(ProQuest: ... denotes formulae omitted.)
Il ruolo che Massimo il Greco (al secolo Michele Trivolis) esercitò in Russia, in ambito sia ecclesiastico sia culturale, fu ispirato a uno spirito di autentica innovazione. La sua opera, vergata pressoché esclusivamente in slavo ecclesiastico, si colloca al crocevia di tre diverse tradizioni culturali: quella umanistica, quella bizantina e quella slava orientale. I suoi scritti risentono, a vari livelli, dell'esperienza italiana e di quella atonita1: da una parte, cioè, della sua formazione di umanista, studente a Firenze quando insegnavano Angiolo Poliziano e Marsilio Ficino, seguace di Girolamo Savonarola e collaboratore di Gianfrancesco Pico e Aldo Manuzio, e, dall'altra, di una fedeltà incondizionata alla tradizione patristica e monastica bizantina.
Alla luce dei contatti che Michele instaurò con gli esponenti dell'umanesimo, delle conoscenze dottrinali, letterarie e metodologiche e dei modelli retorici che egli dovette acquisire negli anni del suo soggiorno italiano (1492-1506), ci vorremmo concentrare su un aspetto squisitamente letterario della sua produzione letteraria, sottoponendo ad analisi la forma retorica dell'Epistola al gran principe di Mosca Vasilij III sulla traduzione del Salterio commentato (Poslanie moskovskomu velikomu knjazju Vasiliju III o perevode Tolkovoj Psaltyri, 1521-1522)2, d'ora in avanti Poslanie.
Nel panorama letterario della Moscovia del XVI sec., il testo sembra rappresentare un singolare ibrido di genere: definito poslanie, esso offre, in maniera del tutto inattesa per il lettore russo, una dedica encomiastica del destinatario dell'epistola e dedicatario dell'opera (il Salterio commentato) e un'istanza prefativa dell'opera stessa (assolve cioè la duplice funzione di dedica e di introductio operis o accessus). Così concepito, il Poslanie non trova alcuna corrispondenza nella prassi epistolare slava orientale, che contemplava i tipi pastorale-didattico, filosofico-ideologico, ufficiale e amicale3. Crediamo, infatti, e cercheremo di dimostrarlo, che possa trattarsi di uno dei primissimi esempi in Russia (se non addirittura del primo in assoluto) di epistola dedicatoria (o prefativa), un sottogenere epistolare che, al contrario, era estremamente diffuso e coltivato nell'Italia umanistica e cinquecentesca.
In Occidente l'arte di scrivere epistole che ponevano gli autori e le loro opere sotto la protezione di uomini, famiglie o istituzioni potenti fu praticata fin dal medioevo. Nel Quattrocento il genere si stabilizzò, trovando una forma retorica convenzionale, e nel Cinquecento divenne oggetto di una trattatistica distinta. Dal Quattrocento, inoltre, accanto alle tradizionali dediche di opere originali, iniziarono a diffondersi dediche di raccolte di opere altrui, che in tal senso si possono definire "non autoriali"4.
Intuita una generica corrispondenza del Poslanie di Massimo al modello retoricoletterario dell'epistola dedicatoria, occorre ora accertare se, e attraverso quali canali, egli possa aver acquisito tale modello. Considerando la trattatistica quattro-cinquecentesca che regolamentava la prassi epistolare, si deve forzatamente ammettere che Massimo non poteva conoscere né il trattato Della dedicazione de' libri di Giovanni Fratta (1590), né la raccolta di dedicatorie edita da Comin Ventura nel 1601-16065, poiché entrambe queste opere comparvero in un periodo successivo alla sua partenza dall'Italia. Si può invece ipotizzare che gli fosse noto il Formulario di Cristoforo Landino, che fu edito nel 1485 e ristampato ben cinquantun volte in meno di un secolo6. Prioritaria, in ogni caso, ci sembra la sua collaborazione con Manuzio: visto il numero delle edizioni aldine precedute da dedicatorie che furono date alle stampe fra la fine del XIV e l'inizio del XV sec.7, si può ragionevolmente supporre che Massimo avesse assimilato questo modello epistolare negli anni del suo soggiorno veneziano (1496-1498, 1503-1506). I caratteri e le funzioni dell'epistola dedicatoria dovevano dunque essergli noti.
Nella sua forma classica la dedicatoria è un enunciato autonomo preposto al testo dedicato che offre un rituale omaggio al dedicatario, indicazioni sulla relazione che intercorre fra questi, l'opera e l'autore, e notizie sull'opera stessa. Per tipologia i dedicatari si distinguono in privati e pubblici. Nella destinazione di una dedica d'opera si manifesta comunque un'ambiguità di fondo, poiché la dedica implica sempre almeno due destinatari: il dedicatario ma anche il lettore. La funzione semantica e pragmatica della dedica, pertanto, non si esaurisce nell'esibizione di una relazione fra il dedicante e il dedicatario, ma sconfina in quella della prefazione. La dedicatoria può dunque accogliere al suo interno anche uno o più argomenti di valorizzazione dell'opera che introduce: informazioni sulle sue fonti e genesi, commenti relativi alla sua forma e significato; l'opera stabilisce cioè la sua relazione non solo con il proprio destinatario e pubblico, ma anche con la propria tradizione, fonti e precedenti. Il dedicante, da parte sua, può non coincidere con l'autore dell'opera dedicata. Come si è accennato, la produzione dedicatoria "non autoriale" sembra essere strettamente legata alla pratica umanistica dell'edizione e della traduzione di opere del medioevo e dell'antichità classica8.
Il Poslanie di Massimo al gran principe Vasilij Ivanovic ricalca perfettamente questo modello epistolare. Come cercheremo di dimostrare, rappresenta un esempio di epistola dedicatoria "non autoriale", con funzione anche prefativa. Il testo, modellato da un uso sapiente dell'arte retorica, che (altrove) il dotto monaco atonita sottolinea a più riprese di apprezzare9, rivela un'applicazione delle regole retoriche scrupolosa e apparentemente conforme alla prassi epistolare umanistico-rinascimentale. Massimo concepisce il suo Poslanie come un unico esteso status qualitatis, che ne determina l'appartenenza al genus demostrativum10. In questo si mostra un attento conoscitore della disciplina retorica, adattandola però, nella pratica, alle esigenze poste dalla concreta situazione di comunicazione in cui interviene.
L'appartenenza del Poslanie al genus demonstrativum sembra inoltre non contraddire la prassi umanistico-rinascimentale. Lo proverebbe l'inquadramento dei principali tipi di epistole nei tre genera aristotelici teorizzato dai trattatisti cinquecenteschi, anche se in un periodo successivo alla partenza di Michele dall'Italia. Secondo le disposizioni contenute sia nel Secretario di Francesco Sansovino (1564) sia nel Formolario di Francesco Scaridino (1569), infatti, appartengono al genus demonstrativum le epistole che offrono descrizioni, e, secondo il Segretario di Battista Guarini (1594), le "lettere di complimento". Il Poslanie apparirebbe tanto più conforme a tale prassi epistolare se accogliessimo le riflessioni di Giulio Cesare Capaccio, che nel suo Secretario (1589) assolutizza il ruolo del genus demonstrativum (il segretario si servirebbe sempre del genus demostrativum, solo in alcuni casi di quello deliberativum, mai di quello iudiciale)11. Sulla base dei passi che L. Matt cita da questi trattati, cioè, sembra ipotizzabile che i trattatisti cinquecenteschi avessero teorizzato una prassi retorica che all'epoca di Massimo era de facto messa in pratica, fermo restando che, prima di potersi pronunciare in maniera definitiva, una verifica andrà fatta su tutto l'impianto teorico che regge i suddetti trattati.
La duplice funzione encomiastica e proemiale del Poslanie determina la sua struttura12. Pur assolutizzando lo status qualitatis, infatti, l'autore qualifica due diversi oggetti: il dedicatario dell'opera e l'opera stessa. L'epistola si apre con uno status qualitatis (encomium) del sovrano, che occupa i primi undici versetti e si articola in un exordium (vv. 1-10) e in una praecognitio o narratio (v. 11). L'encomio cede quindi il passo a una parte di transitus, intermedia fra lo status qualitatis del dedicatario e lo status qualitatis dell'opera, che racchiude l'explicatio o definitio e occupa i sei versetti successivi (vv. 12-17). È poi la volta dello status qualitatis dell'opera, che occupa la porzione di testo più vasta (vv. 18-93) e ospita l'argumentatio. In chiusura, infine, trova spazio la peroratio o epilogus (vv. 94-110). Esula invece dalla struttura propria del testo l'intestazione dell'epistola, che nomina il mittente e il ricevente, e, indirettamente, attraverso l'indicazione del loro status, definisce i termini del rapporto che li lega.
Iniziamo dunque dall'exordium, che, come abbiamo appena rilevato, offre, insieme alla praecognito-narratio, lo status qualitatis del dedicatario. Il testo si apre con la citazione biblica di Gc 1, 17 (apomnemonysis), che racchiude l'idea dell'origine in Dio, Padre della luce, di qualsivoglia dono: "Ogni buon regalo e dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce"13. Questa idea di carattere generale sarà poi applicata alla quaestio finita del Poslanie come prova basata sulla massima auctoritas delle scritture (sententia). La citazione prepara il saluto al dedicatario del v. 6 e, in subordine, l'enunciazione della motivazione dell'epistola, nella forma di un personale commento dell'autore al passo appena citato (epicrisis). Pone, inoltre, il tema biblico della luce come costante tematica dell'intero discorso (v. 1).
Il versetto successivo (v. 2) offre anch'esso una citazione (apomnemonysis), tratta stavolta da Platone, che presenta un argomento a sostegno della sententia precedente (diallage): anche Platone, che l'autore definisce "il primo dei filosofiesteriori" (...), riconosce in Dio il principio e la fonte di ogni bene14. Nello stesso versetto, questa citazione è seguita da un commento dell'autore (epicrisis), che ribadisce il concetto dell'origine in Dio del bene attraverso la negazione del suo contrario (litotes), e in questo modo completa la sententia di apertura: Dio è responsabile di ogni bene, ma non è colpevole di nessun male.
Poi il dedicante ripete il messaggio dell'apomnemonysis precedente, esprimendolo con parole diverse. L'expolitio che ne deriva introduce una gradatio che si compie attraverso la ripartizione in species del genus "bene" (...) (diaeresis), e che espone la concezione romana orientale del potere: da Dio, primo e autentico bene, discendono innumerevoli altri beni, dei quali due sono i più alti: il sacerdotium (...) e l'imperium (...). L'affermazione è complessivamente avvalorata dalla citazione delle parole di Giustiniano (apomnemonysis), che l'autore definisce "grande fra gli imperatori" (...). Questa citazione funziona da regressio esplicativa, ripetendo i membri dell'enumeratio bipartita ..., e chiarendone il significato: il sacerdotium presiede alle cose divine, l'imperium a quelle umane, entrambi sono ornamento per la vita dell'uomo (v. 3).
Con questa affermazione termina l'esposizione dell'idea enunciata con la sententia di apertura, il cui significato e le cui implicazioni, come abbiamo visto, si perfezionano attraverso due ulteriori citazioni. Se la citazione biblica pone l'orizzonte tematico entro cui si svilupperà il discorso, rappresentando la fonte più autorevole, le altre due ne definiscono il messaggio. Discostandosi dalla prassi slava orientale, come è già stato rilevato da M. Garzaniti15, Massimo attinge così a fonti diverse, per tipologia ma soprattutto per grado di autorità, e ne fa un uso gerarchico: al primo posto le scritture, poi i filosoficlassici (accolti solo nella misura in cui il loro pensiero non contraddica la tradizione cristiana), quindi gli imperatori cristiani.
Nei due versetti successivi (vv. 4-5) il dedicante offre, in una progressio ascendente, alcuni exempla derivati dalle scritture, che dimostrano la veridicità di quanto ha appena affermato. Sono prova di come il sacerdotium e l'imperium rappresentino, fra i doni elargiti da Dio, quelli più alti: nell'Antico testamento il profeta Mosé e il sacerdote Aronne, Giosuè e il sacerdote Eleazaro, il profeta Samuele e il re Davide, e altri ancora; nel Nuovo testamento papa Silvestro e l'imperatore Costantino, Gregorio il Teologo e l'imperatore Teodosio, Giovanni Crisostomo e l'imperatore Arcadio, e molti altri ancora.
La progressio raggiunge quindi il suo climax, risolvendosi in un encomium del dedicatario che si compie attraverso un'accumulatio enfatica delle sue qualità di buon sovrano (v. 6). Lo zar Vasilij Ivanovic rappresenta infatti l'exemplum vivente dell'assunto di cui al v. 3: nel suo stato (...) si manifestano entrambe le virtù dell'imperium e (come si dirà nel v. 8) del sacerdotium. Nel suo stato, cioè, le parole dell'imperatore Giustiniano trovano piena realizzazione. L'esaltazione del sovrano è poi interrotta da un'interrogatio rivolta non al dedicatario dell'opera ma al lettore, che conferma l'inevitabile ambiguità di destinazione di una dedica d'opera (v. 7).
Quindi, ribadendo che lo stato di Vasilij Ivanovic incarna un modello perfetto di imperium, l'autore condensa il messaggio precedente (expolitio), per poi espanderlo attraverso l'encomium del metropolita Varlaam (v. 8). In questo modo l'attualizzazione delle parole dell'imperatore Giustiniano si perfeziona: lo stato moscovita rappresenta cioè un altissimo esempio non soltanto di imperium, ma anche di sacerdotium - "il tuo magnifico e gloriosissimo stato è l'esempio più autentico delle parole di Giustiniano"16. Proprio per questo nel presente storico Dio elargirà il suo bene e la terra darà il suo frutto, come rivela la citazione biblica (adattata al contesto di arrivo) di Sal 85 (84), 12-14 (apomnemonysis): "La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo, allora il Signore elargirà il bene, e la vostra terra darà il suo frutto, e la vostra giustizia avanzerà dinanzi a voi, e porrà i vostri passi sulla via che conduce alla salvezza"17. Questo annuncio dell'imminente compiersi della parola di Dio racchiude un'implicita anticipazione dello status qualitatis dell'opera, che, come capiremo poi, è proprio il frutto salmodiale a cui l'autore fa qui riferimento.
In realtà, come l'autore svela nei due versetti successivi (vv. 9-10), la previsione di Sal 85 (84), 12-14 si è di fatto già avverata. In un personale commento al salmo appena citato (epicrisis), il dedicante constata infatti che l'"unzione dell'impero" (...), che discende dal primo e unico bene (cioè da Dio), ha raggiunto lo stato di Vasilij Ivanovic insieme a innumerevoli altri beni (la verità e la giustizia del salmo). Arricchito da questi doni divini, l'intelletto (...) del sovrano non si impoverisce (v. 9). L'attualizzazione del messaggio biblico si perfeziona quindi attraverso l'esplicitazione della motivazione dell'epistola. Continuando a commentare Sal 85 (84), 12-14 (epicrisis), l'autore rivela infatti la natura del frutto al quale prima aveva soltanto accennato: la volontà di Dio si è manifestata hic et nunc nello stato di Vasilij Ivanovic, ispirando la traduzione del Salterio commentato (v. 10).
A questo punto l'exordium cede il passo alla praecognitio (narratio), che occupa il versetto successivo (v. 11). Qui l'autore espone brevemente i fatti, richiamandoli alla mente del dedicatario e presentandoli al pubblico dei lettori. L'importanza dell'impresa traduttoria cui ha appena accennato è enfatizzata (amplificatio) dalla descrizione delle circostanze che ne hanno visto la genesi (peristasis): illuminato dalla sapienza divina, dopo aver preso consiglio con il metropolita Varlaam, e ottenutane la benedizione, il sovrano si rivolse alla comunità monastica di Vatopedi invitando a Mosca il monaco Savva. A causa della sua veneranda età, però, Savva declinò l'invito. Questa parte narrativa circostanzia la quaestio centrale dell'epistola, e, attraverso un'antithesis metaforica fra buio e luce, che si lega alla citazione biblica di apertura (Gc 1, 17), completa l'attualizzazione del messaggio di Sal 85 (84), 12-14, accostando all'immagine del frutto salmodiale quella della spiga (che riecheggia Mc 4, 28)18. Parallelamente, l'accumulatio delle proposizioni genera attesa sullo scioglimento finale, caricando il rema di aspettativa e significato. Qui, mediato da un tentativo di philophronesis, è enunciato il compimento dell'opera: preso atto del rifiuto di Savva, la comunità monastica di Vatopedi decise di inviare a Mosca il monaco Massimo (il dedicante)19, che, giunto in città, si accinse all'impresa e la portò a compimento in un anno e cinque mesi.
Con questa notizia si chiude la prima parte dell'epistola, che, come abbiamo cercato di mostrare, offre lo status qualitatis del dedicatario dell'opera. Si apre quindi una parte di carattere intermedio, che funziona da legatura (transitus) fra lo status qualitatis del dedicatario e quello, successivo, dell'opera. Come abbiamo anticipato, questa parte racchiude l'explicatio (definitio) e occupa i vv. 12-17.
Qui l'autore prepara il pubblico (il dedicatario ma anche i lettori) alla fruizione dell'opera attraverso l'anticipazione dei contenuti che si accinge a esporre: i pregi del libro, il suo significato e i suoi autori (praeparatio) (v. 12). In questo modo si mostra consapevole della funzione prefativa della dedicatoria, la rende manifesta e ne palesa l'utilità: "e affinché... possa sapere con chi conversa, e in che modo, e di cosa"20. Quindi, aggiunge una motivazione all'idea appena espressa (aetiologia), operando la tradizionale distinzione platonica fra realtà umane e divine, sensibili e intellegibili (...): alle cose divine - afferma - conviene accostarsi con maggior cautela e diligenza che non a quelle umane, poiché le prime sono di gran lunga superiori alle seconde (v. 13). Quest'ultima affermazione occupa la posizione del rema, e, per il suo carattere assiomatico, risuona quasi come una sententia, la cui inconfutabilità è sottolineata dal chiasmus che si osserva nella distribuzione dei termini: "le [realtà] divine sono molto più alte di quelle umane e di quelle sensibili [lo sono] le [realtà] intellegibili"21.
Dopo aver motivato la presenza, in questo contesto, di un discorso prefativo, l'autore ne ribadisce l'utilità (expolitio), esplicandone la funzione attraverso un exemplum: afferma, cioè, di aver preso a modello quei viaggiatori e quei navigatori che, tornati in patria dopo un viaggio straordinario, rispondono volentieri a quanti gliene chiedono conto (v. 14). L'exemplum si risolve in una comparatio metaforica - "facendomi anch'io navigatore e viaggiatore..."22 -, che si conclude con un'anthypophora volta a prevenire la possibile obiezione di verbosità: prima di iniziare a dare conto del suo viaggio, Massimo invita cioè il pubblico a non meravigliarsi se nel far ciò sarà oltremodo loquace (...) (v. 15). Spiega poi le ragioni della sua possibile prolissità (e la giustifica) attraverso una sententia espressa in forma di antithesis (apophonema): di una sola cosa - afferma - si può dire anche brevemente, ma chi racconta brevemente di molte cose si rivela non solo inadeguato, ma anche inopportuno e manchevole verso di sé e i lettori. Ribadisce quindi il concetto che ha appena espresso attraverso una comparatio metaforica che occupa la posizione del rema: "non meno di chi si sforzasse di descrivere un qualche tesoro regale di valore incommensurabile con una sola parola"23 (v. 16). Con questa comparatio termina la parte intermedia dell'epistola, che si potrebbe definire "di prefazione alla prefazione": la proposizione "Sia dato inizio, dunque, a questo"24 (v. 17) formalizza infatti il transitus dall'explicatio (definitio) all'argumentatio.
Come abbiamo anticipato, la terza parte dell'epistola presenta lo status qualitatis dell'opera, esponendone gli innumerevoli pregi in un'estesa argumentatio che ha funzione prefativa, e dunque di valorizzazione dell'opera stessa. Questa parte, che occupa la porzione più vasta del testo (vv. 18-93) è strutturata attorno a tre diversi nuclei tematici: il libro che presenta (vv. 18-28), i suoi autori (vv. 29-71) e la versione slavo-ecclesiastica prodotta dallo scrivente (vv. 72-93). Anche in questo Massimo si rivela un attento conoscitore della prassi dedicatoria umanistica, fondando il suo discorso sulla necessaria corrispondenza, per pari dignità di grado, fra l'oggetto offerto e il soggetto che lo riceve, fra il contenuto dell'opera e il dedicatario. Come vedremo, i motivi di corrispondenza vengono svolti in direzione elogiativa, e, parallelamente, l'atto di dedizione assoluta di chi porge rispetto a chi riceve si realizza attraverso l'umiliazione dell'offerente e l'amplificatio della sua buona disposizione nell'atto del donare25.
La prima sezione tematica dell'argumentatio è incentrata sul libro, il Salterio commentato. Qui il dedicante rappresenta l'importanza dell'opera e l'utilità della sua considerazione sia direttamente, esaltandone le qualità, sia indirettamente, esibendo la propria incapacità di affrontare il lavoro di traduzione con tutto il talento reso necessario dal prestigio dell'opera. Si tratta, come capiremo, di un modo sicuro per prevenire eventuali critiche, che ha funzione paradossalmente valorizzante (excusatio propter infirmitatem)26.
Questa sezione si apre con un'accumulatio enfatica delle qualità del libro (encomium), che sono amplificate da un'anthypophora e da un tentativo di philophronesis: la straordinarietà del libro - afferma lo scrivente (a sua tutela) - è direttamente proporzionale alle difficoltà di traduzione che presenta (v. 18). Dopo questa affermazione, si affretta a difendere le proprie parole operando la tradizionale distinzione fra quantità e qualità (...) (proecthesis): la straordinarietà del libro, e le conseguenti innumerevoli difficoltà che l'opera pone per il traduttore, derivano non dalla quantità del materiale tradito, ma dalla sua qualità (v. 19). Chiarisce poi questo concetto attraverso una comparatio metaforica che esprime nella forma di una similitudo con funzione di exemplum: il diamante è una fra le pietre più piccole, e, se accostato a pietre di dimensioni maggiori sta "come una zanzara a elefante" (...) (quantità); per quanto piccolo, però, è più resistente di qualsiasi incudine e martello, e, se colpito con pietre più grandi, facilmente può mandarle in frantumi (qualità) (v. 20).
L'exemplum cede quindi il passo a un'ulteriore riflessione sul carattere di eccezionalità- difficoltà del libro (expolitio), mediata da un rinnovato tentativo di philophronesis. Questo tentativo si risolve in un'accumulatio enfatica dei meriti degli autori dell'opera (encomium), e nella diareresis del genus "intelletto" (...). Attraverso questa diaeresis, Massimo introduce la teoria dell'interpretazione quadripartita delle scritture, enunciando tre dei quattro livelli interpretativi dell'esegesi patristica e medievale: allegorico (...), anagogico e "oltremondano" (...), e letterale (...). Ciascuno dei sensi delle scritture è quindi ripetuto (in un ordine diverso da quello di presentazione), con l'aggiunta del senso mancante, quello tropologico (...), e tutti sono definiti (regressio) in termini di utilità (e dunque nella forma di una protrope implicita): lo scrivente illustra cioè i vantaggi che il pubblico potrà ricavare dalla lettura del libro nella sua articolazione esegetica (v. 21).
Il carattere innovativo di questo passo, a livello sia contenutistico sia terminologico, appare evidente. La questione, che non può essere sviscerata in questa sede, meriterebbe un'approfondita indagine. In questo senso riteniamo che si dovrebbe accertare, in via prioritaria, il rapporto del Poslanie con la traduzione slavo-ecclesiastica dei Modi seu regule exponendi sacram scripturam, con cui il testo è stato recentemente messo in relazione da V. Tomelleri28. Pur senza affrontare direttamente il problema, Tomelleri sembra propendere per la maggior antichità della traduzione dei Modi rispetto al Poslanie, riconoscendo a Massimo il ruolo di divulgatore. In ogni caso, la terminologia che Massimo impiega per definire i quattro sensi delle scritture coincide solo in parte con quella della traduzione dei Modi, lasciando intuire, a prescindere dalla questione cronologica, un suo apporto innovativo.
L'encomium dell'opera prosegue anche nei versetti successivi. Massimo continua a esaltarne le qualità avvalendosi ora delle metafore "rifugio spirituale" e "paradiso spirituale" (...), che commenta nel loro significato (prosapodosis), ora di un'enumeratio accumulativa dei contenuti, che culmina in un'antisagoge: il libro - si legge - propone insegnamenti in gran numero, lo schema teologico (...), il complesso dei dogmi, e ragguaglia sul destino ultimo dell'uomo, sulla sua salvezza o dannazione (v. 22). L'enumeratio si perfeziona quindi attraverso la diaeresis del genus "dogmi" (...), e raggiunge il suo climax in una metaphora che riecheggia Ef 6, 10-17, e che introduce un'esortazione con promessa (protrope) e la conseguente profezia di sventura (ominatio): per i lettori il libro è anche un'arma29, affinché possano riconoscere gli eretici, sconfiggerli e farli bruciare nel fuoco inestinguibile (v. 23).
Il flusso di questa enumeratio è interrotto da un'exclamatio rivolta al dedicatario - "Che bisogno ha chi parla di gravare a tal punto i tuoi orecchi imperiali?"30 (v. 24) -, che subito cede il passo a un'enumeratio accumulativa dei possibili destinatari dell'opera e delle sue diverse funzioni, svolta ancora in direzione elogiativa (encomium): il libro sarà edificante (...) per chi si occupa di teologia, illuminante (...) per chi si interessa di scienze esteriori, un'armatura (...) per chi sostiene dispute (cf. Ef 6, 11.13), protezione (...) per i taciturni, un aiuto (...) per chi si esercita nella speculazione, consolazione (...) per quanti soffrono, guarigione spirituale (...) per gli infermi. L'enumeratio culmina quindi in un'expolitio riassuntiva, che si esplica attraverso due procedimenti metaforici: in breve - si legge - il libro è un giardino che abbonda di qualsiasi frutto (...), è un piatto ricolmo di miele spirituale (...) (v. 25).
A questo punto il dedicante aggiunge una motivazione all'idea della straordinarietà dell'opera (aetiologia), intessendo le lodi del compilatore del testo greco (eulogia): il libro - spiega - non nacque nella forma in cui è attualmente noto; tale forma gli fu impressa "da un qualche uomo devoto e operoso"31, che con abilità raccolse in un unico testo le riflessioni esegetiche degli uomini che Dio aveva reso sapienti (...) (v. 26). Questo riferimento agli autori dell'opera prepara il transitus dalla prima alla seconda e più estesa sezione tematica dell'argumentatio, che è formalizzato da un breve riepilogo di ciò che è stato detto e da una breve anticipazione di ciò che si dirà (metabasis) (vv. 27-28).
Nella seconda sezione dell'argumentatio (vv. 29-71) il dedicante si sofferma sugli autori dell'opera, esponendone i nomi e illustrando le caratteristiche peculiari della loro esegesi: "degli uomini resi sapienti da Dio... i nomi e i pregi dell'esegesi"32. L'ordine espositivo non è casuale, ma risponde sia a un criterio tipologico, sia a un criterio di frequenza (che però non sono enunciati preventivamente): gli autori, cioè, sono suddivisi in gruppi prima in base al livello delle esegesi che hanno prodotto (anagogico, allegorico, tropologico o letterale), e all'interno di ogni gruppo sono accolti soltanto i migliori interpreti delle scritture a quel dato livello (vv. 29-59); poi in base alla frequenza delle loro esegesi nell'opera (vv. 60-70).
Il primo gruppo (vv. 29-42) accoglie gli autori di esegesi anagogiche (...): Origene, Didimo, Apollinare, Asterio ed Eusebio33. Il passaggio agli esegeti del secondo gruppo è formalizzato da un transitus che enuncia a posteriori il criterio di composizione del primo gruppo: "Ma nell'esegesi anagogica questi superano di parecchio gli altri"34 (v. 43). Il secondo gruppo (vv. 44-45) presenta gli autori di esegesi allegoriche (...). In questo caso il criterio di composizione (analogo al precedente) è offerto in apertura, insieme all'enumeratio bipartita dei sommi rappresentanti di questo gruppo - Basilio Magno e Giovanni Crisostomo35. Il terzo gruppo (vv. 46-50) introduce gli autori di esegesi tropologiche (...): Atanasio il Grande e Cirillo di Alessandria, ed Esichio36. Di particolare efficacia appare la descrizione morale di Esichio, che è espressa nella forma di una metaphora: "Esichio, ape spirituale, per ogni profezia offre ai lettori, dal dolce favo, [miele] in gran quantità" 37 (v. 49). Il quarto gruppo (vv. 51-59) riunisce gli autori di esegesi storiche e letterali (...): Teodoreto, i due Teodoro e Diodoro38.
Gli esegeti finora ricordati non esauriscono ancora gli autori del Salterio commentato. Al criterio tipologico subentra ora un criterio quantitativo, sulla cui base saranno introdotti quegli autori che, nel confronto con i precedenti, ricorrono nel libro con minor frequenza (vv. 60-68)39. Sono allora caratterizzati in successione, attraverso un'ethopoeia quasi epitetica, Severiano di Antiochia (v. 60), Gregorio il Teologo e Gregorio di Nissa (v. 61), Cirillo di Gerusalemme (vv. 62-63) e Giovanni di Alessandria (v. 66). Giovanni Crisostomo, invece, è nuovamente ricordato, perché, a differenza degli altri autori, interpreta anche i salmi successivi a Sal 101 [100] (vv. 64-65). Il dedicante ne offre quindi un'ethopoeia elogiativa, e poi, anticipando la terza sezione tematica dell'argumentatio, riflette sul lavoro filologico e sul metodo con cui egli ha potuto attribuire i commentari di Sal 101 [100] e successivi proprio a Crisostomo, il cui nome non compariva nel libro greco (vv. 67-68).
Ricorda, infine, altri quatto esegeti (...), che compaiono nel libro ma sono esclusi dagli elenchi precedenti: Vittorio e Nicola Presbiteri, un tale Eudosio, detto Filosofo, e Massimo il Confessore (vv. 69-70)40. Con questa notizia termina la seconda sezione tematica dell'argumentatio, come mostra il transitus del v. 71, che riepiloga brevemente ciò che è stato detto finora (metabasis), preparando il dedicatario alla peroratio (epilogus) finale: "Ma a proposito dei beati uomini che interpretarono i salmi profetici, dei quali ritenni necessario riferire al tuo stato, ho detto abbastanza; detto ancora qualcosa, terminerò il discorso"41.
La terza sezione tematica dell'argumentatio (vv. 72-93), che in certa misura può considerarsi anticipata dai vv. 18-19, verte sul lavoro di traduzione (e di correzione) dell'opera dal greco allo slavo ecclesiastico. Il dedicante-traduttore esordisce in questa parte descrivendo il traduttore ideale (prosopographia) attraverso l'enumeratio dei suoi compiti: un buon traduttore è tale se, oltre a rendere degnamente il pensiero dell'autore (degli autori) che traduce, riesce anche a integrare e correggere i passi danneggiati dal tempo, corrotti dall'ignoranza dei copisti, o semplicemente tralasciati. In altre parole, un buon traduttore è anche un buon filologo (v. 72). Quindi, con l'intento di prevenire possibili critiche (anthypophora), motiva attraverso un'apomnemonysis indiretta42 gli eventuali errori che lui e i nove traduttori suoi collaboratori possono aver commesso (dicaeologia): spiega, cioè, che, seppur di lingua greca43 e formatisi presso maestri esperti, nessuno di loro ha potuto accogliere in visione Cristo, che si concede soltanto agli uomini di grande virtù (v. 73). Sempre a scopo cautelativo, aggiunge una seconda motivazione all'idea che ha appena espresso (aetiologia): il greco - afferma - è una lingua che offre infinite possibilità espressive, sia a livello di significante, sia di significato44, come avevano capito gli antichi retori; pertanto, per la sua corretta resa in traduzione, si renderebbero necessari ancora molto tempo e lavoro (v. 74).
Dopo aver ammesso queste difficoltà, il dedicante cerca ora di porvi rimedio bilanciando un aspetto sfavorevole con uno favorevole (antanagoge): malgrado la complessità della traduzione - afferma - lui e i suoi collaboratori non hanno tralasciato nulla45. Descrive quindi il lavoro prodotto illustrando il metodo di volta in volta adottato (dialysis): ciò che nel libro greco risultava chiaro e corretto è stato reso chiaramente (...) e in modo corretto (...) (v. 75); ciò che invece era corrotto dall'imperizia dei copisti o dal tempo, dove possibile è stato emendato e integrato, dopo essere stati illuminati dai libri (...), o per ragionamento (...) (v. 76); quando né i libri né il ragionamento sono stati di aiuto, il testo corrotto è stato lasciato tal qual era (v. 77).
Poi, volendosi difendere da un'accusa a suo giudizio ingiusta (proecthesis), suscitata dal lavoro filologico condotto sul testo, si rivolge al dedicatario dell'opera e anticipa la quaestio che si accinge a trattare (praeparatio): al traduttore - afferma - è stata mossa l'accusa di temerarietà46; per provarne l'infondatezza annuncia di voler mostrare la bontà del lavoro di correzione svolto, attraverso due-tre esempi (v. 78). Illustra quindi due casi (dialysis) (vv. 79-86). Il primo (vv. 79-82) è presentato attraverso l'apomnemonysis dell'esegesi corrotta (errata), la sua ricusa perché palesemente falsa (apodioxis) e la correctio della stessa (v. 79); la bontà della correzione è poi comprovata da un'interrogatio (v. 80) e da un commento (epicrisis) (vv. 81-82): nell'introduzione a Sal 13 (12) Atanasio afferma che il salmo fu pronunciato dal profeta Davide, penitente perché colpevole di un incontro (...); in realtà - argomenta Massimo - Davide lo compose perché aveva peccato contro Uri; conviene dunque che si corregga "incontro" con "peccato"47. Il secondo caso (vv. 83-86) è illustrato attraverso l'apomnemonysis del passo sottoposto a esegesi e della sua esegesi (v. 83), la ricusa dell'esegesi perché palesemente falsa (apodioxis) (v. 84), l'apomnemonysis indiretta di 1 Sam 31, 4 usata in funzione di anamnesis (v. 85), la correctio dell'esegesi e l'apomnemonysis dell'esegesi emendata (v. 86): nel commento a Sal 37 (36), 15 - continua Massimo - si legge che la spada di Davide raggiunse letteralmente il suo cuore; si tratta però di un'affermazione palesemente falsa, giacché, secondo le scritture, questo successe non a Davide, ma a Saul, ed è così che deve essere scritto48.
A conclusione di questa parte dimostrativa, il dedicante riassume la casistica che ha appena illustrato (expolitio), affermando che corruttele di questo tipo (nonsense o errori fattuali facilmente riconoscibili come tali) sono assai frequenti nel libro, ma che, con la grazia di Cristo, sono state emendate (antanagoge) (v. 87). Rigetta allora in maniera definitiva l'accusa palesemente falsa di temerarietà enunciata al v. 78 (apodioxis), amplificandone l'infondatezza; quindi, attraverso l'apomnemonysis indiretta di Mt 10, 42, esprime l'auspicio di ricevere una ricompensa per il lavoro svolto, anticipando con ciò i toni e la richiesta che avanzerà nella peroratio (epilogus); si rivolge infine al dedicatario con tono di umile sottomissione, in una philophronesis che esprime una correctio con antithesis: appare evidente - afferma - che il lavoro di correzione è stato intrapreso non per temerarietà ma aspirando al meglio (...), nella grazia di Dio e a vantaggio dei lettori, e, in parte, con la speranza di ottenere una ricompensa; il merito del compimento dell'opera si deve però a Dio e non a chi scrive, alla sua grazia e potenza e non alla povertà e debolezza del traduttore (v. 88).
A questo punto, e fino alla fine di questa parte (v. 93), Massimo non si rivolge più (non più soltanto) al dedicatario dell'opera, ma al vasto pubblico dei suoi (potenziali) fruitori. Parlando ai lettori, avanza ora un'anticipata richiesta di perdono (parrhesia), che è motivata da una sententia e che introduce un'esortazione all'azione (proclees): li invita, cioè, all'indulgenza in caso di omissioni e/o di mancate correzioni, esortandoli a porvi rimedio in maniera autonoma, giacché - sentenzia - l'oblio è di tutti (...) (v. 89). Poi, attraverso un'accumulatio di proposizioni ipotetiche (scandite dalla ripetizione anaforica di ...), illustra le conoscenze che sono necessarie al lavoro di traduzione-correzione, suscitando il rispetto del pubblico e scoraggiando eventuali critiche; la serie accumulativa, che in questo modo pone la condizione di validità della proclees del v. 89, si scioglie in un avvertimento che mette in guardia dal peccato (paraenesis): in caso di omissioni e/o di mancate correzioni - afferma - il lettore potrà sopperirvi in maniera autonoma, ma a condizione che conosca bene la lingua greca, abbia solide basi di grammatica e retorica (v. 90), e padroneggi l'ortografia e il lessico nei suoi vari significanti e significati; non di rado, infatti, la medesima espressione può avere signifi- cati diversi e riferirsi a cose diverse; pertanto, ove non si presti la massima attenzione, si rischia di travisare il senso delle scritture o di generare errori; in entrambi i casi - conclude - chi sbaglia commette peccato grave (v. 91). Quindi, parlando con tono di umile sottomissione (philophronesis), cerca di difendere le proprie parole chiarendo le ragioni che lo hanno spinto a parlare in questo modo (proecthesis), e, implicitamente, ribadisce la proclees del v. 91: assicura, cioè, di aver parlato non per esaltare le proprie doti, ma per ammonire coloro che in futuro sottoporranno il suo lavoro a revisione (v. 92). La terza sezione tematica dell'argumentatio, e con essa la parte centrale dell'epistola, termina qui, come mostra il transitus che formalizza il passaggio all'ultima parte del testo, la peroratio (epilogus): "Ma anche a questo proposito ho detto abbastanza"49 (v. 93).
La peroratio (epilogus) (vv. 94-110) è interamente rivolta al dedicatario dell'opera, e dunque al destinatario nominalmente unico dell'epistola. Massimo si conferma ancora una volta un attento conoscitore della prassi dedicatoria umanistica: in questa parte, infatti, insiste sulla sua grandezza d'animo del ricevente non tanto nell'accogliere il dono, quanto piuttosto nel mostrarsi a propria volta generoso nel donare; in questo modo, come vedremo, il dono immediato dell'opera si proietta su un effetto futuro, e il favore ipoteticamente concesso si lega per l'eternità alla gloria del concedente50.
Esordisce, dunque, intessendo le lodi del dedicatario attraverso un'accumulatio iperbolica delle sue qualità di buon sovrano; l'encomium che ne deriva è orientato a suscitare la sua benevolenza (philophronesis), e introduce una supplica (deesis). La supplica, a sua volta, poggia sull'encomium dell'opera donata, che si realizza attraverso una gradatio anche metaforica finalizzata a mostrare il progressivo manifestarsi della grazia di Dio nella storia attraverso i suoi intermediari: il dedicatario è ora definito anima amabile, onesta a Dio e regale, uomo glorioso al pari degli antichi imperatori, esempio di bellezza e sapienza per i sovrani a lui contemporanei, protagonista di gesta eroiche per i sovrani futuri, sovrano della Rus' ma degno di regnare su tutto l'universo; dopo averne esaltate le doti, il dedicante lo supplica di accogliere il libro, ispirato da Dio e dono di Dio; la grazia di Dio - spiega, infatti, - lo ha concesso agli uomini prima attraverso Davide, e poi ha illuminato (...) la sapienza ivi racchiusa ispirando gli esegeti, che ne hanno disseppellito il tesoro portandolo alla luce (...) (v. 94). Come appare evidente, il motivo biblico della luce, che il dedicante aveva enunciato in apertura del suo discorso attraverso la citazione di Gc 1, 17, si fa ora nuovamente esplicito, e, con esso, torna attuale il motivo dell'origine in Dio dell'opera dedicata e presentata, che, come abbiamo visto, trova il suo fondamento in Sal 85 (84), 12-14. In questo modo l'ultima parte dell'epistola si richiama alla parte esordiale, riecheggiandone i motivi e ribadendone il messaggio, in una simmetria perfetta.
Sull'asse temporale, però, il lavoro ispirato degli esegeti rappresenta non l'ultimo segno della grazia di Dio, ma il penultimo: la gradatio raggiunge infatti il suo climax quando il dedicante osserva che, ispirando la traduzione del Salterio commentato "nella vostra lingua" (...), la grazia di Dio si è manifestata proprio nel tempo presente (...), elargendo al destinatario-sovrano e a tutto il suo stato "un dono... utile all'anima e salvifico" (...) (v. 95).
Il dono dell'opera si proietta allora su un orizzonte eterno, amplificando la fama del dedicatario fino a farne immortalità. Ma non senza condizioni. Per rendere efficacemente questa idea, il dedicante struttura il suo pensiero in un'antisagoge che si compone di un'esortazione all'azione supportata da una promessa di ricompensa (protrope), e di un tentativo di dissuasione dall'agire in modo contrario (dehortatio) avvalorato da una gradatio di promesse, che espande il motivo biblico della luce. Ora, infatti, il dedicatario-sovrano è esortato ad accogliere con benevolenza l'opera che gli viene donata, a goderne, e a offrirla ai suoi sudditi come cibo spirituale (metaphora); se queste condizioni saranno soddisfatte, allora le folle glorificheranno Dio ed egli raccoglierà copiosi i frutti delle loro preghiere (v. 96). Quindi, attraverso la stessa immagine metaforica offerta nel v. 94, è espresso l'auspicio "che un tale tesoro raccolto da Dio non sia nuovamente nascosto in forzieri, come in passato"51; se questa condizione sarà soddisfatta, allora "la grazia del sole razionale del Consolatore risplenderà su tutti in modo indiviso con i suoi raggi"52, la moltitudine degli ortodossi ne trarrà beneficio, la generazione presente benedirà il dedicatario-sovrano come suo benefattore, e il suo nome risuonerà imperituro sulla bocca di tutti (v. 97).
Al tono solenne di questa previsione subentra poi un tono più dimesso, che prepara la supplica del v. 99, quando al dedicatario, che è stato omaggiato di un dono tanto generoso, sarà chiesto di dimostrarsi a sua volta generoso nel donare. Il dedicante prepara il suo interlocutore alla ricezione dell'istanza finale attraverso un'enumeratio e un characterismus quasi epitetico dei partecipanti all'opera, che sviluppa in direzione elogiativa con funzione di philophronesis: alla realizzazione dell'opera - afferma - hanno collaborato i traduttori Vlas e Mitija e i copisti Michail Medovarcev e Silvan monaco, che, al pari del dedicante, sono tutti umili servitori del dedicatario-sovrano e del suo stato (v. 98).
Formula allora la sua richiesta, per poi accrescerne l'efficacia attraverso una minaccia escatologica (protrope) (vv. 99-104). Esordisce con una supplica (deesis) indiretta, chiedendo, anche a nome dei suoi collaboratori, che, in cambio dei servigi resi, il sovrano conceda loro di far ritorno sul monte Athos (v. 99). Perfeziona poi questa richiesta attraverso una supplica (deesis) diretta, rafforzata nella sua efficacia dalla descrizione dello stato d'animo dei confratelli del monastero di Vatopedi (ethopoeia), che è espressa nella forma di una similitudo: i confratelli - afferma - attendono con impazienza il loro ritorno, come il ritorno di chi debba cibarli53 (v. 100).
Quindi, in una previsione futura (diabole), cerca di immaginare quali conseguenze potrebbero derivare dalla mancata soddisfazione della richiesta così formulata, nel tentativo di muovere a commozione il sovrano per scongiurare il pericolo di un suo rifiuto (deprecatio), ma anche con l'intento di rimproverarlo per l'ingratitudine che in tal modo dimostrerebbe (onedismus): se il dedicatario non accondiscenderà alla loro richiesta - afferma -, lui e i suoi collaboratori saranno inevitabilmente privati dei lavori e delle fatiche di molti anni, che avevano intrapreso a Vatopedi credendo di poter terminare là la loro vita (v. 101). Con tono implorante (philophronesis), lo supplica allora (deesis) affinché sia loro concesso di tenere fede ai voti monastici là dove li presero nel giorno della loro monacazione, dinanzi a Dio e ai suoi terribili angeli (...) (v. 102).
Poi, sostenuto dalla fede nella giustizia divina, lo avverte del pericolo in cui incorrerebbe per aver mentito agli uomini (al dedicante e ai suoi collaboratori) (paraenesis), in una proiezione escatologica (anticipata dagli angeli dell'Apocalisse del v. 102), che vede il sovrano patire grande e infinita vergogna dinanzi al Dio terribile che sceglie gli spiriti: "grandissima e inesauribile vergogna si diffonde al cospetto del Dio terribile che sceglie gli spiriti"54 (v. 103). Questa minaccia, perlocutoria nei toni ed efficace nel ragionamento, è amplificata da un'interrogatio con la quale, per contrasto, il dedicante sottolinea la lealtà incondizionata dei sudditi al sovrano: "Come potrebbe mentire al principe chi è stato reso sapiente da Dio?"55 (v. 104).
Massimo, però, non ha ancora esaurito le sue motivazioni, e prosegue nel tentativo di persuadere Vasilij Ivanovic. Ora cerca di dissuaderlo dal rigettare la sua richiesta (dehortatio) con una supplica diretta (deesis), implorandolo di volere essere l'attore (...), insieme a Cristo, della salvezza dei suoi fedeli servitori; ricorda poi, con tono di severo rimprovero (onedismus), che quei servitori hanno condotto un duro lavoro realizzando la versione slavo-ecclesiastica dell'opera, e sopportato indicibili sofferenze per soddisfare non un loro desiderio, ma una sua richiesta (v. 105). Lo supplica, quindi, di lasciarli andare nel mondo nel nome di Dio (deesis) (v. 106), e poi amplifica questa sua richiesta attraverso un'esortazione avvalorata da un'accumulatio di promesse (protrope), che esprime con un'hyperbole e una comparatio encomiastica: chiarisce, cioè, che è stato Dio a chiamarli a sé sul monte Athos e poi a concederli temporaneamente al sovrano moscovita; esorta quindi il sovrano a restituirli a Dio, e promette che allora Dio stesso gli sarà debitore, mentre loro diffonderanno buona fama di lui fra le loro genti, affinché sia glorificato come pari a Costantino e Teodosio il Grande (v. 107).
In chiusura Massimo si rivolge direttamente a Dio (deesis), e, attraverso un ulteriore encomium del sovrano, una comparatio e un exemplum storico, esprime l'auspicio che la sua grazia si manifesti nuovamente nel tempo presente: prega affinché Dio, per tramite di Vasilij Ivanovic, liberi la sua terra dall'asservimento agli Agareni proprio come in passato, per tramite di Costantino il Grande, aveva liberato l'antica Roma da Massenzio; infine, chiede che Dio conceda la luce della libertà (...) alla nuova Roma (...), e indichi un degno successore del sovrano moscovita da insediare sul trono costantinopolitano (v. 108). A questo punto la supplica a Dio cede il passo a una consueta formula liturgica di lode alla Trinità, che annuncia la fine dell'epistola56 (vv. 109-110).
Dall'analisi retorica che abbiamo presentato ci sembra emerga con chiarezza che il Poslanie rappresenta un esempio di epistola dedicatoria, strutturata e articolata secondo le regole dell'arte retorica, e modellata da un uso sapiente delle figure. Come tale, il testo appare conforme alla prassi epistolare umanistica, ma assolutamente innovativo rispetto alla consueta prassi epistolare slava orientale. Procedendo in questa direzione, l'analisi della produzione letteraria slavo-ecclesiastica di Massimo potrebbe rappresentare una delle vie privilegiate da percorrere per far luce sul ruolo culturale che egli esercitò nella Russia del XVI sec. Si potranno allora chiarire, da una parte, le fonti e i modelli umanistici a cui fu ispirata la sua opera, e, dall'altra parte, in quale misura la cultura umanistico- rinascimentale iniziò a permeare il conservatorismo moscovita prima che la Russia si aprisse all'influsso occidentale attraverso il tramite ruteno, e poi, in modo più compiuto, nell'epoca petrina.
1 Sulla vicenda di Michele Trivolis-Massimo il Greco si possono consultare il fondamentale Denissoff 1943, Sinicyna 1977, Id. 2005, Id. nella presente raccolta.
2 Si fa riferimento al testo nella recente edizione Maksim Grek 2008: 151-166. Sulla produzione epistolare e l'attività traduttoria di Massimo si può consultare Bulanin 1984; un più completo elenco dei suoi scritti è disponibile in Ivanov 1969.
3 Cf. Brogi Bercoff 1986. Sull'epistolografia slava orientale si veda anche Bulanin 1991: 173-216. Un repertorio della tradizione epistolare della Rus' kieviana è offerto in Ponyrko 1992 e Scapov 2003: 225-320.
4 Si pensi, a titolo di esempio, alla dedicatoria di Poliziano della Raccolta aragonese e del Codice isoldiano. Cf. Brugnolo, Benedetti 2004; Matt 2005: 161-175; Ricuperati 2005; Vasoli 1995.
5 La raccolta di Ventura sancì la rilevanza artistica e l'autonomia di genere di questa forma epistolare. Cf. Matt 2005: 163-165.
6 Cf. Matt 2005: 11-80, passim.
7 Cf. Orlandi 1975, I: 9-26, 72-93.
8 Brugnolo Benedetti 2004; Folena 1995; Genette 1989: 115-140, 158-233, 259-271.
9 Cf. Garzaniti nella presente raccolta.
10 Come insegna la retorica classica, infatti, il genus demonstrativum (che, al pari degli altri genera, contempla quattro status) trova nello status qualitatis il suo status centrale (Lausberg 1998: 110).
11 Cf. Matt 2005: 26, 30-31, 37, 40.
12 Per facilitare al lettore la comprensione dell'analisi del Poslanie, che non possiamo citare integralmente, assegniamo ai versetti una numerazione progressiva, basata sulla partizione sintattica del testo. L'analisi retorica che proponiamo avrebbe potuto essere molto più dettagliata. Per non appesantire il discorso e dovendoci limitare in lunghezza, abbiamo scelto di concentrarci sulle figure di pensiero, tralasciando, salvo pochi casi, le figure di parola. Ne segnaliamo la presenza indicandone il nome a ogni occorrenza. Per la terminologia retorica facciamo riferimento a Lausberg 1998. Dei passi che citiamo in traduzione italiana offriamo il testo slavo-ecclesiastico fra parentesi o in nota.
13 ...
14 "In verità il bene è Dio" (...): Politeia II 379c. La fonte è stata individuata da J.V. Haney (1973: 141). Come ha mostrato N.V. Sinicyna (1977: 95), il passo è ricavato dal Lexicon di Suidas.
15 Garzaniti 2009, Id. nella presente raccolta.
16 ...
17 ...
18 "in breve non con lettere vuote, ma ricolme come spighe di amore per l'uomo" (...).
19 "il monaco Massimo, che ha scritto queste cose" (...).
20 ...
21 ...
22 ...
23 ...
24 ...
25 Cf. Puliafito 2004: 122-133.
26 Cf. Genette 1989: 204-206.
27 Corrisponde al greco ... (Djacenko 1993: 487).
28 Tomelleri 2010.
29 "può armare i lettori in maniera efficace e adeguatissima" (...).
30 ...
31 ...
32 ...
33 Il dedicante elenca i loro nomi in un'enumeratio (v. 29), per poi rappresentarli attraverso una regressio che si protrae fino al v. 42. La caratterizzazione di ognuno, che è sempre orientata a evidenziarne le qualità e i meriti esegetici, può essere espressa nella forma di un characterismus, di un'ethopoeia, o di entrambe queste figure, e, talvolta, può essere accompagnata da un'eulogia (vv. 30, 32-33, 36-37, 40, 42), o avvalorata da un'apomnemonysis (vv. 30, 37, 40).
34 ...
35 L'enumeratio introduce un'eulogia di entrambi, che si realizza attraverso alcuni procedimenti iperbolici densi di reminiscenze bibliche, e che motiva, in chiusura, una metastasis: per esegesi allegorica e per ortodossia, Basilio Magno e Giovanni Crisostomo superano tutti gli altri autori; hanno fama di sapienti e di santi; le qualità della loro esegesi sono universalmente note - "tutto il mondo, e il mare e le isole sono ricolmi della santità di quelli, e della sapienza e dell'intelletto che ricevettero in dono da Dio" (....) -; "non c'è nessuno che non abbia udito le loro trombe che saggiamente parlano" (...), e appare dunque superfluo attardarsi su questo punto (v. 44).
36 Dopo aver elencato i loro nomi (v. 46), il dedicante li rappresenta nella forma di una regressio che si protrae fino al v. 50. Le figure privilegiate in questa parte sono l'ethopoeia e l'eulogia, che si ripetono in combinazione fissa nei vv. 46-49, e il characterismus, che informa il v. 50.
37 ...
38 Anche in questo caso il criterio compositivo è enunciato in apertura e precede l'enumeratio degli esegeti (v. 51), che poi, secondo lo stesso schema espositivo adottato in precedenza, saranno caratterizzati attraverso una regressio estesa fino al v. 59. La rappresentazione degli esegeti poggia nuovamente sulle figure del characterismus (vv. 51, 55), dell'ethopoeia (vv. 57-58), e dell'ethopoeia con eulogia (vv. 54-56). Nel caso dei due Teodoro, si assiste inoltre a una duplicazione dello schema enumeratio-regressio (vv. 55-57).
39 Insieme al criterio di composizione cambia anche lo schema espositivo: se prima il dedicante offriva un elenco degli autori per poi rappresentarli in regressio, ora, invece, li nomina e li caratterizza in progressio. La descrizione, inoltre, non è più orientata a illustrare le doti esegetiche di ogni autore, ma informa pressoché esclusivamente sulla frequenza di quel dato autore nel libro.
40 Il dedicante li enumera offrendo per ognuno un breve characterismus e una breve ethopoeia.
41 ...
42 Potrebbe trattarsi di un riferimento liturgico al kontakion della Trasfigurazione (cf. Maksim Grek 1910: 198).
43 "Pur essendo noi naturalmente greci per lingua..." (...). Come appare evidente da questa affermazione, Massimo il Greco era stato accompagnato in Russia da alcuni collaboratori greci, che, insieme a quelli russi, lo affiancavano nel lavoro di traduzione. Di questo si trova conferma nella parte conclusiva del Poslanie, quando Massimo chiede il ritorno sul monte Athos per sé e i suoi fratelli (cf. infra, v. 99).
44 "il discorso ellenico trabocca per la gran quantità dei segni e dei concetti dell'espressione" (...).
45 "non omettemmo nulla, nei limiti delle nostre possibilità" (...).
46 "come se lo avessi fatto per temerarietà" (...).
47 "conviene, dunque, che si scriva 'peccato'" (...).
48 "Conviene, allora, che si scriva in questo modo: 'Per Saul ciò si compì anche fisicamente, poiché cadde sulla spada che aveva estratto contro Davide, e ne morì" (...).
49 ...
50 Cf. Puliafito 2004: 126-127, 133-134.
51 ...
52 ...
53 "come gli uccelli di nido attendono chi li nutre" (...).
54 ...
55 ...
56 "A Lui ogni gloria e onore e venerazione, con il Padre suo che è senza principio, e il Santissimo e beato suo Spirito che dà la vita. Ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen" (...).
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Copyright Firenze University Press 2010
Abstract
Sempre a scopo cautelativo, aggiunge una seconda motivazione all'idea che ha appena espresso (aetiologia): il greco - afferma - è una lingua che offre infinite possibilità espressive, sia a livello di significante, sia di significato44, come avevano capito gli antichi retori; pertanto, per la sua corretta resa in traduzione, si renderebbero necessari ancora molto tempo e lavoro (v. 74). La supplica, a sua volta, poggia sull'encomium dell'opera donata, che si realizza attraverso una gradatio anche metaforica finalizzata a mostrare il progressivo manifestarsi della grazia di Dio nella storia attraverso i suoi intermediari: il dedicatario è ora definito anima amabile, onesta a Dio e regale, uomo glorioso al pari degli antichi imperatori, esempio di bellezza e sapienza per i sovrani a lui contemporanei, protagonista di gesta eroiche per i sovrani futuri, sovrano della Rus' ma degno di regnare su tutto l'universo; dopo averne esaltate le doti, il dedicante lo supplica di accogliere il libro, ispirato da Dio e dono di Dio; la grazia di Dio - spiega, infatti, - lo ha concesso agli uomini prima attraverso Davide, e poi ha illuminato (...) la sapienza ivi racchiusa ispirando gli esegeti, che ne hanno disseppellito il tesoro portandolo alla luce (...) Quindi, attraverso la stessa immagine metaforica offerta nel v. 94, è espresso l'auspicio "che un tale tesoro raccolto da Dio non sia nuovamente nascosto in forzieri, come in passato"51; se questa condizione sarà soddisfatta, allora "la grazia del sole razionale del Consolatore risplenderà su tutti in modo indiviso con i suoi raggi"52, la moltitudine degli ortodossi ne trarrà beneficio, la generazione presente benedirà il dedicatario-sovrano come suo benefattore, e il suo nome risuonerà imperituro sulla bocca di tutti (v. 97). 35 L'enumeratio introduce un'eulogia di entrambi, che si realizza attraverso alcuni procedimenti iperbolici densi di reminiscenze bibliche, e che motiva, in chiusura, una metastasis: per esegesi allegorica e per ortodossia, Basilio Magno e Giovanni Crisostomo superano tutti gli altri autori; hanno fama di sapienti e di santi; le qualità della loro esegesi sono universalmente note - "tutto il mondo, e il mare e le isole sono ricolmi della santità di quelli, e della sapienza e dell'intelletto che ricevettero in dono da Dio" (....) -; "non c'è nessuno che non abbia udito le loro trombe che saggiamente parlano" (...), e appare dunque superfluo attardarsi su questo punto (v. 44).
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