono stati razionalizzati in una maniera cosi forte da risultare meccanici e senza significato, sia una sorta di lavoratore alienato all'interno di un sistema professionale più grande di lui8.
Ho tristemente notato che la figura professionale dell'infermiere è oggi giorno ancora fortemente svalutata. Tante persone guardano infatti l'infermiere con l'ottica obsoleta del "supporta del medico talvolta anche un po' cialtrone" e non come figura complementare a quella del medico, con le proprie responsa- bilité, competenze, conoscenze e la propria autonomía. L'assenza di tale fiducia spesso pregiudica fortemente l'assistenza, ma purtroppo ancora adesso poco viene fatto in questa direzione perché, nonostante le numeróse campagne di sensibilizzazione (forse non abbastanza incisive), l'ignoranza riguardo la fi- gura dell'infermiere è ancora fortemente radicata nella popolazione italiana. (Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2010/11)
Nonostante tale stereotipo, mi sembra che l'infermiere oggi sia perfetta- mente consapevole dell'importanza del suo ruolo (che non percepisce come un mero supporto tecnico-assistenziale) e dell'importanza della complessa rete relazionale della quale generalmente è intessuta la sua attività cura.
Ritengo quindi che debba essere grande lo sforzo profuso dall'infermiere per conquistare la fiducia del paziente e che le nuove generazioni di infermieri (me compresa) non debbano scoraggiarsi davanti alla costatazione di questa realtà e limitarsi ad accettare la situazione cosi com'è, ma che debbano lottare aífinché gli venga riconosciuta la dignità di professionisti. (ibid.)
Come vedremo in seguito, quando affronteremo sintéticamente alcuni dei problemi che possono nascere nel rapporto infermiere/paziente migrante, anche in questo caso il rapporto medico/infermiere appare conflittuale non solo e non tanto perché mette a confronto due soggetti diversi, ma soprattutto perché impone che, in un modo o nell'altro, a dialogare siano due differenti si- stemi strutturali: quello dei medici, fortemente connotato da una "razionalità técnica", e quello degli infermieri i quali, radicando la propria prassi nei biso- gni assistenziali del paziente, sarebbero più portati ad instaurare un "clima di fiducia" e di compartecipazione che passa generalmente attraverso condotte più "semplici" (una parola o un gesto, uno sguardo).
II giro visite nel mió reparto si effettua andando di stanza in stanza con un enorme carrello giallo in cui vengono inseriti, in spazi appositi, le cartelle cartacee dei degenti. Sul carrello gigante è posto un computer portatile da cui il medico puó accedere tramite Galileo (un programma apposito) alie informazioni, anche quelle più personali e riservate della persona che il me- dico stesso in quell'istante sta visitando. II medico si rivolge alia persona assistita con un tono elevato, in ogni stanza ci sono due persone. Il medico entra nella stanza, concede un buongiorno alla prima persona da visitare e, a causa del tono della voce, sveglia anche la seconda persona posizionata sul secondo letto (che magari dormiva). Il medico, dopo una visita fisica al ma- lato, si pone dietro il carrello gigantesco per scrivere le proprie osservazioni nella cartella virtuale del malato, attraverso il computer portatile; lascia ve- dere alla persona sdraiata sul letto soltanto il suo volto e parte del torace, il suo corpo è totalmente dietro il carrello. Si creano delle barriere materiali tra il medico e la persona visitata che, essendo sdraiata, trova difficoltà ad individuare la posizione del medico.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2010/11)
Le Comunità di Pratiche, anche in questo caso, possono essere degli strumenti fondamentali per riflettere su quello che Freidson (2002) ha chiamato "la dominanza medica", e per far lavorare assieme forme diverse di sapere in azione che possono coesistere anche nellambito di una (irri- solvibile?) dissonanza.
Ri-costruire l'identitàprofessionale degli infermieri attraverso l'analisi di tre concetti chiave
Dalle riflessioni degli studenti sopra indicate, un dato appare chiaro: una "buona assistenza" non significa erogare uguali quantità e qualità di presta- zioni a tutti i pazienti, ma dare a ciascuno secondo il proprio bisogno. Ma quale è, e come si misura (se si misura), questo bisogno?
La nostra società occidentale attuale, che a ragione viene chiamata "liqui- da" (Bauman 2011), si presenta continuamente nella sua forma plurale, asim- metrica e dinamica: forme, modelli e tendenze le conferiscono l'aspetto di una enorme rete di significati che impongono all'operatore sanitario non solo di sviluppare nuove competenze, ma di riflettere sulla sua formazione lungo tutto l'arco della propria vita professionale.
I pazienti oggi, sono diversi, perché diverse sono le malattie e le patologie con cui si trovano a dover combatiere, perché diversi sono i canoni imposti dalla società, e quindi diversi sono i valori e ció che una persona si aspetta dall'in- fermiere. Oggi abbiamo a che fare con un mondo affollato ed in costante cam- biamento fatto di persone eterogenee, di sesso, colore, nazionalità, credenze e tradizioni religiose (...)· Pensando al tirocinio ed analizzando le persone che mi sono trovata di fronte (dalla persona anziana, alla donna con il burqa, all'uomo che non voleva farsi lavare se non dalla moglie, e cosi via), ho capito che siamo immensamente diversi e complicati, e che solo attraverso la cono- scenza e la comprensione di tutte le componenti di un individuo potro dare il meglio di me stessa nella mia futura attività.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2011/12)
In tale contesto, le problematiche cui va incontro un paziente migrante sono tante: capire e imparare una nuova lingua, ricostruire una vita senza una adeguata rete di protezione familiare e comunitaria, superare l'abbandono e la nostalgia per la propria terra, affrontare la solitudine e il pregiudizio, ecc9. A questo si aggiunge la difficoltà di incontrare un "contenitore" culturale dove depositare, e poi condividere, la propria identità10, e dove trovare dei riferi- menti culturali da riprodurre attraverso pratiche quotidiane11.
Primo passo quindi è capire chi abbiamo di fronte, spendere quei cinque mi- nuti in più parlando con i familiari o con il paziente stesso; nel caso in cui il paziente sia extracomunitario capire il livello della lingua innanzitutto atti- vandoci, sempre nei limiti, a risolvere questo ostacolo, capire il vissuto del paziente, chi era, cosa faceva, perché ora sta qui, che malattia ha, conoscere parzialmente almeno la cultura di provenienza, tenendo conto di eventuali riti o semplici comportamenti che potrebbero forse in qualche modo aiutarlo a sentirsi a proprio agio, individuare la professione e il ramo sociale da cui proviene (...); perché é vero che in linea di massima chi è ricoverato in un ospedale è un paziente, ma prima di essere un paziente era un uomo che aveva una posizione sociale e culturale.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2011/12)
Per gli infermieri dunque, focalizzare l'attenzione sulle differenze e le simi- larità tra le culture in relazione alia salute, alla malattia, agli schemi di cura e ai valori di una particolare società, appare fondamentale per risolvere le atiese assistenziali dellutente. Non pensó comunque che questa figura professionale debba risolvere il suo compito in una contestualizzazione di tipo descrittivo ed esplicativo circa le diverse abitudini culturali attorno allassistenza12, ma più propriamente studiare le dinamiche relazionali, le possibili incomprensioni, i pregiudizi che si vengono a creare quando incontra pazienti portatori di cor- nici culturali differenti, in modo che -in un processo di tipo ermeneutico- il bisogno di assistenza possa essere "pre-compreso", cioè intuito prima che pos- sa manifestarsi in un modo conflittuale. Questa lógica trascende le risposte dicotomiche caratterizzate da un approccio infermieristico riduzionista, e fa emergere un conflitto da interpretare dove tendenzialmente altri vedono solo un compito da svolgere o un problema da evitare.
Appare dunque evidente che gli infermieri si trovano spesso ad affrontare problemi sconosciuti, e che questo incontro/scontro procura a volte la sen- sazione che se per un verso si è aperti alla possibilità di provare a cambiare i propri schemi di significato per interpretare in un modo più profondo una determinata situazione, dallaltro si vive con paura per le conseguenze che quell'agire potrebbe avere. Questa "modalità" ci ricorda nuovamente che 1 e- sperienza, spesso, appare molto più complessa della teoría, e che l'agire pro- fessionale non è legato soltanto funzionalmente alia cura del paziente, ma è influenzato anche dal modo in cui gli altri giudicano/potrebbero giudicare l'operato del soggetto.
In estrema sintesi, mi sembra si possa dire che non esiste una metodología di nursing che vada bene per tutti, ma che è necessario cercare, anche attra- verso l'utilizzo di competenze trasversal!, di risolvere le attese assistenziali dell'utente (soprattutto se migrante). Le narrazioni degli studenti riportate ci ricordano, con la loro combinazione di incomprensioni reciproche e "buone pratiche", che il nursing è un processo di ricerca scientifico e di costruzione di senso che mette continuamente in una relazionale dinamica l'infermiere, i di- versi utenti, la comunità e lambiente, e che in tale relazione i modelli culturali di riferimento, il tempo storico-sociale e i vissuti dei protagonisti hanno un ruolo fondamentale nella risoluzione positiva del rapporto.
Al tirocinio ho notato che le persone anziane, con i loro "antichi" valori e soprattutto la loro credenza religiosa, spesso assumo atteggiamenti che per noi possono sembrare aggressivi, ma che per loro sono solo delle abitudini quotidiane délia loro vita passata. (...) Vi sono poi i pazienti che hanno diversi credi. Alcuni di loro la mattina o la sera prima di addormentarsi hanno biso- gno di avere un po' di tempo per pregare, forse in maniera piuttosto esplicita come fanno le persone di religione islamica. Noi infermieri, prima di tutti, dobbiamo accertarci del credo délia persona che abbiamo in carico, al fine di favorire nel miglior modo possibile la possibilità di esercitare la propria fede con liberté, naturalmente rispettando dei limiti...
Visto che viviamo in un mondo sempre più interculturale, dove la "razza" non esiste più, "l'altro" non deve essere visto come nemico, un invasore, ma accolto come persona, per altro soggetta a una patología che ha bisogno di immediata ed efficiente assistenza.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2010/11)
II dolore
Il primo passo verso la consapevolezza della malattia va ricercato in una sensazione di malessere e di disagio, la cui esperienza più rudimentale e pri- mordiale risiede proprio nel dolore. Questa esperienza è sicuramente condivi- sa con il regno animale, ma noi uomini non vi reagiamo in modo puramente biologico, essendo le nostre risposte legate anche alla cultura del nostro grup- po di appartenenza.
Come ho già avuto modo di sottolineare altrove (Orefice 2011:142-149), riflettere su questo aspetto significa non solo approfondire le basi anatomiche e fisiologiche della concezione del dolore, ma anche domandarsi come questo influisca sulla condotta di chi ne è assalito, sui suoi valori e sulla trama sociale e culturale in cui è immerso. In questo processo di interpretazione, l'infer- miere è avvantaggiato rispetto al medico, non solo per una vicinanza strate - gica al malato e al suo dolore, ma anche perché, a differenze di quest ultimo, non è vincolato da una diagnosi física e quindi il suo sguardo puô essere più pronto a coglierne i diversi significati. Nel momento infatti in cui l'approccio medico diventa condizionato da unapre-comprensione del dolore, il professio- nista non solo stabilisce se una persona sia malata o meno, ma decide anche se debba sentire dolore. La stessa terapia del dolore mostra, a volte, questo evidente limite di riferirsi al fenomeno, piuttosto che al soggetto che lo prova, considerando appunto quest ultimo come un semplice oggetto da contrallare attraverso tecniche farmacologiche e chirurgiche. Diversamente, quando que- st» non appare possibile, mediante la gestione e il controllo del dolore si tende invece a considerarlo come parte délia persona e del suo vissuto, per cui oltre che del soggetto si tiene conto anche del suo ambiente familiare e del suo vis- suto. Questa "ambiguità", rispetto alla "misurazione" del dolore, evidenzia in maniera palese i limiti di quella razionalità técnica di cui stiamo discutendo, ed appare evidente nel racconto di uno studente che riveste la duplice veste di "paziente" e di "studente-tirocinante".
Nella mía esperienza personale mi sono già confrontata con questo aspetto, ogni volta che mi sono recata nell'ambulatorio del Medico di Medicina Ge- nerale; in particolare qualche anno fa, quando ancora frequentavo il Corso di danza (la danza rappresentava per me un qualcosa di molto importante), avevo un continuo dolore al ginocchio. Mi sono recata dal mió medico, cui ho descritto, oltre alla sede del dolore, anche la mia esperienza con la danza, arricchita di molti particolari che pensavo potessero essergli utili per fare la diagnosi e anche per capire la mia sofferenza, non solo per il dolore; alla fine il medico, come se non avesse la minima percezione di quello che provavo, mentre ha iniziato a compilare la ricetta, mi ha detto: "Quindi, ti devo pre- scrivere un antidolorifico?" La mia delusione è stata grande, anche perché tutta la mia sofferenza è stata banalizzata, racchiusa e conclusa in un piccolo pezzo di carta.
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2010/11)
Puô apparire inopportuno parlare di un "dolore infermieristico", come se tale fenomeno riguardasse, rispetto alla restante equipe sanitaria, soltanto gli infermieri, eppure è proprio da questo senso di "esclusività" che credo possa partiré una concettualizzazione del dolore da parte degli infermieri originale e féconda. Non trattandosi infatti di una questione solo formale, l'assunzione del principio della centralita e soggettività délia persona comporta decisio- ni cliniche metodológicamente coerenti e ci riporta, come già affermato in riferimento al processo diagnostico, all'idea che anche nella fase della pia- nificazione (cioè della scelta di obiettivi ed interventi finalizzati al soddisfa- cimento dei bisogni di assistenza infermieristica) è necessario rinunciare ad un modello rígidamente deterministico per la definizione dei protocolli di intervento, privilegiando invece risposte operative non standardizzabili. Non dico naturalmente che l'infemiere possa o debba sottovalutare l'importan- za clínica di quello che vede e misura il medico, ma che essendo più libero di cogliere altri aspetti del dolore (sociali, simbolici, ecc.) puô confermare quella premessa fatta precedentemente che lo vuole "ascolta(re), informa(re), coinvolge(re) la persona e valuta(re) con la stessa i bisogni assistenziali" (Co- dice di deontologia degli infermieri, 4.2).
La Sig.ra (...) ha 76 anni, vedova da 30 anni, è affetta da insufficienza arte- riosa agli arti inferiori. All'età di 23 anni adotta suo figlio che all'epoca aveva 8 anni. La precoce morte di suo marito l'ha costretta a crescere suo figlio da sola, senza l'aiuto di terzi e si è sempre data da fare: prima operaia, poi sarta, poi insegnante di italiano, poi cameriera ecc. ecc. La morte del padre ha risvegliato nel figlio il terrore dell'abbandono e della solitudine, tanto che si è attaccato emotivamente a sua madre in modo tale da non volere altre persone nella sua vita oltre a lei. Non si è sposato, non ha fatto figli. Adesso la madre soffre di un dolore lancinante, non puô più camminare perché le ulcerazioni a seguito dell'ipoperfusione di sangue alle estremità inferiori le hanno causato la gangrena di piedi e tibie, ha tendini e ossa esposti, conti- nuamente infetti. Pur sotto morfina 24 ore su 24, purtroppo non si riesce più neanche quella a darle sollievo dal dolore. Rifiuta il ricovero, gli interventi che potrebbero far cessare il dolore continuo (della scala VAS da 1 -dolore mínimo- a 10 -dolore massimo- ha sempre un 8) per non allontanarsi dal figlio, per non preoccuparlo ulteriormente, per non pesare ancor di più sulla sua sfera emotiva. La Sig.ra (...), per paura di pesare ancora di più sul figlio, ha deciso letteralmente di "moriré di dolore". L'infermiera che affiancavo, ed io, i primi giorni pensavamo che si rifiutasse per paura dell'intervento, per paura di sentire ancor di più il dolore. L'infermiera che l'ha sempre seguita continuava a dirmi che era inutile parlarle, che ormai era inamovibile nella sua decisione. Ci aveva provato, ma probabilmente non aveva ascoltato abba- stanza. Un giorno tornammo come sempre per medicarle le gambe e proprio quel giorno il figlio non era in casa e avevamo appuntamento con il medico per la visita congiunta. Il dottore era in ritardo tanto che è arrivato dopo 45 minuti. In questi 45 minuti abbiamo avuto modo di parlarle, di chiedere del marito, del figlio. Lei raccontava la sua vita, si lamentava della decadenza del suo corpo un tempo florido e prosperoso, parlava dell'impossibilitá di trovare soluzioni che andassero bene sia a lei che a suo figlio. Non aveva mai parlato del figlio in quei termini. Ci spiegô quanto fosse spaventata all'idea di doverlo lasciare, quanto fosse terrorizzata all'idea di un intervento chi- rurgico. A questo punto l'infermiera cambió discorso, io invece le chiesi: "ma allora non si vuole operare per via del suo figliolo, non perché non abbia fiducia nell'interventoü" "Bambina -rispóse- fosse per me le gambe me le sarei fatte tagliare 2 anni fa! Lo vedi come mi son ridotta? Cosa vuoi che me ne freghi di avere due gambe inutili che mi impediscono addirittura di dormiré la notte o di andaré al bagno da sola quando potrei avere 2 protesi, brutte eh!, ma che mi renderebbero la mia vita e la mia gioia?" La Sig.ra (...) non aveva mai parlato di quel che avrebbe voluto per se stessa, è bastato farle una domanda per capire che aveva solo bisogno di una mano ma non per se stessa, ma per suo figlio.
Abbiamo parlato con il medico, abbiamo parlato con il figlio, poi con tutti e tre insieme, "a tavolino", abbiamo messo insieme tutto e il giorno (...) è stata operata. So che ha ripreso 20 chili, che la notte dorme, che fa fisioterapia ac- compagnata dal figlio tutte le volte. Chissà, forse se non l'avessimo ascoltata come e dove sarebbe adesso, come starebbe suo figlio. L'infermiere ha il dovere di andaré oltre. Spesso i pazienti neanche si rendono conto di quel che hanno bisogno, siamo noi che dobbiamo capirlo, noi dobbiamo e possiamo aiutarli. (Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2011/12)
Questa capacita di "ascolto" dell'infermiere, che nei confronti del paziente migrante necessita ancora di maggiore più attenzione, ci permette di parago- nare questa figura (al pari degli altri professionisti della salute e della cura) ad un etnógrafo (Good 1999) che sente parlare il paziente, ne ascolta i silenzi, le omissioni, le posture e le espressioni, ricordandoci cosi che anche il dolore, come la malattia, non è soltanto un fatto biologico.
Esistono molti tipi di sofferenza: esiste quella fatta di urli, strilli, pianti e lamen- ti, quella silenziosa oppure malinconica, la sofferenza "senza veli"....insomma esiste una sofferenza diversa per ciascuna persona del mondo. Ognuno di noi ha quindi il diritto di scegliere come poter affrontare il proprio "dolore", ed è proprio in questo contesto che si inserisce la figura del professionista come guida nella gestione di tale sentimento. L'infermiere non deve scegliere come affrontare la sofferenza al posto di altri, ma deve offrire il proprio aiuto per cercare di abbattere ció che impedisce alia persona di essere felice, anche nei casi più estremi, come ad esempio quello di una malattia terminale. (Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2010/11)
La nascita
Una importante occasione di incontro tra culture nei contesti sanitari è rappresentata dal periodo della gravidanza e dal parto. Come già ho avuto modo di accennare nei paragrafo precedente, il crescere dei fenomeni di sta- bilizzazione migratoria ha portato sempre più donne straniere ad affrontare questa esperienza nei Paesi di accoglienza. II momento della nascita ci intéres- sa particolarmente, non solo perché costituisce il passaggio dalla vita organica condivisa fisiológicamente con la madre alia vita organica indipendente del figlio/a, ma anche perché è un evento naturale che si innesta come punto di raccordo tra la natura e la cultura, nei senso che viene vissuta e gestita secondo modalità culturali differenti.
Questo aspetto, ha fatto in modo che negli ultimi anni i consultori e gli ospedali di moite importanti città italiane si organizzassero per fronteggiare problemi e questioni sollevate dalla presenza di giovani donne di nazionalità straniera che chiedevano, e tuttora chiedono, di essere aiutate nei percorso di gravidanza, cosi come nei periodo immediatamente successivo al parto. A fronte di ció, la necessità -sempre più pressante- è dunque quella di riformu- lare l'approccio alla maternità nelle strutture ospedaliere in modo che si tenga sempre più conto di alcune variabili connesse aile culture di appartenenza delle partorienti, del tipo di domande e di preoccupazioni specifiche poste da queste donne, del rapporto (spesso controverso) che esse intrattengono con l'ospedalizzazione e con l'autorità medica, fino ad arrivare a difficoltà di tipo lingüístico-comunicativo. Anche in questo caso, il racconto di uno studente che riveste la duplice veste di "paziente" (non italiano) e di "studente-tiroci- nante", ci offre spunti di riflessione.
Sono uscita dalla porta, quelle due infermiere che mi hanno accompagnata non c'erano più e piano piano sono arrivata al mió lettino da sola. Poco dopo è passata un'infermiera, mi ha vista nei letto, si è avvicinata e mi ha detto: "Senti, non sono io che ti devo aiutare a camminare e a vestirti, qui con te deve stare la tua mamma!" Le ho detto che purtroppo mia mamma al momento sta in Russia e quindi non puó affiancarmi. Allora l'infermiera si è espressa più chiaramente, dicendomi che a quel punto anch'io avrei dovuto partorire in Russia. Ho risposto che invece non potevo farlo dato che il mio marito è italiano, che sta in Italia e io sto qui con lui. L'infermiera non sembrava con- vinta anzi, si è arrabbiata ed ha esclamato che "tutti gli stranieri sono uguali, perché non appena vengono in Italia, iniziano a comandare", dopodiché mi ha consigliato (mettiamola cosí) di tornare al mío paese. Allora sono rimasta senza parole...
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2009/10)
Questo momento cosi significativo dell'incontro interculturale, non sem- pre esente da tensioni e disturbi comunicativi, mi pare che anche in questo caso abbia valenze molteplici che attengono in maniera molto forte con l'iden- tità professionale dell'infermiere.
In primo luogo, affidarsi per una questione cosi importante e delicata nelle mani di un infermiere autoctono (meglio se donne, preferite nella maggior parte dei casi), significa per una donna poter maturare verso la comunità di accoglienza un debito di riconoscenza e un sentimento di fiducia che potrà trasferirsi anche ad altre situazioni13. Inoltre, se si pensa che nei momenti del parto e délia gravidanza gli uomini immigrati (padri, fratelli, ecc.) molto spes- so risultano esclusi per ragioni essenzialmente legate alle tradizioni culturali d'origine che pensano al parto come una "cosa da donne", questa esperienza puô rappresentare anche un momento di incontro più libero e meno control- lato delle donne con la cultura di accoglienza14. E' quindi sempre il corpo, in questo caso femminile, a rappresentare non solo il bilancio di un esperienza migratoria che va ascoltata e decifrata, ma anche simbólicamente un terreno di confine (attraverso cui passano figli, fluidi, ecc.) che facendo leva sulle speci- ficità di genere, sulle comuni e forti esperienze délia maternità e dell'educazio- ne dei figli, ecc., permette aile donne di diventare soggetti attivi nel recupero di saperi tradizionali e nell'individuazione di nuove Strategie per affrontare i conflitti e delle tensioni in ámbito sanitario.
In secondo luogo, anche per l'infermiere condividere con queste don- ne un momento cosi importante ed intimo, conoscerne le ansie e le emo- zioni, puô rappresentare un modo per conoscere i migranti sotto un altro punto di vista15.
Tutt'altra cosa rappresenta, invece, un interesse da parte dell'infermiere verso la cultura e la nazionalità del paziente con lo scopo di aiutarlo a guariré più efficacemente e più rápidamente. Sapere chi si ha davanti (in senso étnico e culturale), non per "poterlo mandare al paese di provenienza", ma per capirlo meglio e quindi essergli più utile, (ibid.)
È questa una strada sicuramente difficoltosa, e come gli infermieri sanno piena di momenti di sconforto e di resistenza, ma che vale la pena percorrere. Nelle narrazioni di questi studenti è presente in nuce l'idea, del tutto auspica- bile e da coltivare, che il periodo délia gravidanza e del parto puô assumere la forma di uno spazio di interazione tra le culture, uno spazio non solo molto più produttivo di quello che ci viene presentato nei teatrini délia política, ma anche più femminile che maschile, dove le donne rivestono un ruolo cruciale di mediazione tra codici e di riduzione dello scontro tra ordini di riferimento e valori diversi.
Vorrei infine chiudere questa breve riflessione sulla nascita con una narrazione che non proviene direttamente dagli studenti con i quali ho avuto a che fare in questi anni, ma che rappresenta un eccellente esem- pio di come la cosiddetta "conoscenza pratica" del corpo infermiere non possa essere solo teórica e scientifica, in quanto tocca ineludibilmente gli aspetti metodologici, filosofici ed etici dell'assistere. L'esempio riportato riguarda la gestione délia sessualità e il controllo délia capacità riprodut- tiva da parte delle donne immigrate (non di tutte, naturalmente, e non solo di queste), aspetti prettamente legati all'agire infermieristico. Esso è importante perché "interpreta" uno specifico problema legándolo in- dissolubilmente alle problematiche di genere, ad uno stato sociale di sot- tomissione e debolezza, alla possibilità e capacità, da parte delle donne, di negoziare col partner l'utilizzo di un método contraccettivo, nonché a specifici modelli culturali di riferimento rispetto alla maternità e al ruolo femminile nella famiglia e nella società.
Edith è una giovane nigeriana; ha 25 anni e da circa tre si prostituisce in una città del nord Italia. Si è appena rivolta all'ospedale per un'interruzione di gravidanza. E' la quarta volta. Gli operatori ormai la conoscono, e si chiedono cosa fare. E' possibile che non ci sia modo di farle capire come si fa a non avere figli, senza ricorrere all'IVG?
C'è una psicologa che si offre di parlare con lei, e che riesce a stabilire un rapporta cordiale. Cosi viene a scoprire che Edith sa benissimo come fare per evitare le gravidanze indesiderate. Prende regolarmente la pillóla e fa usare il preservativo ai suoi clienti. Solo che, dopo un po' di mesi, si préoccupa: le "me- dicine" che prende le faranno maie? Sarà ancora in grado di avere figli? Allora interrompe ogni método contraccettivo, fino all'inizio della gravidanza. A quel punto si rassicura: puó ancora avere figli. Va a fare l'IVG e ricomincia da capo, (in Mazzetti, 2003, p. 110)
La morte
Nel suo Frammenti di etica (1922), Benedetto Croce scrive:
«Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? "Dimenticarli", risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza délia vita. "Dimenticarli", conferma l'etica. "Via dalle tombe!", esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. ? l'uomo di- mentica. Si dice che ció è opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppo ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè ad un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo dimenticare e dimentichiamo...».
Comincio da questa riflessione perché una, forse la più potente e prepoten- te, contraddizione che segna inesorabilmente il sapere infermieristico riguar- da proprio il problema del "fine vita". Non mi riferisco qui a conflitti ideologi- ci o a impostazioni di tipo religioso, e non voglio ricondurre il discorso dietro gli steccati délia liceità e deH'illeiceita, ma a quella realtà délia morte, a quel bi- sogno, tutto umano, di unafinitudine sensata, che chiede risposte alla scienza, ai medici, alle strutture ospedaliere e, forse, in una maniera ancora maggiore, agli infermieri che, per statuto, "accompagnano" molto spesso il malato verso il suo ultimo viaggio. In Italia (come in quasi tutti i Paesi industrializzati), oltre il 70% délia popolazione muore in regime di ricovero presso strutture sanitarie, dove quindi passa l'ultima parte délia vita16. In tale contesto, l'infer- miere non puô non assumere una funzione fondamentale, poiché si assume spesso la principale responsabilità di gestire la presa in carico del paziente e la risposta ai suoi problemi, garantendo a lui e ai suoi familiari l'appropriatezza dellassistenza, delle cure e déliarelazione di aiuto.
Ho già evidenziato come la morte e il moriré rappresentino, oggi come ieri, eventi a forte impatto socioculturale, e come siano accompagnati da un complesso di comportamenti, atteggiamenti, riti, rappresentazioni e simboli che vanno interpretad (Orefice 2011). Quello che vorrei fare qui è riflettere meglio sullapproccio degli operatori sanitari (nel nostro caso gli infermieri) allassistenza al morente, affrontando la questione in una duplice ottica.
La prima riguarda la cosiddetta "oggettivazione professionale" cui questi sono portatori, che spesso sfocia in comportamenti e atteggiamenti di profes- sionalità esasperata e di deriva tecnicistica (e puô portare fino allaccanimento terapéutico) e che è figlia, anche lei, del modello délia razionalità técnica di cui stiamo discutendo. Se infatti il moriré sfugge alla verifica sperimentale, in quanto il ricorso esasperato alia tecnología non permette di dare un signi- ficato alle malattie (che ripropongono sempre le medesime domande: "perché io?", "perché ora?", "perché in questo modo?"), evitare di pensare alla morte, o di paríame, non immunizza dal suo potere e non contribuisce a trovare altri margini di soluzione.
Ricordo che al primo anno, durante situazioni drammatiche come la morte di alcuni pazienti, vedendo i familiari afflitti dalla perdita di un loro paren- te, provavo anch'io quella sensazione di dolore...Trattenevo le lacrime ma era forte in me quella voglia di piangere per sfogare ció che io provavo in quel momento.
? proprio in quei momenti chiedevo agli infermieri: "Come fate ad essere cosi forti e freddi di fronte a queste situazioni", e un infermiere una volta mi rispó- se: "vedrai, piano piano anche tu creerai la tua corazza, che ti permetterà di affrontare in questo modo le situazioni..."
(Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2009/10)
Nonostante infatti si faccia di tutto per dare un significato alla malattia e alla morte attraverso un ricorso esasperato alia tecnología, le storie narrate direttamente dalla voce degli infermieri illustrano chiaramente che esiste un carico di decisioni e di scelte che pesano, al di là dellorganizzazione forma- le, su questa figura professionale, ed essi chiedono (come fanno i pazienti) di sottrarsi a vecchie e superate visioni ontologiche sulle quali la medicina è andata costruendosi. In definitiva, mi sembra che l'ostracismo cui assistiamo quotidianamente ottiene, come único risultato, la limitazione degli strumenti utili per fronteggiare la morte dándole un senso, e cosi facendo pone il singolo operatore davanti ad una mancata elaborazione emozionale che finisce molte volte per travolgerlo.
? vengo dunque al secondo aspetto da trattare. Esso riguarda il tentativo di rimettere in discussione le forme e le modalità dellassistenza, specialmente in ospedale, alio scopo di porre una maggiore attenzione ai valori culturali che si manifestano durante l'accompagnamento del morente. Benché infatti vi siano una serie di atti formali che decretano la cessazione della vita, esistono anche una serie di momenti (che vanno dalla conservazione del cadavere alla sua tu- mulazione) che costituiscono le fasi che ne ritualizzano la costruzione culturale, dimostrando cosi che gesti, atteggiamenti e orazioni, non solo servono al mala- to per dare un qualche senso di vita alla sua condizione e alla sua contingenza, ma diventano anche fondamentali, una volta che la morte di questo è giunta, per dare ai vivi la possibilité di elaborare il lutto, per assegnare al defunto una collocazione definitiva, per ritrovare e rinsaldare radici comuni e per risolvere conflitti rimasti latenti17. In quest ottica, leggere le rappresentazioni simboliche délia morte come un universo di significad che servono a spiegarla, puó aiu- tare a de-costruire quella "oggettivazione professionale" che ingabbia molti dei comportamenti degli infermieri, che altro non sono se non una sorta di "tra- duzione operativa" dei significati che la propria comunità professionale tende a dare all'evento morte. Ritornano qui in modo prepotente le potenzialità peda- gogiche che le Comunità di Pratiche, orientate ad un "educare alla morte" cosi inteso, possono avere nel momento in cui garantiscono all'infermiere, anche attraverso eventi di pratica quotidiana, Femergere di certi vissuti emozionali e una riflessione circa la costruzione culturale délia sua e dell'altrui idea di morte.
In questo ámbito mi sembra particolarmente importante che le Comunità di Pratiche riflettino anche sulla stessa "coreografía délia morte", in quanto Faumento del progresso scientifico e tecnologico di cui si sta discutendo ha avuto, necessariamente, un riflesso sulle pratiche esteriori del lutto che sono permesse (o non permesse) in ámbito sanitario. La paura e il rifiuto délia morte infatti, dovuti a quella incapacità di riuscire a darne un significato ricorrendo ad un esasperato uso délia tecnología, ha fatto in modo che le formule (anche le nostre) di lutto venissero limítate al massimo, o si semplificassero, per non tradire questo fallimento che il modello bio-medico racchiude in se. Eppure la morte è li, ripugnante e vergognosa, e i rituali del lutto che ne tradiscono la presenza, anche se ritenuti "imbarazzanti", la ricordano quotidianamente, e se ci ostiniamo a deluderli finiscono spesso per causare il contrario di quella comprensione e protezione sociale che avrebbero invece dovuto favorire18.
Conclusioni: le sfideformative
Con il presente lavoro ho posto Fattenzione su alcuni concetti attraverso e sui quali Fidentità professionale degli infermieri si è andata strutturando. Nel sottolineare che questo sapere, nel momento in cui ha pensato e guardato il corpo principalmente come un'insieme di organi osservabili e misurabili in virtù dell'evoluzione délia tecnología applicata alla medicina, ha iniziato a dare "per scontato che tra i requisiti di una professione rientr(i) la capacità di agiré sulla base di un corpo di conoscenze al tempo stesso astratto, autonomo, ed in qualche misura esoterico" (Fargion 2002, p. 24), ho evidenziato i limiti di questo modello. Análogamente, ho fatto mía l'idea che la presenza di un'u- tenza straniera, sempre più massiccia, nei nostri contesti sanitari, ha permes- so invece di iniziare a "recuperare" -non senza fatica e contraddizioni- parte di quegli elementi che questo modello della bio-medicina ha tenuto in dispar- te. A fronte dunque di una crescente diversificazione étnica e culturale, agli infermieri è stata chiesta non solo una fondamentale e urgente capacita rela- zionale che si pone, abbiamo visto, come una competenza trasversale rispetto aile specifiche competenze tecniche possedute, ma anche di ripensare sempre meglio il tradizionale rapporto operatore (soggetto) - paziente (oggetto).
Affrontare i contesti di cura in una prospettiva multiculturale significa in- fatti ripensare nuove epistemologie per ri-comprendere le professioni sanita- rie, attraverso nuovi modelli che prendono forma nelle relazioni professionali costruite dagli operatori medesimi nel corso delle loro pratiche professionali quotidiane. Non si tratta peró di una "riflessività" che si sviluppa a livello intrapersonale, ma aU'interno di un processo tácito19 che spinge gli operato- ri a riflettere sulla "dimensione personale dell'esperienza professionale" (de Mennato 2005, p. 21). Questo aspetto, di fondamentale importanza, richiama a sé la dimensione tacita della conoscenza condivisa aU'interno di una comu- nità professionale sulla quale si costruisce il senso dell'agire professionale di ciascun operatore. Si impone dunque un "cambio di rotta" nei confronti di quell'individualismo onotologico ed epistemologico (Freidson 2002) che vuole il professionista della salute tendende a privilegiare, nelle sue pratiche, uno stile di assistenza che vede i pazienti come soggetti dipendenti, marcando cosi sempre più quella asimmetria nello spazio di cura che pone da una parte colo- ro che possiedono le conoscenze e il potere, e dall'altra i pazienti bisognosi di terapie. Rispetto al paziente migrante (ma non solo), superare tale asimmetria significa quindi riuscire da un lato a metiere in comunicazione due sistemi rappresentazionali diversi (quello prodotto dal sapere professionale e quello "profano"), dall'altro progettarenuovi dispositivi formativi -mediante lapar- tecipazione attiva delle diverse professionalità comprese nei contesti di cura- attraverso i quali "riconfigurare" una identità professionale diversa da quella che l'esclusiva "padronanza pratica e scientifica" fornisce.
Il processo di riconfigurazione dell'identità professionale degli operatori della cura deve quindi prevedere non solo le istanze di un proprio sapere spe- cialistico, ma anche la comprensione del punto di vista del migrante, il qua- le elabora rappresentazioni culturali della propria condizione di malato che possono portare, anche se i η alcuni casi appaiono profondamente diverse da quelle dell'istituzione medico-snaitaria nella quale questo si trova, comunque ad un aumento dellefficacia dell'intervento terapéutico. Va ricordato, a tale proposito, che avvicinarsi ai sistemi di significato del paziente immigrato non sempre permette una piena esplicitazione e comprensione di quanto questo intende comunicare. Da qui la necessità, da parte dell'operatore, di interro- gara sulla validità del modello relazionale trasmesso dalla bio-medicina, cosi da incorporare nel proprio habitus professionale una capacita ermeneutica- interpretativa che gli permetta di decifrare non solo i significati emessi dal paziente immigrato, ma anche il suo modo, culturalmente condizionato, di narrare i sintomi e di attribuire le cause agli eventi di cura.
A partiré da queste premesse appare quindi possibile ripensare l'identi- tà degli infermieri (e dei diversi professionisti della cura) in una prospettiva multiculturale, cioè una prospettiva che è resa possibile attraverso momenti di scambio e di negoziazione sociale, attraverso le quali questi operatori possono riflettere sul proprio agiré e sulle proprie pratiche adottate nel lavoro di cura con i propri pazienti.
Ma c'è di più. Intraprendere un processo di condivisione tra punti di vista diversi espressi dai vari infermieri intorno a concetti quali quelli di dolore, morte e nascita (oltre che inerenti l'idea di salute e di malattia), cosi come negoziare possibili soluzioni rispetto a tali concetti, significa andaré contro un'orientamento nelle pratiche sanitarie, abbiamo visto molto diffuso, che vuole i luoghi di cura sempre più razionali e scientifici, e le procedure e i si- stemi di contrallo sempre più complessi. Il prodotto di questo atteggiamento ha reso sistemática l'idea che le strutture sanitarie debbano necessariamente rappresentare delle comunità ansiogene, che vengono percepite dalla persona sofferente come una ulteriore minaccia nei confronti di quanto questa ha di significativo in ámbito relazionale, familiare, sociale, lavorativo e materiale.
Mio nonno, (...), cittadino albanese, ricoverato all'Ospedale Maggiore di (...) per una sospetta massa neoplástica che gli stava "soffocando" il cervello. Fatti gli esami diagnostici del caso, appurato e diagnosticato dunque la presenza di questo enorme male che stava cominciando ad inglobargli Tintero emisfero si- nistra del cervello, si decidette dunque di procedere all'intervento chirurgico. Tutto ció significava soltanto una cosa, una lunga degenza, lunghissima, nella speranza di arrestare la progressione del cancro (uso il termine cancro e non tu- more maligno perché credo renda molto meglio sensazioni di dolore e terrore). Non scorderó mai l'espressione vuota di mió nonno durante uno dei suoi pri- mi momenti da ricoverato in quella stanza di quell'ospedale, tanto lontano e sconosciuto dalla sua amata terra. La cosa più terribile nel decorso della sua malattia fu sempre un continuo altalenare tra momenti di impressionante lu- cidité, costellati di vecchi ricordi, aneddoti e vecchie nozioni vissute e apprese chissà quanti anni prima, con momenti invece di disarmante disorientamen- to, allucinazioni, e una lunga serie di frasi incompiute che lasciavano spazio all'imbarazzante e doloroso silenzio di chi gli stava intorno. Curioso era pero che sia durante i momenti di lucidité, che durante i momenti di perdita di concezione spazio-temporale, veniva sempre espresso un único desiderio, in modo piu calmo nel primo caso, in modo più agitato nel secondo, ma sempre mió nonno chiedeva di poter tornare a casa sua, sempre si lamentava di come spesso e volentieri veniva trattato non in modo gentile ed educato dal perso- nale medico-infermieristico, dirô la verità più dal personale infermieristico, di come non riusciva a farsi intendere quando aveva bisogno di qualcosa, vuoi per le grossolane difficoltà linguistiche, ma molto anche per il poco tempo (a loro detta) degli infermieri. Allora succedeva spesso che lo trovassimo ac- cucciato in un angolo del letto, in una posizione completamente innaturale e scomoda, che chiedeva invano un sorso d'acqua da alcune ore.
Era curioso (per usare un eufemismo) vederlo in quello stato, irriconoscibile, mio nonno che fino a tre mesi prima del ricovero era su un palcoscenico a svolgere la sua professione di attore, mio nonno imponente figura maschile, carismatico, intraprendente, solare, allegro, considerate da tutti uno dei più grandi nomi del cinema e del teatro nazionale, ora la stessa persona era li su quel letto, taciturno e triste, senza più una identité, senza più sapere dove fosse o cosa avesse, a volte senza più ricordi, uno dei tanti pazienti di un vecchio reparto di neurochirurgia di un vecchio ospedale del nord Italia, lontano mi- gliaia di chilometri dalla sua casa, dalla sua gente che tanto lo amava. (Uno studente, CdL in Infermieristica, a.a. 2011/12)
Appare evidente che per limitare il più possibile situazioni come quelle narrate siano necessarie specifiche competenze relazionali, capacita di ascol- to e di comunicazione, competenze professionali cioè di tipo riflessivo che si configurano, come abbiamo visto riferendoci alie Comunità di Pratiche, soprattutto attraverso percorsi personali di riflessione sull'esperienza e di confronto-incontro con i saperi esperti formalizzati a livello scientifico, o in- carnati nella pratica professionale (de Mennato 2011). È in tale ottica che la relazione di cura puó diventare un luogo nel quale avviene un processo di ela- borazione continua di significati, di punti di vista, convinzioni e credenze20, un luogo cioè nel quale tutti i soggetti coinvolti - l'infermiere, i diversi pro- fessionisti sanitari, i mediatori culturali21, il paziente immigrato, la sua fami- glia, i rappresentanti delle rispettive comunità, ecc. - sono chiamati ad aprirsi all'incontro, alla conoscenza e al rispetto delle reciproche diversità.
Carlo Orefice, "Pain, birth and death" in a multicultural perspective. Educational considerations on some key-concepts in the professional identity of nurses
Despite nursing knowledge requires solid expertise in a wide range of fields (e.g. from clinical practice to the language of healthcare organizations, from differ- ent healthcare provision models to diverse ways of knowing the disease, up to a series of highly topical issues, such as medical errors, inormed consent, aggres- sive treatment, etc.), in this essay the author reflects, starting from his own ex- perience of university teacher and researcher in nursing, on three key-concepts (pain, birth, death) on which and through nurses have structured, not without contradictions, their professional identity.
1 II presente lavoro si collega ad una pluriennale esperienza didattica maturata nei Corsi di Laurea in Infermieristica (Pedagogía Generale e Discipline demoetnoantropologiche) presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Firenze. Le "restituzioni" degli studenti riportate riguardano ilaboratoririflessiviche hanno accompagnato, o concluso, i corsi tenuti dalla prof.ssa P. de Mennato, titolare dell'insegnamento di Pedagogía Generale.
2 In particolare, mi riferisco alla creazione del Laboratorio di Medical Education (diretto dalla prof.ssa P. de Mennato), da poco nato presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Universitá di Firenze, con l'intenzione di sperimentare e introdurre nuovi modelli di apprendimento riflessivo nel campo della formazione dei professionisti della salute e della cura. II Laboratorio infatti, attraverso una serie di attività di ricerca che si stanno portando avanti, la creazione di specifici prodotti didattici (anche a forte valenza multimediale) e la partecipazione ad attività di formazione e networking, si sta configurando come una struttura capace di promuovere l'innovazione nel campo della formazione medica e sanitaria, cosi come la riflessione consapevole sulle e nelle epistemologie professional! nei contesti sanitari. In tale ottica si inserisce anche la recente creazione di un Archivio filmico per la formazione medica che raccoglie e ordina, in una modalità opportunamente fondata e giustificata sul piano progettuale e metodologico, brevi sequenze video legándole ad alcuni dei temi specifici della formazione medica. Per ulteriori approndimenti si rimanda al sito web del Laboratorio: www.laboratoriodimedicaleducation-unifi.it.
3 Ho trattato parte dei contenuti qui proposti, in modo più articolato, in un recente lavoro a cui rimando (Orefice 2011), anche se in esso mi rivolgevo a tutti gli operatori della salute e della cura che operano in ámbito sanitario e non solo agli infermieri.
4 Va qui sottolineato, ed è bene farlo all'inizio del presente lavoro, che ogni gruppo -compresi i gruppi etnici- è in rapporto con altri "creando diversi tipi di relazioni interculturali caratterizzate dalla complementarietà, la simmetria, la equità, la cooperazione, ma anche dalla competizione, l'asimmetria, lo scontro, la lotta" (Menéndez 2006:27). Rispetto dunque ai processi di salute/ malattia/cura sui quali normalmente, come studiosi, siamo portati a riflettere, quello che è importante fare non è tanto studiare tali processi in termini di interculturalità (che esiste nella realtà sociale dei gruppi, al di là del fatto che decidiamo di studiarla o di darvi una qualche denominazione técnica), ma "registrar(li) per apprendere dalla loro pratica" (ibid.).
5 Nello specifico, nell'Art. 2 viene detto che " l'infermiere riconosce che tutte le persone hanno diritto a uguale considerazione e le assiste indipendentemente dall'età, dalla condizionesociale ed economica, dalle cause di malattia" (art. 2.3), e che "agisce tenendo conto dei valori religiosi, ideologici ed etici, nonché della cultura, etnia e sesso dell'individuo" (art. 2.4).
6 Una Comunità di Pratiche è un incontro spontaneo e/o organizzato tra professionisti (nel nostro caso operanti nella medesima area ma in setting differenti: infermieri di chirurgia generale, ortopedia, urología, ecc.) che, attraverso una pratica riflessiva, critica e scientifica di esprienze apprese durante la propria attività professionale, formulano nuove conoscenze e nuovi saperi che, adeguatamente validati, verranno poi implementati in qualità di best practice.
Per un approfondimento su tali tematiche si rimanda, in bibliografía, ai lavori di Mezirow (2003), Cipolla e Artioli (2003), Gherardi e Nicolini (2004), Fabbri (2007).
7 Quando, più avanti nel presente lavoro, parlero di alcuni di quei concetti intorno ai quali si è andata costruendo l'identità professionale degli infermieri, questo aspetto ricomparirà con tutte le sue ambiguità. Risulterà infatti evidente che prendersi in carico i bisogni assistenziali dei pazienti significa, anche, saper leggere i significad che stanno dietro al soddisfacimento di bisogni primari apparentemente semplici e umili (il lavarsi, il mangiare, il muoversi, ecc.) e, in maniera speculare, saper leggere (se il nostro agiré educativo non fosse risultato efficace) riflessivamente i presupposti che hanno mosso la nostra interpret azione.
8 Sarebbe interessante riflettere in maniera articolata sul perché la nostra società viva, ormai da tempo, una mancanza di personale infermieristico quasi crónica. Mi domando se tale crisi abbia, tra i suoi motivi fondativi, oltre al fatto che le nostre società sono sempre più individualistiche, anche quello che non siamo quasi più capaci di produrre "cultura" intorno a ció che non sia specialistico e tecnologico, per cui quando cerchiamo di abbandonare questo modello, ne riproponiamo un altro, che nel nostro caso coincide con lo stereotipo dell'infermiera provocante e disinibita. La cosa lascia ancora più riflettere se si scopre che per una volta, a proporre un'immagine cosi sessista e discriminatoria, non è l'Italia ma la progredita Svezia. Qui infatti i dirigenti dell'ospedale Södersjukhuset di Stoccolma hanno pubblicato sul web un annuncio che informa come l'Istituto sia alla ricerca di aspiranti infermiere (solo per i mesi estivi) che, oltre a possedere professionalità e competenza, devono anche essere sexy e seducenti. Benché i vari dirigenti si siano affrettati a dire (sempre stando alle notizie riportate) che il loro scopo rimane "reclutare soprattutto infermiere competenti", e che si è trattato soprattutto di "una trovata di marketing", il dubbio sulla capacita del modello bio-medico di pensare "altro" da sé al di fuori di questi schemi in parte rimane.
Per approfondimenti: www.corriere.it/esteri/12_febbraio_22/tortora-ospedale-svedese_19d3 4400- 5d52-llel-8d58 29f34aaed5a4.shtml (accesso verificato il 24 febbraio 2012).
9 L'idea che l'esperienza migratoria rappresenti un evento capace di minare, anche profondamente, lo stato di salute del migrante nel paese di accoglienza, è ormai comprovata da numerosi studi. Tale attenzione sugli effetti che i processi migratori hanno sulla salute degli immigrati ci ricorda nuovamente che gli infermieri, e non solo loro, devono dotarsi di "strumenti interpretativi" (oltre che dei tradizionali strumenti clinici) attraverso i quali collocare la sofferenza del migrante in una dimensione che tenga conto non solo del disease (ovvero della malattia cosi come è intesa dalla scienza medica), ma anche della illness (cioè délia percezione soggettiva del "sentirsi malato").
Per un approfondimento su tali tematiche si rimanda, in bibliografía, ai lavori di Mazzetti (2003) e Baldi (2011).
10 Strutturare la propria identità è un processo che non solo si costruisce e si negozia conti- nuamente, ma che è anche soggetto ad una "verifica" culturale. In un mió saggio di prossima pubblicazione (Orefice 2012), ho riflettuto su come le catégorie di genere, le rappresentazioni della persona sessuata e la ripartizione dei compiti che conosciamo nelle nostre società oc- cidentali non siano fenomeni con valore universale generati da una natura biologica comu- ne, ma appunto costruzioni culturali. Queste problematiche mi sembrano particolarmente pertinenti per quanto qui stiamo discutendo, in quanto investono questioni di importanza fondamentale in ámbito sanitario (la procreazione assistita, il ruolo delle donne immigrate, le conseguenze dell'ailungamento della vita, i diritti delle "minoranze", ecc.) che riguardano direttamente (anche) gli infermieri.
11 II migrante, per non perdere la sua identità, "ricostruisce" uno spazio simbolico della sua cultura d'orgine attraverso modi e azioni che richiamano la sua tradizione. Nei contesti di cura il corpo, testimone di una realtà e memoria di una condizione, comunica moite volte questo possibile disagio in numerosi modi, ricordandoci cosi che esso è simultáneamente un prodotto físico e simbolico, naturale e culturale e inserito in un preciso contesto storico (Orefice 2011, pp. 123-132).
12 Sapere per esempio, come un giorno si premurava di ripetermi una studentessa durante una lezione, che è necessario conoscere cosa fanno le donne cinesi che vivono a Prato durante il parto e quali sono, in quei momenti, le ragioni di un loro determinate comportamento, non permette necessariamente di capire quali sono i processi di condizionamento socio-culturale in atto nelle diverse comunità interessate, quali le pratiche di prevenzione adottate, oppure di indagare il problema dell'efficacia di specifiche terapie durante la gravidanza.
13 Durante la nascita il momento délia separazione madre-figlio è difficoltoso e puô presentare inconvenienti che mettono in pericolo le vite délia madre, del bambino, o di entrambi. Questo "margine di rischio" - e la sua necessità di contrallarlo - puô essere seguito attraverso vere e proprie "ritualizzazioni" che consentono di agiré in maniera più idónea per evitare il rischio dell'evento. Per un approfondimento su tali tematiche si rimanda, in bibliografía, ai lavori, anche se non recenti, di De Martino (1975 e 1981).
14 Anche se in linea generale questo incontro è spesso mediato dagli uomini della famiglia della donna immigrât a, si deve evidenziare che è in forte crescita un fenomeno di assimilazione da parte degli uomini delle donne immigrate rispetto ad una serie di comportamenti che ritroviamo, maggiormente presentí e strutturati, nei padri occidentali (maggiore partecipazione al percorso della gravidanza e del parto, maggiore collaboratività dei diritti della donna e dei figli, in particolare delle bambine, ecc.).
15 Questo processo di "accettazione" e "riconoscimento" è naturalmente duplice, in quanto anche per le donne immigrate questo momento di incontro (a volte traumático, a volte positivo) con le strutture socio-sanitarie del Paese di accoglienza, le puo portare ad aprirsi alla conoscenza di aspetti sconosciuti del contesto di immigrazione, disponendosi verso di esso in modo meno difensivo.
16 A fronte delle riflessioni che qui faccio, e limitatamente alla mia esperienza didattica, mi sembra alquanto paradossale questo dato. Di un paziente infatti che compare nelle statistiche quando è vivo, quando si ammala, oppure quando è morto, si sa moltissimo, ma molto meno conosciamo su come muore, sul tipo di assistenza che gli viene assicurata in questi momenti, oppure sui problemi che incontra sia lui che, di riflesso, i suoi familiari. Questo limite mi sembra sia in parte il prodotto di una organizzazione sanitaria, come è appunto la nostra, pensata ed organizzata principalmente su variabili di tipo economico, piuttosto che sui bisogni degli utenti e sulle esigenze dei diversi operatori che le danno forma e sostanza.
17 Prendendo a pretesto lo schema di Van Gennep (7 riti di passaggio) già altrove utilizzato (Orefice 2011, pp. 149-151), è possibile individuare, in linea generale, degli specifici riti di separazione o preliminari (comprendono il lavaggio e la preparazione della salma e i diversi procedimenti di trasporto délia medesima fuori dalla casa o dal luogo di morte), di margine o liminari (comprendono la preghiera al morto prima della sepoltura o cremazione e la sepoltura), di aggregazione o postliminari (comprendono le preghiere dopo la sepoltura o cremazione, le differenti espressioni delle condoglianze, il periodo del lutto, i pranzi che seguono i funerali, la trasformazione del morto in antenato, la chiusura del lutto e le feste commemorative).
18 Oltre che alla mancanza di spazi deputati, e alla non competenza del personale medico nel trattare la salma di un morto proveniente da un altro contesto culturale, una delle risposte che si sente sovente dare in alcune strutture sanitarie (per certi versi a ragione) per evitare la messa in atto di cerimonie funebri troppo "forti", è legata proprio a questioni di ordine pratico collegate alia normativa vigente in Italia. Per un approfondimento su tali tematiche si rimanda, in bibliografía, al lavoro di Manca (2005) e Baldi (2011).
19 Si fa qui riferimento ad una sapere che non è rígidamente formalizzato, ma che dialoga con un complesso insieme di natura relazionale, emozionale, cognitiva e professionale di cui ogni professionista è portatore, e la cui valorizzazione e utilizzo possono nascere tramite un esercizio alla riflessività intersoggettivamente costruito e condiviso. I nuovi orientamenti epistemologici, sagomati intorno alie professioni della cura e che aderiscono a un modello di pedagogía costruttivista, considerando infatti questi professionisti come produttori di conoscenze, cioè capaci di riconfiguarare la propria identità professionale e di costruire il proprio sapere aU'interno di un processo di incorporazione critico-trasformativo di contenuti, codici e modelli di cultura della cura. Rimando, per una lettura approfondita su questi aspetti, ailavori di de Mennato (2005 e 2011), Melacarne (2006) e Schön (2006).
20 Una ultima considerazione conclusiva. Accogliere i punti di vista altrui non significa, aprioristicamente, in virtù délia difesa délia multiculturalità di cui qui stiamo discutendo, legittimare valori e pratiche che la comunità sanitaria del paese d'accoglienza non tollera (un esempio emblemático è rappresentato dalle pratiche di mutilazione dei genitali femminili), ma formulare scelte clinico-terapeutico-assistenziali razionalmente giustificabili attraverso la costruzione-decostruzione-ricostruzione di significati ed esperienze mediante momenti di negoziazione e di comunicazione condivisa, anche con la partecipazione del paziente immigrato. Per un approfondimento su tali tematiche si rimanda, in bibliografía, al lavoro di Morrone e Mazzali (2000).
21 II poco spazio a mia disposizionenon mi permette di affrontare in maniera organizzata una discussione circa la figura del "mediatore culturale" che, come il lettore avrà verificato, nel mio discorso non viene mai analizzata. Benché io condivida e creda che la presenza di taie figura sia importante per facilitare il contatto, l'interazione e lo scambio all'interno dei contesti sanitari (e non solo), è altrettanto fondamentale pero, se si vuole adottare realmente una prospettiva multiculturale, che tale figura non diventi semplicisticamente un catalizzatore su cui addossare la responsabilità e il peso délia relazione di cura transculturale che, come detto, deve essere "patrimonio comune" di tutti gli attori coinvolti. Il rischio insomma, che anche io condivido, è che in presenza di tale figura l'operatore possa de-responsabilizzarsi delegando a tale figura una serie di competenze che invece devo appartenergli in modo strutturale. Per un approfondimento su tali tematiche si rimanda, in bibliografía, ai lavori di Belpiede (2002), Favaro e Fumagalli (2006), Luatti (2006) e Baldi (2011).
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Copyright Firenze University Press 2012
Abstract
Despite nursing knowledge requires solid expertise in a wide range of fields (e.g. from clinical practice to the language of healthcare organizations, from different healthcare provision models to diverse ways of knowing the disease, up to a series of highly topical issues, such as medical errors, informed consent, aggressive treatment, etc.), in this essay the author reflects, starting from his own experience of university teacher and researcher in nursing, on three key-concepts (pain, birth, death) on which and through nurses have structured, not without contradictions, their professional identity. [PUBLICATION ABSTRACT]
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